martedì 11 gennaio 2011

EGITTO: DOSSIER SULLA QUESTIONE NAZIONALE E QUELLA RELIGIOSA


La Mezzaluna e la croce:
a simboleggiare la fratellanza
tra musulmani e cristiani in
Medio oriente
I copti, i musulmani e la crisi finale del regime di Mubarak

di Medarabnews*

«Quando l’Europa si indigna per gli attacchi ai danni dei cristiani in Egitto o altrove in Medio Oriente, definendo tali attacchi come vere e proprie “persecuzioni...»
Il 2011 si è aperto tragicamente per l’Egitto. Un attacco terroristico alla Chiesa dei Due Santi ad Alessandria ha lasciato sul terreno oltre 20 morti e decine di feriti. Sono seguite furiose manifestazioni e scontri fra cristiani copti e forze dell’ordine, a conferma delle forti tensioni a sfondo confessionale esistenti nel paese.
L’attentato ha sprofondato l’Egitto in uno stato di shock. Espressioni di condanna nei confronti di quanto è accaduto, e di solidarietà nei confronti della comunità copta, sono giunte da tutte le forze politiche, dai Fratelli Musulmani, dalla moschea di al-Azhar – la più importante istituzione musulmana del paese – e dal governo.
Manifestazioni di solidarietà si sono avute anche a livello popolare: diversi musulmani egiziani si sono offerti come “scudi umani” per impedire ulteriori attacchi alle chiese da parte di militanti islamici. Molti utenti di Facebook hanno adottato il logo della croce e della mezzaluna unite, con lo slogan “una nazione per tutti”, come immagine del proprio profilo.
E’ stata pressoché unanime l’ammissione che questa tragedia è stata resa possibile dalla crescente diffidenza esistente fra cristiani e musulmani egiziani, dal clima di intolleranza nel paese, e dai difficili rapporti fra la Chiesa copta e il governo. Quest’ultimo è stato accusato da molti di essere il principale responsabile dell’aggravarsi delle tensioni confessionali.
Allo stesso tempo, numerosi osservatori, esponenti politici ed intellettuali egiziani hanno affermato che dietro questo attentato molto probabilmente vi sono mani straniere, che hanno sfruttato la debolezza della società e dello Stato egiziani per colpire il paese.
E’ stato fatto il nome di al-Qaeda in Iraq, che lo scorso novembre aveva minacciato di compiere attacchi contro i cristiani nella regione, ed in particolare contro i copti in Egitto, ma molti hanno puntato il dito anche contro il tradizionale nemico degli arabi, Israele, e contro il suo servizio segreto, il Mossad, ritenuti avversari sempre pronti a destabilizzare con ogni mezzo i vicini paesi arabi.
Nel frattempo, il grande risalto mediatico dato all’attentato a livello internazionale ha suscitato un’ondata di indignazione in Europa e in Occidente, spingendo molti a parlare – anche sulla scorta di altri episodi verificatisi in passato, come la carneficina consumatasi lo scorso 31 ottobre in una chiesa di Baghdad – di una vera e propria “persecuzione” che sarebbe in atto contro i cristiani in Medio Oriente e nel mondo.
L’assunto più o meno esplicito alla base di questa ondata di indignazione è che i musulmani sarebbero direttamente o indirettamente responsabili di questa persecuzione, avendo lasciato che le loro frange più estremiste colpissero indisturbate le minoranze cristiane.
Le reazioni europee, che volontariamente o involontariamente hanno enfatizzato la prospettiva di un conflitto religioso, o di uno scontro di civiltà, hanno a loro volta rafforzato presso gli egiziani e gli arabi la sensazione che l’Egitto e l’Islam – e non solo i cristiani – siano sotto attacco, essendo diventati il bersaglio di un diluvio di accuse internazionali, oltre che vittime di un attentato che, se questa volta ha avuto i copti come obiettivo primario, in realtà colpisce il tessuto arabo ed islamico in generale (anche 13 musulmani sono rimasti uccisi nell’attentato), e rientra in un quadro di attacchi terroristici e di conflitti che nel loro complesso hanno l’effetto di lacerare e disgregare le società mediorientali.
Si può dunque dire che, chiunque si nasconda dietro il massacro di Alessandria, gli obiettivi che si volevano raggiungere con questo attentato sono stati in gran parte conseguiti: colpire il tessuto sociale di un importante paese arabo, fomentare le tensioni confessionali ed aggravare la situazione delle minoranze in Medio Oriente – fra l’altro rafforzando la sensazione che esse rappresentino un corpo separato all’interno delle società arabo-islamiche, invece che un loro elemento fondante – e dare nuova linfa alla retorica dello scontro di civiltà.
A ben guardare, si tratta di obiettivi comuni a tutti coloro che, sia nel mondo islamico che nel mondo occidentale, promuovono la logica di un conflitto fra Occidente e Islam, e di conseguenza considerano le minoranze – o quantomeno vogliono dipingerle – come un corpo estraneo al mondo islamico che sarebbe, alternativamente, vittima di quest’ultimo o (potenziale) alleato della “civiltà occidentale”.

LA PROFONDA CRISI DELL’EGITTO

L’attentato di Alessandria rappresenta dunque una svolta in Egitto e in Medio Oriente, un evento che per la prima volta ha esportato nel più popoloso (e, almeno storicamente, più influente) paese arabo scene tipiche dell’Iraq e talvolta del Libano.
Esso solleva numerosi interrogativi a cui non è stata ancora data risposta. Ma allo stesso tempo contribuisce a puntare i riflettori sulla crisi dell’Egitto, un paese che, dopo essere stato per decenni il leader del mondo arabo, ha perso ormai da anni il proprio prestigio, il proprio ruolo regionale, e la propria identità, ed è alle prese con un declino politico e sociale di cui ancora non si vede la fine.
In vista del delicato passaggio rappresentato dal trasferimento dei poteri dal presidente Mubarak attualmente in carica ad un successore non ancora designato – passaggio che potrebbe avvenire in coincidenza con le elezioni presidenziali della prossima estate, o forse soltanto dopo la scomparsa dell’anziano presidente – il regime sta cercando di rafforzare sempre più il proprio controllo sulle istituzioni del paese per evitare che la successione al potere possa essere intralciata da eventuali oppositori.
Le elezioni legislative svoltesi a cavallo fra novembre e dicembre, caratterizzate da brogli e irregolarità, hanno rappresentato l’occasione che il regime cercava per assicurarsi un controllo praticamente assoluto del parlamento, estromettendo di fatto dal processo politico tutti i partiti della debole e divisa opposizione.
Nel frattempo continua ad aggravarsi la crisi sociale nel paese, caratterizzata da una povertà diffusa (nonostante la consistente crescita economica registrata dall’Egitto negli ultimi anni), da elevati tassi di disoccupazione, da un crescente divario fra ricchi e poveri, e da una progressiva disgregazione del tessuto sociale.
A giudizio di numerosi osservatori, il caso egiziano rappresenta un tipico esempio del fallimento del progetto di Stato-nazione nel mondo arabo. In un paese in cui il regime al potere è interessato unicamente alla propria sopravvivenza mentre la maggior parte delle componenti della società è esclusa dal processo politico, ed in cui gli apparati di sicurezza vengono utilizzati essenzialmente per proteggere il regime invece che per garantire il rispetto della legalità, le istituzioni dello Stato risultano deboli e disfunzionali, e soggette ad una progressiva delegittimazione.
I diversi gruppi sociali, dal canto loro, cercano garanzie e protezioni al di fuori di tali istituzioni, e spesso le trovano nell’affiliazione religiosa: la moschea e la chiesa in molti casi erogano quei servizi che lo Stato non garantisce. Ma questa situazione a sua volta contribuisce a frammentare il tessuto sociale e ad indebolire il valore di cittadinanza e il senso di appartenenza nazionale.
La debolezza dello Stato ed il suo carattere non democratico sono dunque, a giudizio di molti, uno degli elementi chiave del progressivo inasprimento delle tensioni settarie e confessionali, in Egitto come in altri paesi del mondo arabo.

NASCITA E SVILUPPO DELLE TENSIONI CONFESSIONALI

Storicamente, l’origine di tali tensioni va però fatta risalire all’intervento coloniale delle potenze europee in Medio Oriente, di cui le ingerenze inglesi e francesi nell’impero ottomano – proprio con il pretesto di proteggere le comunità non musulmane – costituirono il preambolo.
(Va poi rilevato che l’intervento straniero si fa sentire pesantemente ancora oggi nella regione, ad esempio in Iraq, dove l’invasione militare americana ha avuto un ruolo determinante nel disegnare il nuovo Stato iracheno su basi etniche e settarie, contribuendo in grande misura ad approfondire le divisioni tra sunniti, sciiti e curdi).
In Egitto, l’armonia confessionale fra cristiani e musulmani che aveva regnato nel paese durante la lotta per l’indipendenza e nella successiva fase monarchica (le colpe della monarchia furono altre) cominciò a incrinarsi con la rivoluzione degli “ufficiali liberi” guidata da Gamal Abdel Nasser nel 1952.
Successivamente Anwar al-Sadat, divenuto presidente dopo Nasser, ricorse a una strumentalizzazione politica dell’Islam, alleandosi con i movimenti islamici per neutralizzare l’opposizione laica, socialista e marxista, salvo poi dover fare i conti con la collera di tali movimenti quando firmò il trattato di pace con Israele.
Di fronte a un rafforzamento della retorica religiosa e confessionale nel paese, la minoranza cristiana cominciò a percepire se stessa sempre più come una comunità unitaria caratterizzata da un’identità egiziana locale, la quale andò a scapito della sua precedente identità araba.
Bisogna ricordare che storicamente i cristiani dell’Egitto e di altri paesi mediorientali si sono sempre considerati parte integrante del mondo arabo, ed hanno avuto un ruolo di primo piano nelle lotte per l’indipendenza di questi paesi, così come nei movimenti panarabi.
Il fatto che la comunità copta abbia cominciato a percepire se stessa come una comunità separata dal resto del tessuto sociale egiziano ha rappresentato dunque un fenomeno nuovo. Parallelamente al costituirsi di questa nuova identità, la Chiesa copta cominciò ad assumere un ruolo politico fin dagli anni ’70 in Egitto, emergendo progressivamente come unico rappresentante della comunità cristiana di fronte allo Stato.
Ciò da un lato fece sì che i cristiani laici si ritrovassero privati di una propria rappresentanza politica, dando la falsa impressione che la comunità copta fosse politicamente omogenea, e dall’altro generò un rapporto distorto fra tale comunità e lo Stato, a causa del ruolo politico acquisito dalla Chiesa.
Tutto questo andò di pari passo con un rafforzamento della retorica islamica in Egitto e negli altri paesi arabi, in primo luogo in conseguenza del fallimento del panarabismo (che portò alla fine delle speranze in un’unità panaraba, ed al radicamento di Stati autoritari e non democratici nei singoli paesi arabi), e successivamente in conseguenza della campagna panislamica appoggiata dagli Stati Uniti, e finanziata dall’Arabia Saudita e da altri paesi arabi, per combattere i sovietici in Afghanistan.
Attraverso tale campagna, i regimi arabi non democratici tentarono di dirottare contro un “nemico esterno” la forza d’urto dei movimenti islamici sorti come movimenti di opposizione all’interno dei loro paesi, “esportando” all’estero l’ideologia islamista. Questo tentativo si sarebbe risolto in un boomerang per tali regimi – come la storia ha poi dimostrato – con la nascita di al-Qaeda.

LA MANIPOLAZIONE DELLE DIVISIONI CONFESSIONALI DA PARTE DEL REGIME

Il ruolo politico della Chiesa copta è emerso chiaramente, ad esempio, in occasione delle elezioni presidenziali del 2005, quando il papa copto Shenuoda III intervenne personalmente per mobilitare i cristiani egiziani a votare per il presidente Mubarak. Egli sperava che in cambio il regime avrebbe preso in considerazione le rivendicazioni dei copti (essere maggiormente rappresentati nelle istituzioni locali e statali, ottenere una legge non discriminatoria per quanto concerne la costruzione dei luoghi di culto, ecc.).
In generale, la Chiesa copta ha cercato di mantenersi in buoni rapporti con il regime sperando di ricavarne qualche vantaggio, ma il calcolo si è dimostrato errato. Dal regime essa ha ottenuto ben poco, mentre è invece stata accusata da diversi esponenti dell’opposizione egiziana di lasciarsi manipolare, o addirittura di spalleggiare il governo, facendo così gli interessi di un regime non democratico che non solo non riconosce i diritti dei copti, ma calpesta quelli dell’intero popolo egiziano.
Da più parti la Chiesa copta è stata invitata a smettere di offrire la propria lealtà al regime senza ricevere nulla in cambio, e ad unirsi alle file dell’opposizione per chiedere un governo democratico che garantisca pari diritti a tutti i cittadini, cristiani e musulmani.
Un altro esempio di come il regime manipola il discorso religioso e le differenze settarie lo si può trarre dal suo atteggiamento nei confronti del salafismo egiziano. Il movimento salafita ha cominciato a diffondersi in Egitto soprattutto nell’ultimo decennio. Si tratta di un movimento dogmatico, letteralista nell’interpretazione dei testi sacri, che era estraneo alla tradizione musulmana egiziana, essendo importato dall’Arabia Saudita.
Dopo le elezioni parlamentari del 2005, nelle quali i Fratelli Musulmani raggiunsero un ottimo risultato ottenendo 80 seggi in parlamento, il regime avviò una campagna di repressione nei confronti di questo movimento islamico lasciando invece campo libero alla diffusione del salafismo, visto come un contrappeso ai Fratelli Musulmani.
Le correnti salafite, che hanno avuto nei canali satellitari (sauditi, e non solo) un potente mezzo di propaganda, e che hanno fatto proprio della città di Alessandria una delle loro roccaforti, sono essenzialmente apolitiche, e come tali non sono state considerate come una minaccia diretta per il regime, a differenza dei Fratelli Musulmani. Ma l’Islam propugnato da tali correnti è molto più conservatore ed intollerante di quello che contraddistingue i Fratelli Musulmani, e le recenti tensioni settarie scoppiate proprio fra salafiti e copti lo hanno dimostrato.
Non si può poi escludere che correnti minoritarie del salafismo approdino a un discorso politico (inevitabilmente intransigente), e ricorrano a mezzi violenti per promuoverlo.

LE IMPLICAZIONI DELL’ATTENTATO

E’ in questo clima di crescente intolleranza, di oppressione politica, e di frammentazione sociale che ha avuto luogo l’attentato di Alessandria. La gran parte dei commentatori egiziani concorda sul fatto che è stato questo clima a far sì che l’Egitto diventasse un bersaglio alla portata dei terroristi.
Resta l’interrogativo su chi si nasconda dietro questo atto terroristico. Se è vero che le tensioni confessionali sono in continuo aumento in Egitto, è altrettanto vero che l’episodio di Alessandria apre un capitolo del tutto nuovo nella storia di tali tensioni, le quali non erano mai sfociate in azioni terroristiche.
La scelta dell’obiettivo, la tempistica, e le modalità dell’attentato – che sono nuove per l’Egitto – hanno spinto molti analisti egiziani ed arabi a ritenere che “ambienti stranieri” abbiano voluto approfittare dell’attuale debolezza del paese e delle sue tensioni interne per colpirlo.
La dinamica dell’attentato non è stata ancora completamente chiarita, né si conosce l’identità di chi ha compiuto materialmente l’attacco. Molti hanno fatto il nome di al-Qaeda in Iraq come possibile responsabile, anche sulla base del fatto che lo “Stato Islamico dell’Iraq”, un gruppo affiliato all’organizzazione, aveva minacciato di colpire i copti egiziani lo scorso novembre. Ma, ad oggi, non è pervenuta alcuna rivendicazione.
In ogni caso, simili ipotesi non aiutano molto a definire la vera identità dei mandanti. Al-Qaeda – da anni ormai – non è più un’organizzazione dotata di una struttura unitaria, e la stessa al-Qaeda in Iraq è più che altro una galassia di cellule estremiste autonome che emergono e scompaiono rapidamente (e che sono eventualmente anche manipolabili da altri attori). Quel che è certo è che, se l’attentato è stato pianificato da “ambienti” esterni all’Egitto, le attuali tensioni interne al paese possono senza dubbio aver facilitato a tali ambienti il compito di reclutare affiliati a livello locale.
E’ altrettanto evidente che l’attentato di Alessandria, così come altri attacchi nei confronti di minoranze – cristiane o meno – in altri paesi arabi, sono solo il sintomo di un crisi politica e sociale ormai dilagante in tali paesi, e non un fenomeno a sé stante.
Il mix di regimi non democratici, incapaci di governare e sempre più impopolari, e di ingerenze straniere che scatenano conflitti dallo Yemen, all’Iraq, al Libano, alla Palestina, non può che portare alla progressiva disgregazione delle società arabe e a indicibili sofferenze per tutti i gruppi che le compongono – siano essi maggioritari o minoritari.
A questo proposito un’ultima osservazione appare doverosa: quando l’Europa si indigna per gli attacchi ai danni dei cristiani in Egitto o altrove in Medio Oriente, definendo tali attacchi come vere e proprie “persecuzioni”, mentre ignora le sofferenze di intere popolazioni nella regione; quando denuncia i massacri di cristiani in Iraq mentre dimentica le continue stragi di sunniti e sciiti, in gran parte dovute al contributo determinante dell’intervento “occidentale” in quel paese; quando condanna l’estremismo “islamico” mentre tace dei massacri di musulmani afghani che avvengono per opera delle forze NATO dispiegate in Asia centrale, o distoglie gli occhi quando vengono trucidati palestinesi e libanesi per mano dei bombardamenti israeliani; quando agisce in questo modo, lungi dal “proteggere” i cristiani in Medio Oriente, l’Europa favorisce la logica dello “scontro di civiltà” e fa apparire tali cristiani come “alleati” di un Occidente ostile, invece che come una componente essenziale di un mondo – quello arabo-islamico – che storicamente è sempre stato caratterizzato da un tessuto multiconfessionale e multietnico.

*Fonte: Medarabnews

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