lunedì 30 dicembre 2013

ABYSSUS ABYSSUM INVOCAT. Lo spauracchio del fascismo e come non si combatte contro di esso di Moreno Pasquinelli

30 dicembre. E' ancora presto per stabilire cosa resterà del Movimento del 9 dicembre, giornalisticamente liquidato come "i forconi". Questa semplificazione ci aiuta tuttavia ad abbozzare una risposta, ovvero che esso potrebbe presto rioccupare la ribalta sociale.

Torniamo infatti al potente movimento che paralizzò la Sicilia nel gennaio 2012. Noi del Mpl fummo tra i pochi che, oltre a sostenerlo, intuimmo che esso non era una meteora. Non fu per caso se Mariano Ferro fu uno degli ospiti, nel marzo 2012, della nostra assemblea costitutiva.

Il Documento conclusivo di quella assise sosteneva:
«In questo contesto [di acutissima crisi sociale, Ndr] non c’è dubbio che emergeranno dal basso nuovi protagonisti. Come risultato del fallimento delle classi dominanti e dei loro partiti, entreranno in scena nuovi soggetti, sociali e politici, che saranno costretti a farsi largo nel solo modo che gli è consentito: la lotta diretta, la sollevazione. Che fisionomia avranno queste forze? Saranno quelle che la crisi economica e sociale, giunta dopo un ventennio di disgreganti politiche liberiste, ha già configurato. Tutto il popolo lavoratore è straziato dalla crisi sistemica: occupati e disoccupati, lavoratori dipendenti e autonomi, operai e commercianti, operai e artigiani, giovani e pensionati, agricoltori e impiegati». [Non c'è tempo da perdere]
Che dopo quasi due anni il Movimento del 9 dicembre si sia riallacciato alla rivolta siciliana del gennaio 2012 (non fosse che per il riconfermato ruolo di protagonista di Mariano Ferro e per le medesime modalità di lotta scelte) ci dice che vedemmo giusto, che i forconi erano il vagito di un neonato fenomeno sociale. Alcuni sinistrati snobbarono invece i forconi come una sicula jacquerie o, peggio, lo condannarono come fascistoide, malgrado la subitanea rottura dell'ala Ferro con quella minoritaria del trapanese Martino Morsello.

Lo stesso anatema, l'accusa di essere un fenomeno di tipo fascista, è stato inizialmente lanciato da certi "babbei" anche contro il Movimento del 9 dicembre. Siccome sin dall'inzio abbiamo preso parte al Movimento, i medesimi "babbei" ci hanno bollato come rosso-bruni, tacciati di esserci alleati ai fascisti e di agevolare dunque la loro avanzata.
 
L'incriminazione di rosso-brunismo è evaporata presto, non solo per come i militanti del Mpl hanno agito concretamente, ma anzitutto perché il giudizio su cui essa si fondava, ovvero che il 9/12 era un fenomeno fascista e reazionario, si è rivelato completamente sballato. I suddetti "babbei" han dovuto infatti compiere una maldestra e opportunistica marcia indietro. Resipiscenza? Per niente! Essi hanno raddrizzato il tiro solo dopo che da più parti, a sinistra, gli hanno tirato le orecchie per le loro analisi tanto primitive e grossolane. I "babbei" possono scoprirsi furbi, ma non gli si addicono né saggezza né onestà intellettuale. Vanno presi sul serio, ma senza esagerare.

Non tutti i sinistrati tuttavia sono in malafede o affetti da opportunismo. Ad altri si deve riconoscere onestà intellettuale, per quanto involucrata in un disarmante dottrinarismo. Questi dogmatici dopo aver sostenuto che:
 «E’ completamente fuori strada chi, dopo aver appoggiato il M5S, ora appoggia e partecipa a movimenti di questi tipo per cercare di “spostarli” a sinistra. Sono posizioni pericolose che contribuiscono solo a rallentare la vigilanza nei confronti del pericolo di destra, a ostacolare la mobilitazione del proletariato nella lotta contro l’offensiva reazionaria, e che rischiano di gettare nelle braccia della reazione più nera i suoi settori arretrati»;
hanno quindi esibito un noto passaggio del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels:
«I ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l'artigiano, il contadino, tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancora più, essi sono reazionari, essi tentano di far girare all'indietro la ruota della storia. Se sono rivoluzionari, lo sono in vista del loro imminente passaggio al proletariato; cioè non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, abbandonando il proprio modo di vedere per adottare quello del proletariato». 
Per costoro questa frase è univoca, una specie di sentenza passata in giudicato: la piccola borghesia, nel caso entri in rotta di collisione con la borghesia, non può che farlo per scopi reazionari, poiché  reazionario sarebbe da parte sua opporsi alla propria rovina, alla ineluttabile proletarizzazione. 

Dal punto di vista psicologico siamo davanti ad un irrazionale e cieco disprezzo della piccola borghesia poiché essa, ove si ribelli alla classse dominante, può solo partorire fascismo. Poggia forse, questo timor panico, su basi storiche? Ovviamente no. Su che poggia allora? Siamo in presenza di una trasposizione sul piano politico del discorso metafisico del male, l'idea innatistica che senza la Grazia, a prescindere da ogni loro opera, gli uomini avrebbero incise sulla loro carne, a causa del peccato originale di Adamo ed Eva, le stimmate della perdizione.

I dogmatici rassomigliano come gocce d'acqua e anche per altri versi ai rigoristi ed ai tradizionalisti religiosi. Per questi ultimi tutto ciò che doveva essere detto riguardo alla Verità starebbe scolpito nei Sacri libri. I comuni mortali potrebbero semmai limitarsi a rendere esplicito, della parola Divina, ciò che è implicito, decodificando i passaggi eventualmente esoterici e criptici.

Non è che ci piaccia trastullarci nell'esegetica, ma la frase che i dogmatici ci oppongono ha un carattere evidentemente anfibologico, contiene una doppia chiave interpretativa. Marx non dice infatti che i ceti medi sono metafisicamante condannati ad essere reazionari. Egli ammette, anche se lo fa con locuzione ellittica, che possono assolvere la funzione opposta, addirittura rivoluzionaria.

Marx ci invita dunque, per giudicare la natura di un dato movimento sociale, a non fermarsi alle sue premonizioni, ma a svolgere un'indagine specifica e multilaterale, ovvero non meramente sociologica, ma politica e oseremo dire morale e spirituale. 

E' certo che dal punto di vista sociologico il Movimento del 9 dicembre è stato principalmente (ma non solo, come vedremo) un sussulto di ceto medio imbestialito. E non c'è dubbio che si è trattato di una rivolta causata da uno dei macroscopici effetti della crisi sistemica: la sua pauperizzazione. 
I dogmatici a questo punto esclamano: "Ecco, vedete?! Questi schifosi bottegai si rifiutano di diventare dei proletari". Come se si dovesse esser contenti per l'essere gettati sul lastrico; come se, per dar prova del proprio carattere anticapitalistico, i ceri medi noin dovrebbero incazzarsi contro chi li spinge alla fame, ma dovessero fare salti di gioia per il fatto di diventare finalmente schiavi salariati. 

Lasciamo questi discorsi puerili ai mistici della (inesistente) verginità proletaria.

Fascista è la rivolta del ceto medio quando, invece di identificare nelle oligarchie capitalistiche il proprio nemico, in combutta con esse, lo individua nel proletariato rivoluzionario e gli si scaglia contro per schiacciarlo con la forza.

Corrisponde a questo elementare ma decisivo criterio il Movimento del 9 dicembre? E' ovvio che no! E per almeno quattro buone ragioni. 

La prima è che manca all'insorgere di una reazione fascista il suo principale movente: l'esistenza di un movimento proletario-rivoluzionario di massa e offensivo, tale da spaventare il ceto medio e renderlo disponibile come mano armata extralegale del grande capitale. Detto in soldoni: il fascismo è una delle forme della controrivoluzione, più precisamente un arnese della guerra civile preventiva per schiacciare sul nascere la rivoluzione socialista montante. Non fosse che per questo ogni analogia tra la fase che viviamo e quella in cui dilagò il fascismo è improponibile.

La seconda ragione per cui il Movimento del 9 dicembre non corrisponde ad un idealtipo di movimento fascista o reazionario è la piattaforma su cui i promotori hanno chiamato alla mobilitazione. Vale la pena ricapitolare i suoi sette punti: «(1) contro la globalizzazione, (2) contro l'Unione europea, (3) per riprendersi la sovranità popolare e monetaria, (4) per riappropriarsi della democrazia, (5) per il rispetto della Cosituzione, (6) per cacciare il governo dei nominati, (7) per difendere la dignità del popolo italiano».
Il carattere democratico di questa piattaforma salta agli occhi. Occorre scambiare l'internazionalismo con la globalizzazione (e quindi considerare di "regressiva" la rivendicazione della sovranità nazionale), o agitarsi sotto la sottana del Pd (e chiedere "più Europa"), per considerarla "reazionaria".

La terza ragione è nella natura politica dei suoi leader. Non la si può ricavare considerando il fattore che essi originano dalla putrefazione del berlusconismo e del leghismo. Se, liberi dalla sindrome dell'antiberlusconismo, si valutassero invece le ragioni e il carattere di questo divorzio, si scoprirebbe facilmente quanto esso sia progressivo e lontano dai fantasmi della fascistizzazione . A chi usa queste origini come atto d'accusa contro i ferro e i Chiavegato vorremmo quindi chiedere con quali soggetti sociali pensa di cambiare questo paese.  Forse coi tre cosiddetti milioni che hanno fatto la fila alle primarie del Pd? O solo con i cascami della "sinistra radicale" che fu? Ammesso che Danilo Calvani sia un fascistoide, la scissione di quest'ultimo con la maggior parte dei portavoce del Movimento —dopo la pagliacciata romana del 18 dicembre  anticipata dal comunicato stampa seguito alla furbesca adesione di Forza Nuova—, è la prova fattuale che questo Movimento si è spurgato presto della sua anima macabra e reazionaria.

La quarta ragione sta nella composita natura sociale del movimento che dal 9 dicembre si è effettivamente messo in moto, ovvero dal fatto che la gioventù proletaria e precaria ha presto, e in molti luoghi, occupato la prima linea dei presidi. Certo a questa epifania non ha corrisposto un livello adeguato di cosiddetta "coscienza di classe". E' vero che il tricolore è stato issato come simbolo coesivo e che il comune sentire si esprimeva nel luogo comune "non siamo né di destra nè di sinistra". Solo chi in questi decenni è vissuto nella sua sterile e paralizzante bolla ideologica poteva aspettarsi qualcosa di diverso. 
Chiediamoci: sono questi due simulacri segno della natura reazionaria della rivolta? E come ci spieghiamo che in questi ultimi anni, nelle stesse battaglie di resistenza degli operai —a cominciare dai 21 giorni di lotta alla FIAT di Melfi del 1994 che davanti alla carica della polizia si sedettero a terra cantando non bandiera rossa ma l'inno di Mameli, fino a quelle degli autoferrotranvieri di Genova dei primi giorni di dicembre—, abbiamo udito gli stessi discorsi e usare gli stessi simboli?

Non c'è alcuna muraglia cinese, né materiale né ideologica, tra gli operai e il ceto medio. E' egemone in entrambi queste classi, l'ideologia liberista ed eurista dominante. Il Movimento 9 dicembre ha una straordinaria importanza, non fosse perché segnala il tramonto della presa ideologica del neoliberismo non più solo negli ambienti sociali che gli erano storicamente refrattari, ma in quel vasto ceto medio che per decenni era la sua roccaforte.

Chi voglia cambiare lo stato di cose presenti è anche in questa mucillaggine sociale, portata ad un alto grado di ebollizione dalla crisi sistemica, che deve agire. Ogni rivoluzione sociale si fa col materiale umano che ti consegna la crisi capitalistica (si badi: non lo sviluppo o la crescita, ma la crisi del capitalismo). Chi è atterrito dal rischio di contaminazione non solo crede poco in sé stesso, chiudendosi nella sua turris eburnea non salverà nemmeno la sua presunta "purezza", e non potrà di certo contribuire a guarire il popolo dalle sue numerose malattie. E la guarigione implica la lotta, una lotta furibonda, che consiste anzitutto nell'aiutare gli oppressi a scrollarsi tutta la merda che secoli di sudditanza hanno loro appiccicato addosso.

Dal di dentro della rivolte dunque, non dal di fuori, è possibile evitare lo sbandamento o la degenerazione reazionaria dei movimenti sociali. 

Per concludere. Non noi, ma la storia, condanna le posizioni dei nostri critici come oggettivamente filo-fasciste. Anche ove il Movimento 9 dicembre fosse stato permeato a fondo di pulsioni reazionarie (e abbiamo visto che così non è stato) la sinistra sovranista avrebbe dovuto prendervi parte e di lì contrastare a viso aperto le tendenze fasciste. Scomunicare le rivolte della piccola borghesia, prenderne le distanze a causa del loro carattere spurio è il miglior servizio che si possa fare ai demagoghi e agli avventurieri, significa lasciare loro campo libero. Agitare compulsivamente lo spauracchio del fascismo quando esso è (ancora) solo un lontano fantasma, più che un invito ragionevole alla "vigilanza" è il sintomo infallibile delle proprie ossessioni paranoiche.

Quel che i paranoidi non capiscono (e comincia ad essere tardi per capirlo) è che il nemico del giorno non sono i nostalgici del fascismo che fu, bensì il mostruoso regime di dittatura globalista che è venuto consolidandosi in nome dell'Europa e della democrazia. Toglietegli i suoi travestimenti ideologici e scoprirete che si tratta a tutti gli effetti di un fratello gemello del fascismo, ovvero della dittatura del capitale finanziario alla sua ennesima potenza.

C'è vita in mezzo a chi l'ha capito e ha deciso di ribellarsi. Afflizione e pena, invece, nella palude di una sinistra malata che rifiuta cocciutamente di sottoporsi a guarigione.

sabato 28 dicembre 2013

ELEZIONI EUROPEE: TSIPRAS CANDIDATO DI CHI? di Leonardo Mazzei

28 dicembre. Sì o no all'offerta pubblica d'acquisto lanciata dall'editorialista di Repubblica? Ecco dove si giocherà davvero il futuro di Rifondazione Comunista
 
Barbara Spinelli ha lanciato la sua Opa. Prima con un'intervista al giornale di Syriza, poi con un articolo su la Repubblica. L'offerta d'acquisto è semplice: il Prc si metta di lato, anzi - meglio - scompaia del tutto e si limiti semmai alla sola manovalanza, che a rappresentare in Italia la candidatura di Alexis Tsipras a presidente della commissione europea si candida direttamente la signora Spinelli. La figlia di Altiero, che fu anche compagna di Padoa Schioppa, uno dei padri dell'euro...

Non sappiano esattamente da chi sia costituito il «piccolo gruppo di persone» che sosterrebbe l'idea di Spinelli, di cui parla ella stessa nell'intervista. Sicuramente alcuni nomi sono rintracciabili nelle firme poste in calce all'insulso appello apparso qualche giorno fa sul Manifesto. Ma quel che conta non sono i nomi, bensì il senso dell'operazione.

Un senso esplicitato di nuovo nell'articolo della vigilia di Natale, dal titolo leggermente immodesto, come si addice al personaggio: «I legislatori del futuro». Il ragionamento che vi viene svolto è abbastanza semplice. Siccome l'attuale ottimismo dei governanti europei è insostenibile, siccome l'alternativa che va prendendo forma è quella del rifiuto dell'euro e dell'Unione, occorre scegliere una terza via, quella che dovrà portare agli Stati Uniti d'Europa. Una formula non utilizzata apertamente, ma che sarebbe l'inevitabile sbocco dell'unione politica di tipo federale che viene auspicata.

Spinelli non è stupida, e dunque non nega la questione della sovranità. Anzi ammette che la sovranità (popolare e nazionale) è stata «sequestrata», ma la sua riconquista non potrebbe che avvenire attraverso una nuova «sovranità europea» da costruire.

Come si vede, niente di nuovo sotto il sole. Si tratta soltanto di una versione più avanzata - che mette apertamente sotto accusa le «inette oligarchie» che avrebbero «guastato» il progetto iniziale - del solito «più Europa» che ci viene propinato da anni. La novità, semmai, sta nel voler colonizzare la cosiddetta «sinistra radicale» europea (in primis, e non è un caso, quella italiana).

Come mai questo progetto? Prima di rispondere è necessario citare integralmente un passaggio decisivo dell'intervista in terra ellenica:

«Vorremmo che in Italia ci fosse una lista civica, di cittadini attivi, una lista di persone della società civile che scelgono Tsipras come candidato alla presidenza della Commissione Europea. Non è semplice, perché abbiamo pochissimo tempo per creare qualcosa. Per farlo ci vorrà tutta l’intelligenza di Alexis Tsipras, come quella che gli ha permesso di formare una coalizione tra le anime della sinistra radicale greca. E’ chiaro che non dovrebbe essere una coalizione dei vecchi partiti della sinistra radicale, perché non avrebbe alcuna possibilità di successo. Abbiamo bisogno di qualcosa di più grande, qualcosa per scuotere la coscienza della società, superando i margini molto stretti delle formazioni politiche della sinistra radicale. Con l’obiettivo di unire le forze della società colpite dalla crisi».

In verità, più che ad «unire le forze colpite dalla crisi», Spinelli mira a deviarle, ad incanalare la crescente opposizione anti-europeista, nell'illusorio alveo della riforma dell'Unione. Quella riforma che i fatti hanno dimostrato impossibile, dato che l'UE è stata concepita, è nata e si è sviluppata fin qui come un vero sistema pensato e realizzato per approfondire il dominio di classe, per cancellare progressivamente ogni diritto sociale, per lasciare campo libero alle forze del capitalismo casinò.

Forse gli spinelliani vorrebbero riequilibrare i meccanismi che hanno portato, col tempo, a succhiare risorse alla periferia per ingrassare il centro costituitosi attorno alla Germania. Ma un simile riequilibrio è semplicemente incompatibile con la logica intrinseca alla moneta unica, che essi si guardano bene dal mettere in discussione, anzi!

Torniamo allora alla domanda centrale: perché questo volersi appropriare della candidatura di Tsipras?

Una ragione va certamente ricercata nell'impossibilità di far vivere una posizione «riformista» come questa nelle forze tradizionali della politica italiana. Il Pd, sia nella sua attuale versione renziana, che in quella precedente, si è sempre presentato e si presenta come una forza europeista tout-court, che ha sì qualche mal di pancia, ma senza poter ammettere troppi distinguo. Una rigidità, ed un servilismo, ben rappresentati più che dall'imberbe segretario dal duo oligarchico Napolitano-Letta. E' su questo che la figlia di Altiero ha rotto col vecchio amico del padre, l'ultras iper-europeista Eugenio Scalfari. Ma se costui è ormai un pittoresco personaggio agghindato da curva sud, la Spinelli siede e vuol continuare a sedere in tribuna centrale.

La sua Opa è l'offerta d'acquisto, che più pubblica di così non si può, di una posizione critica sull'Europa, sui trattati, sull'attuale direzione politica e sulla sua linea austeritaria. Una posizione critica che si vuole normalizzare a tutti i costi, principalmente per una ragione. Quella di impedire la nascita di un polo sovranista di sinistra. L'obiettivo è duplice: indebolire la lotta contro la gabbia dell'euro, delimitare nel campo della destra le forze che si oppongono alla moneta unica.

Senza dubbio la debole posizione rappresentata da Tsipras, a dispetto dell'ampio consenso ottenuto in Grecia, è un varco nel quale operazioni come quella di Spinelli possono provare ad inserirsi. Nella crisi le élite non stanno ferme. Ed anche uno spazio come quello rappresentato dalla Sinistra Europea va in qualche maniera presidiato.

Ora la palla è nel campo di Rifondazione Comunista, ed i primi segnali non sono incoraggianti. Mentre il solito Claudio Grassi ha già fatto conoscere il suo entusiasmo per la lista spinelliana, nella quale il Prc dovrebbe evidentemente confluire quasi di nascosto, è da rilevare come da due giorni il sito nazionale del partito metta in evidenza (su tre articoli in tutto) i due testi di Barbara Spinelli. Che sia questo il regalo di Babbo Natale ai 31mila iscritti a Rifondazione?

Vedremo. Se questo nuovo smottamento dovesse avvenire il Prc potrebbe chiudere da subito i battenti. Parlando evidentemente a nome di una parte del blocco dominante, Barbara Spinelli propone infatti la riforma politica dell'Europa, lasciandone comunque intatta la sua natura liberista. Il recente congresso del Prc ha invece approvato un documento in cui l'Europa è descritta come irriformabile. Anche questa "piccola differenza" verrà superata in vista di un ennesimo pastrocchio elettorale?

Ci auguriamo proprio di no. Di certo (vedi il Grassi pensiero) la cosa non sarà indolore. Avevamo già detto che il congresso aveva lasciato il Prc in mezzo al guado. Bene, l'iniziativa spinelliana un pregio ce l'ha: quello di costringere il partito a decidere su quale sponda collocarsi. Magari tirandone, una volta per tutte, le dovute conseguenze.

giovedì 26 dicembre 2013

2013: CHECK-UP DEL CAPITALISMO ITALIANO di Moreno Pasquinelli

26 dicembre. E' stato appena reso noto l'ultimo aggiornamento del Trade Performance Index a cura dell'International Trade Centre (Itc), braccio operativo dell'Organizzazione Mondiale del Commercio e dell'Unctad. Da esso si evince che l'industria italiana resta seconda in Europa dopo quella tedesca sia per consistenza che per export
Il Sole 24 Ore, per bocca del suo direttore Roberto Napoletano, prende la palla al balzo per fare l'encomio del capitalismo italiano. 
«L'industria italiana —ci dice Napoletano— è prima al mondo nel tessile, nell'abbigliamento, nei prodotti in cuoio e nell'occhialeria. E' seconda al mondo nell'automazione-meccanica (macchine industriali, per gli imballaggi e di precisione), nei manufatti di base (ceramiche, metalli, prodotti in metallo e per l'edilizia) e nei manufatti diversi (articoli di plastica, design-arredo, mobile, attrezzature per la casa). E' sesta al mondo negli alimenti trasformati e custodisce una serie di leadership sui prodotti di qualità della cosiddetta Altagamma».
Tabella n.1: doveva l'export italiano

Non solo i "declinisti" avrebbero torto; Napoletano sostiene che, dati alla mano, l'industria italiana grazie alla cura dimagrante imposta dalla grande crisi, avrebbe compiuto le doverose trasformazioni imposte dalla globalizzazione. 

Tutto va bene madama la marchesa? Ma neanche per sogno. 
I dati strombazzati dal giornale della Confindustria vanno infatti contestualizzati. L'Italia mantiene sì posizioni di leadership, ma in settori per niente strategici. Ha perso da tempo, a causa dello smantellamento deliberato dei settori a partecipazione pubblica, i primati che deteneva in settori chiave come la chimica, la siderurgia di base, l'informatica, la cantieristica, non solo navale. Anche guardando la classifica dei principali paesi esportatori di merci l'Italia è scesa all'ottavo posto, sorpassata da Francia, Olanda e Corea del Sud; esporta per un sesto della Cina, per un terzo degli Stati Uniti e della Germania. [Vedi Tabella n.2]
Tabella n.2: ottavo paese esportatore


Il dato dell'export va poi disaggregato. Sono le piccole e soprattutto medie imprese, e per niente quelle grandi, quelle che spiegano le performances dell'export. E' stato infatti grazie alle medie ed alle piccole imprese orientate sui mercati esteri se il capitalismo industriale italiano è riuscito a tenere posizioni di rilievo nella gerarchia mondiale. Quelle grandi negli ultimi decenni hanno infatti preferito darsi al gioco d'azzardo finanziario, gettarsi nelle bische del capitalismo-casinò, dove i facili guadagni da interesse e rendita superano i profitti industriali.

Questo elemento per cui sono le medie e piccole imprese —quelle incardinate su settori di nuova borghesia imprenditoriale a vocazione familiare-territoriale— a costituire la forza motrice del capitalismo manifatturiero, va a sua volta messo accanto all'altro, quello della moria di massa di altrettante piccole medie aziende, nella gran parte dei casi proprio quelle orientate al mercato interno.

E' vero che  l'industria italiana ha conosciuto nel 2013 un surplus con l'estero di oltre 100 miliardi, ma tenendo conto che 
«Rispetto al gennaio 2008, gli indici destagionalizzati dell'Eurostat ci dicono che il fatturato dell'industria manifatturiera italiana a settembre 2013 risultava caduto del 16,9% contro un calo del 2,8% della Germania. Colpa soprattutto di un autentico crollo del 23% del fatturato domestico italiano rispetto ad una più modesta flessione del 6,3% di quello tedesco».[Il primato industriale italiano, di Marco Fortis. Il Sole 24 Ore del 24 dicembre 2013]
Il giornale della Confindustria si guarda bene dal tentare di spiegare questa enorme sproporzione Germania-Italia e non lo fa perché non vuole mettere l'euro sul banco degli accusati. E' un segreto di Pulcinella che, al netto della crisi sistemica globale, la moneta unica e le severe politiche austeritarie imposte dall'Unione e dalla Bce per tenerlo a galla, sono cause primarie della depressione italiana.
Tabella n.3: il surplus della Germania


Il tabù dell'euro non viene violato, ma i confindustriali riconoscono, a scoppio ritardato, che 
«... è del tutto evidente che le cause della crisi attuale dell'economia italiana vanno ricercate non nell'export ma nelle ricette sbagliate, o quantomeno sproporzionate, che ci sono state imposte dall'UE e che hanno falcidiato le capacità di spesa e di consumo degli italiani».  [Marco Fortis, Ibidem]
Le lacrime di coccodrillo della Confidustria squinziana. Dopo aver sostenuto a spada tratta, a nome di una grande borghesia oramai sostanzialmente parassitaria e rentier, la macelleria austeritaria e recessiva del governo Monti in nome dell'Europa, ora si ammette che si è trattato di un..."errore". E' il segno delle pelose critiche squinziane alla Legge di Stabilità del Governo Letta, l'invito a "battere i pugni sui tavoli europei" nella speranza (vana) di convincere Commissione, Bce e Berlino ad ammorbidire le dure condizioni imposte a Roma.

Ancora una volta a scoppio ritardato Il Sole 24 Ore scopre l'acqua calda:
«Purtroppo la storia degli ultimi trenta anni di tutti i Paesi avanzati e maturi ci dice che se il tuo mercato nazionale non "tira", l'export da solo non basta per far crescere decentemente il Pil. Per capirci, l'export non è sufficiente oggi nemmeno alla super-competitiva Germania, il cui PIL aumenta ormai da tre anni solo grazie alla spinta della domanda interna». [Marco Fortis, Ibidem]
Tabella n.4: il ciclo del debito pubblico
Resipiscenza di tipo keynesiano? Allentare i vincoli di bilancio per aumentare la domanda aggregata? Consentire allo Stato di far ripartire gli investimenti e quindi aumentare la spasa pubblica? Ammettere che il Fiscal compact è un cappio al collo dell'economia italiana? Per niente! 

Sentite infatti come Fortis chiude la sua disamina: 
«Dunque per l'Italia c'è un unico modo per tornare a crescere: riformare e sburocratizzare lo Stato». [Marco Fortis, Ibidem]
La montagna ha partorito un microscopico topolino neoliberista! E questi sono i suggeritori di Letta Renzi e compagnia? Viene da sbellicarsi dal ridere.


martedì 24 dicembre 2013

BECCAMORTI E BABBEI

24 dicembre. I beccamorti di regime tirano un sospiro di sollievo per il ripiegamento del Movimento 9/12. La scossa li aveva impensieriti, non spaventati. Non dormano tuttavia sonni tranquilli. La fiammata si è spenta, com'era inevitabile, ma altre, nell'anno che entra, ne seguiranno. Il 9/12 vale anzitutto come segnale, quello di di un cambio di stagione, di un'inversione di tendenza, del passaggio dal mortorio sociale al conflitto.

Cinque anni, tanto c'è voluto affinché il corpo sociale reagisse alle crudeli terapie austeritarie e si togliesse di dosso gli stracci della rassegnazione fatalista e della vergogna. Si tratta di un cambio di grande portata: nuove e drammatiche condizioni materiali vanno fecondando nuovi e potenti spiriti di rivolta.

Di questo corpo si sono risvegliati, saldandosi nelle strade, i pezzi più sofferenti, già maciullati dalla crisi, con quelli che stanno scivolando inesorabilmente nell'indigenza. C'è chi preferisce leggere in questo scatto, come segno preponderante, quello egoistico di una piccola e media borghesia che non vuole scendere oltre verso il basso della scala sociale. Questo è un aspetto della questione. L'altro, non meno importante, non è sfuggito a chi abbia vissuto dal di dentro il Movimento 9/12, è un sentimento che pareva sparito di solidarietà e di comunanza, non solo d'interessi ma appunto ideale. Di qui la ritrosia verso ogni simbolo che non fosse quello tricolore, a simboleggiare non solo il sentimento di unità ma di un riscatto addirittura partigiano, non solo e non tanto contro i super-poteri globali, ma da sbattere in faccia alla borghesia italiana venduta a quei poteri.

Nutrito, a sinistra, lo stuolo dei babbei, diviso a sua volta in due ali. Quella che ha irriso all'immaturità del Movimento, e quella che vi ha voluto vedere solo i prodromi del fascismo. Una sinistra che dopo aver perso ogni contatto con la realtà sociale ha finito per perdere letteralmente la testa. Invece di lanciarsi nella mischia e di sostenere il Movimento, l'ha condannato, l'ha abbandonato a sé stesso, lasciando così campo libero ai demagoghi ed ai fascisti. Come nella profezia che deve autoavverarsi si evoca il pericolo, si grida al lupo, nella speranza che si materializzi davvero per poi dire di avere avuto ragione.

Ma il lupo non è venuto. In barba agli esorcisti il Movimento ha dimostrato di avere propri anticorpi democratici. Lo ha dimostrato il fallimento dell'adunata di Piazza del Popolo promossa dall'ala calvaniana. Lì c'erano davvero i sintomi di una radicalità non solo parolaia ma reazionaria. Questa frangia, che sia davvero eterodiretta o meno, è stata temporaneamente battuta, ma proverà a rialzare la testa.

La maggioranza del Movimento che non ha seguito Calvani-Masaniello deve adesso darsi un suo profilo politico, una sua propria organizzazione. Che i Ferro e i Chiavegato siano in grado di farlo c'è da dubitarne. Essi sono tuttavia obbligati a chiamare a raccolta la parte migliore del Movimento. Se lo faranno andranno aiutati, senza tuttavia cadere nell'indulgenza. I loro limiti sono parsi evidenti già durante la settimana di lotta.

E' vero che ogni rivoluzione dovrà inciampare più volte prima di camminare sulle sue gambe, a maggior ragione ha bisogno di una testa, di una direzione che sia all'altezza. Non la si innesta tuttavia dall'esterno, come fosse una protesi meccanica. Un movimento la direzione la seleziona nel fuoco della lotta. Una lotta a cui non mancheranno nei prossimi mesi e anni occasioni per scatenarsi in forme ancor più combattive e partecipate. Il 2014 sarà un anno di più dure battaglie sociali. Il 19/12 ha solo fatto da apripista.


domenica 22 dicembre 2013

CRISI, CETO MEDIO, LOTTA DI CLASSE, di Leonardo Mazzei

22 dicembre. La disuguaglianza che aumenta in un Paese che si impoverisce: ecco perché il «movimento 9 dicembre» si è riconosciuto nel tricolore

Ce lo dice Bankitalia: dal 2007 al 2012 la ricchezza complessiva delle famiglie italiane è diminuita del 9%. Solo nel 2012 la perdita è stata del 2,9%, mentre le stime sul 2013 lasciano prevedere un calo simile a quello dell'anno precedente. Tradotto in moneta corrente l'impoverimento complessivo è stato pari a 843 miliardi di euro. Un tracollo che supererà abbondantemente i mille miliardi a fine 2013.

Sempre Bankitalia, questa volta con uno studio di Paolo Acciari e Sauro Moncetti (la Repubblica del 20 dicembre), attesta quanto siano cresciute le disuguaglianze negli ultimi trent'anni. In questo caso lo studio ha misurato il reddito e non la ricchezza disponibile, ma il rapporto tra queste due grandezze è piuttosto evidente.

In ogni caso il responso è chiarissimo: il 10% più ricco si appropriava del 26% del reddito nel 1983, del 30% nel 1993, del 33% nel 2003, del 34% nel 2007. Se la progressione è inequivocabile, le percentuali qui riportate sono invece assai più basse di quelle reali. Il problema è che lo studio in questione si è basato solo sulle dichiarazioni dei redditi, escludendo quindi (oltre all'evasione fiscale) i dividendi azionari e le rendite finanziarie in genere, due voci tutt'altro che irrilevanti per le fasce più ricche.

Tenuto conto di questo aspetto, non è difficile stimare che il 10% più ricco sia piuttosto vicino al 50% del totale. Che è poi la stessa percentuale della quota, anch'essa in crescita, di ricchezza posseduta.

Per certi aspetti si tratta della scoperta dell'acqua calda, visto che in questo caso le statistiche ci confermano quel che sapevamo già. Da trent'anni le disuguaglianze sociali crescono in maniera apparentemente inarrestabile, come se chi sta nella parte più povera della società, pur essendone una larga maggioranza, avesse perso ogni capacità di opporsi al dilagare dell'ingiustizia sociale.

I teorici del liberismo più sfrenato ci hanno spiegato per anni due cose. La prima è che l'unica cosa che conta è la crescita, perché con la crescita tutti finirebbero comunque per stare meglio, sia pure in maniera sempre più diseguale. La seconda, è che è proprio nella giungla delle diseguaglianze crescenti che risiederebbero gli stimoli in grado di produrre la crescita economica.



Con la crisi, il «circolo virtuoso» disegnato da costoro è però miseramente fallito. Ed oggi, la feroce redistribuzione in corso - del reddito e della ricchezza, dal basso verso l'alto - disegna i contorni di una società imbarbarita, dove la fascia più ricca si appropria non più di una quota maggiore di una ricchezza crescente, bensì di una quota maggiore di una ricchezza calante. E questo fa una grande differenza.

Siamo non a caso partiti dagli 843 miliardi «scomparsi», in soli 5 anni, dal paniere della ricchezza delle famiglie italiane. Una cifra enorme, superiore al 50% del Pil o, se preferite, superiore al 40% del debito pubblico. Un autentico depauperamento nazionale, peraltro ancora in corso.

E' la svalutazione interna, bellezza!
Per chi non lo avesse ancora capito (e ce ne sono ancora molti nel campo delle forze che si vorrebbero antagoniste) è l'altra faccia del «Paradiso dell'Euro». Il prezzo da pagare per non poter agire sulla svalutazione esterna, quella monetaria.

Ma dove sono finiti gli 843 miliardi scomparsi?
In proposito possono esservi due risposte: quella, in definitiva rassicurante, che si da Bankitalia; quella, assai meno tranquillizzante, che possiamo ricavare da un esame degli effetti dei vincoli imposti dalla dittatura dell'euro.

Prima di entrare nel merito è necessario chiarire cosa si intende per ricchezza netta delle famiglie italiane. Questo valore viene ottenuto sommando le cosiddette «attività reali» (abitazioni, terreni, macchinari ecc.) con le attività finanziarie, che vanno dal contante, ai depositi bancari, alle azioni, ai titoli di ogni tipo. Da questa somma vengono poi detratte le passività finanziarie (mutui, prestiti, ecc.) e si arriva, appunto, al valore della ricchezza netta.

Perché abbiamo detto che la lettura di Bankitalia vorrebbe essere rassicurante? Perché, secondo gli estensori della relazione annuale, il calo della ricchezza registrato sarebbe da addebitarsi sostanzialmente ad un solo fattore, il deprezzamento subito dal patrimonio immobiliare negli ultimi anni. Un fattore davvero rilevante, ma di cui non si analizzano le ragioni. Ecco cosa scrive Bankitalia:
«La variazione della ricchezza complessiva in termini reali può essere attribuita a due fattori: il risparmio (inclusivo dei trasferimenti in conto capitale) e i capital gains, che riflettono le variazioni dei prezzi delle attività reali e di quelle finanziarie, al netto della variazione del deflatore dei consumi. Nel 2012 il risparmio, è sceso per il settimo anno consecutivo in termini nominali, risultando pari a 36 miliardi di euro; si attestava in media intorno ai 100 miliardi di euro, sempre a prezzi correnti, alla fine degli anni novanta. Nel 2012 i capital gains sono stati negativi per 287 miliardi di euro, per effetto del calo dei prezzi delle abitazioni non completamente compensati dai capital gains finanziari». 
Bankitalia ammette dunque il tracollo del risparmio, che vedremo meglio di seguito, ma attribuisce il calo complessivo della ricchezza alla svalutazione del valore delle abitazioni, come se si trattasse di una variazione ciclica, magari addebitabile al mero sgonfiamento della precedente bolla immobiliare. Ma davvero si tratta solo di questo? E, soprattutto, è questo un fenomeno facilmente reversibile?

Su 8.542 miliardi di ricchezza netta, le abitazioni - con 4.800 miliardi, pari a circa 200mila euro medi a famiglia - fanno davvero la parte del leone. Il loro valore complessivo è sceso, in termini reali, del 6% nel solo 2012. Quali le cause di questo crollo? Indubbiamente molte. Tra queste la sovrapproduzione di immobili dei primi anni duemila e la loro precedente sopravvalutazione (la bolla, appunto). Ma come non vedere anche gli altri fattori della crisi del mercato immobiliare? Tra di essi la restrizione del credito, la riduzione dei redditi, l'aumento delle tasse. Tutti elementi, questi ultimi, riconducibili non solo alla crisi in generale, ma ai meccanismi imposti dall'euro-dittatura di Bruxelles e Francoforte.

Intanto, sempre in base ai dati di Bankitalia, facciamo un passo indietro andando a vedere più da vicino l'andamento del risparmio. Leggiamo: «Tra il 1996 e il 2002 il risparmio era pari in media d'anno all'1,7% della ricchezza netta, è sceso all'1,3% tra il 2003 e il 2006, allo 0,9% tra il 2007 e il 2009 e allo 0,5% nel periodo 2010/2011». Dato che il rapporto tra ricchezza netta e Pil è all'incirca pari a 6, abbiamo che esso era superiore al 10% del Pil tra il 1996 e il 2002, mentre oggi raggiunge appena il 3%.

Il risparmio ha dunque subito una contrazione senza precedenti. Questo come dato complessivo, ma la media nasconde due fenomeni contrapposti: da un lato la fascia più ricca, che come abbiamo visto si è arricchita sempre più, ha certamente aumentato notevolmente la propria capacità di risparmio; dall'altra, chi precedentemente poteva risparmiare una parte del reddito (quello che definiamo all'ingrosso «ceto medio») oggi non solo non risparmia più, ma è costretto a mangiarsi progressivamente i risparmi precedentemente accumulati. In fondo alla scala sociale, milioni di famiglie che non hanno mai potuto avere risparmi significativi, ma che oggi ce l'hanno comunque meno di ieri, e che spesso anzi sono pesantemente indebitate.

La frattura sociale è dunque profonda, ed in via di approfondimento, con conseguenze politiche piuttosto rilevanti, probabilmente decisive per il futuro del Paese. Ma di questo parleremo in fondo, anche a proposito del «Movimento 9 dicembre».

Torniamo ora alla domanda: dove sono finiti gli 843 miliardi scomparsi? Nel merito quella di Bankitalia è la mera descrizione contabile, in se assai superficiale, del fenomeno. Ma cosa vi è dietro? Non vi sarà, per caso, un preciso legame con il trasferimento di ricchezza in atto dal sud al nord dell'Europa a causa dell'euro e delle sue «leggi»?

E' questa la verità che ovviamente Bankitalia non vuole e non può dire. Si tratta, beninteso, di un processo di trasferimento assai complesso, di cui è difficile - almeno per chi scrive - indicare una quantificazione precisa. Alcuni aspetti di questo processo, tutti riconducibili al sistema dell'euro, sono però assai chiari. Vediamoli.


In primo luogo vi sono gli interessi sul debito pubblico. Calcolando un valore medio di 80 miliardi annui, e considerando che uno spread medio attorno a 200 rappresenta il 50% circa del valore complessivo degli interessi pagati, tenuto conto infine che i titoli detenuti all'estero sono stati pari ad una media del 45% nel periodo considerato (5 anni), abbiamo un trasferimento di ricchezza pari a: 80:2x0,45x5 = 90 miliardi. Il conteggio è necessariamente un po' grossolano, ma il criterio adottato è prudenziale e dunque il dato ottenuto è probabilmente sottostimato. Novanta miliardi se ne sono dunque andati verso l'estero (e potete immaginarvi verso dove) solo a causa del differenziale sui tassi, un differenziale che è figlio legittimo e naturale degli effetti dell'innaturale ed illegittima (perché mai sottoposta ad una vera decisione democratica) moneta unica europea.

In secondo luogo vi sono i soldi versati direttamente ai fondi ESM ed EFSF
, più quelli erogati bilateralmente, ma sempre in base a decisioni europee. Essi ammontano a circa 53 miliardi di euro.

In terzo luogo c'è poi la questioncella del bilancio europeo. Un bilancio che per l'Italia indebitata e Piigs è un vero sbilancio. Come abbiamo già scritto qualche mese fa: «La differenza tra contributi versati e fondi ricevuti si era assestata nell’ultimo quinquennio ad una media di 4,3 miliardi annui a sfavore del nostro paese (-2,01 miliardi di euro nel 2007, saliti a -4,1 nel 2008, -5,05 nel 2009, -4,5 nel 2010 e -5,9 nel 2011)». Il tutto per un totale di oltre 21 miliardi.

In quarto luogo c'è l'enorme partita del mancato risparmio a seguito della crisi iniziata nel 2008. Ma la crisi, si dirà, non ha colpito solo l'Italia. Vero, ma - sempre a causa delle leggi (scritte o solo oggettive) dell'euro - ha colpito soprattutto i paesi dell'area euro-mediterranea. Qual è dunque la parte di mancato risparmio, che per molti - lo ripetiamo - ha significato e significa in realtà crescita dell'indebitamento, che possiamo attribuire alle leggi dell'euro? Su questo punto il calcolo si fa più complicato, ma ci proviamo ugualmente, anche perché buona parte della ricchezza mancante all'appello è proprio qui.

Abbiamo già visto che nel periodo 1996-2002, nonostante una crescita già allora non esaltante, con una media annua del +1,7%, la quota del risparmio era pari ad oltre il 10% del Pil. E sempre in quegli anni l'andamento del Pil italiano era allineato a quello della Germania (+ 1,6% medio). Nel periodo successivo, 2003-2006, la quota del risparmio resta attorno al 7% con una crescita media del Pil dell'1,2% annuo, allineato anche in questo caso con il dato tedesco (+1,3%). Il crollo avviene negli anni successivi, quando si arriva ad un misero 3%. E' arrivata la crisi sistemica, certo, ma è nella crisi che il differenziale nella crescita di Italia e Germania si fa più pesante: -1,4% di media annua in Italia, +0,8% in Germania.

Come sappiamo, questo differenziale non è figlio del caso, essendo bensì la risultante dei differenziali di produttività esistenti nei diversi paesi a moneta unica. Come quantificare questo effetto sull'ammontare del mancato risparmio? Siamo partiti da una quota del 10% sul Pil, per arrivare al 3%. E' irrealistico pensare che senza le conseguenze depressive delle leggi dell'euro saremmo rimasti ad una quota almeno doppia, cioè al 6%? Si direbbe di no, dato che la quota del risparmio è rimasta comunque al 5,5% anche nel triennio 2007-2009, cioè nel cuore della recessione, ma prima che le politiche austeritarie imposte dall'Europa si dispiegassero con tutta la loro forza devastatrice. Bene, se allora possiamo ipotizzare un differenziale di risparmio pari al 3%, possiamo allora calcolare grossolanamente una perdita di 45 miliardi annui, pari ad un totale di 225 miliardi.

Siamo così arrivati ad una perdita complessiva di 389 miliardi, sempre calcolata con un criterio che riteniamo prudenziale. Come ci ha ricordato Bankitalia, «la variazione della ricchezza complessiva in termini reali può essere attribuita a due fattori: il risparmio e i capital gains». Finora ci siamo occupati solo del risparmio, perché i miliardi che sono andati in interessi verso l'estero, in finanziamenti dei fondi europei, eccetera, altro non sono che soldi sottratti alla ricchezza nazionale.

E i capital gains? Abbiamo già visto come, in questo caso, il dato decisivo sia quello della svalutazione del patrimonio immobiliare. Naturalmente non è possibile calcolare con esattezza cosa sarebbe successo ai valori immobiliari se non avessimo dovuto applicare le leggi dell'euro. Ma non sarà difficile rendersi conto del peso dei fattori che abbiamo già richiamato in precedenza, e cioè la restrizione del credito, la riduzione dei redditi, l'aumento delle tasse.

L'aumento delle tasse non è frutto della crisi, ma solo delle imposizioni europee.
Imposizioni che hanno contribuito (in questo caso non da sole) alla riduzione dei redditi. In quanto alla restrizione del credito, essa è figlia di un sistema bancario votato alla speculazione, cioè agli imperativi del capitalismo-casinò. Solo un sistema bancario completamente nazionalizzato potrà risolvere la questione. Ma, come tutti sanno, la nazionalizzazione delle banche è semplicemente improponibile nell'Europa dell'euro.

Naturalmente non escludiamo affatto che anche senza le leggi dell'euro, la crisi sistemica in corso avrebbe comunque eroso in parte la ricchezza nazionale. Quel che tutti dovrebbero però aver capito è che il contributo del sistema dell'euro a questo impoverimento è stato assolutamente micidiale. Micidiale, tuttora in corso, e soprattutto irreversibile se in questo sistema si dovesse restare.

Che cosa ha prodotto questo impoverimento complessivo, in un quadro caratterizzato peraltro da una crescente diseguaglianza economica?
E' presto detto, se prima la difesa (e l'accrescimento) dei privilegi del blocco dominante avveniva soprattutto a spese delle fasce popolari, adesso questo non basta più, adesso bisogna aggredire alla grande anche una parte consistente del ceto medio.


Lasciamo qui da parte che cosa sia esattamente il «ceto medio». In materia esistono classificazioni di ogni tipo, che qui non ci aiutano più di tanto. Ai fini del nostro ragionamento chiamiamo ceto medio quella fascia di popolazione che fino allo scoppio della crisi aveva visto migliorare costantemente, anche se negli ultimi anni moderatamente, le proprie condizioni di vita, il proprio reddito, le proprie aspettative. Una definizione probabilmente arbitraria, ma utile politicamente, dato che si tratta di quelle stesse fasce che hanno visto invertirsi il trend al miglioramento in tutti i sensi, non ultimo nelle aspettative per il futuro.

Ed è proprio la consapevolezza di quanto siano nere le aspettative per il futuro ad aver portato nelle strade, in questi giorni, alcune decine di migliaia di persone che non lo avevano mai fatto prima. Un fatto nuovo e non esclusivamente italiano (si pensi ai «berretti rossi» della Bretagna). Un fatto che ci dice quanto abbia scavato la crisi.

Ora, di fronte a questo fatto, solo dei parassiti del finto antagonismo possono girarsi dall'altra parte, magari irridendo una piccola borghesia impoverita e timorosa di proletarizzarsi. Possono comportarsi così i «tifosi» della politica («brutti bastardi eravate tutti berlusconiani»), i commentatori distaccati ed elitari («è chiaro, vorreste solo continuare ad evadere le tasse»), gli «antifascisti» alla finestra («tanto lo sappiamo che andrete tutti con Casa Pound»). Non possono farlo i rivoluzionari, che debbono porsi il problema del blocco sociale, che non possono lasciare il ribellismo alle forze di destra, che alla rivoluzione come processo reale e non onirico credono davvero, che non possono rapportarsi a questi settori sociali con gli stessi argomenti del blocco dominante.

Eh già, perché il blocco dominante è antiberlusconiano, vuole combattere l'evasione fiscale di questi settori per preservare la propria, ed ha una gran convenienza ad etichettare come «di destra», meglio ancora come «fascista», ogni sintomo di risveglio sociale, figuriamoci se potenzialmente rivoluzionario.

Il «movimento 9 dicembre» ha certo avuto i suoi limiti, e ne abbiamo già parlato a sufficienza, ma è il primo movimento che si è dato un obiettivo politico (la cacciata del regime) e non una mera lista di rivendicazioni di tipo sindacale. Ed è il primo vero movimento apertamente contro l'Unione Europea e l'euro. Certo, i limiti politici del coordinamento che ha avviato la mobilitazione erano evidenti, e non c'è da stupirsi di fronte alle attuali difficoltà. Ma la risposta popolare c'è stata, ed è stata socialmente assai variegata: non solo settori del lavoro autonomo, ma anche tanti lavoratori giovani e precari che hanno animato numerosi presidi in tutta Italia. A dimostrazione di come la pentola del malcontento sociale stia arrivando al punto di ebollizione.

Ci siamo dilungati già troppo. Veniamo allora alle conclusioni: se il rapporto tra i dati di Bankitalia e la discesa in strada del «movimento 9 dicembre» è cosa assai chiara, perché stupirsi dell'uso del tricolore nei presidi? Nella storia abbiamo avuto un tricolore monarchico, uno fascista, uno democratico e repubblicano. Abbiamo avuto il tricolore di Almirante, ma anche quello dei partigiani.
Che tricolore è quello che è sventolato nelle strade italiane a partire dal 9 dicembre?

Sicuramente non per tutti i manifestanti quella bandiera avrà significato la stessa cosa. Certamente no. E tuttavia il significato è rintracciabile proprio nel ragionamento fin qui svolto. Non c'è solo una lotta di classe contro il blocco dominante, quella parte che si va appropriando di quote sempre più crescenti della ricchezza. E che per poterlo fare ha bisogno di opprimere i diritti e le conquiste sociali del grosso dei lavoratori. C'è anche una lotta di classe contro gli artefici della rapina della ricchezza nazionale. Una rapina che ha come principale attrezzo da scasso la moneta unica e le sue leggi antipopolari.

Chi non capisce questo fatto non può capire il tricolore. Ma chi non capisce questo fatto non sappiamo davvero cosa possa comprendere dell'attuale situazione delle classi in Italia.

venerdì 20 dicembre 2013

LA SINISTRA INUTILE di Mimmo Porcaro

20 dicembre. «Il movimento dei forconi è ambiguo, rozzo, largamente influenzato dalla destra estrema. Certo. Ma se sono vere le cose che da tempo diciamo sugli effetti della crisi, sulle trasformazioni (e disgregazioni) del mondo del lavoro, sulla chiusura del sistema politico, sulla natura liberista del PD e sulla subalternità dei sindacati maggioritari, se sono vere tutte queste cose, è allora inevitabile che ogni radicale protesta popolare assuma forme ambivalenti e diventi oggetto di una contesa tra destra e sinistra riguardo agli obiettivi ed ai modi dell’azione.

Ed è inevitabile quindi assistere ad un crescere di proteste senza vero e proprio conflitto, di conflitti senza un vero e proprio movimento, di movimenti decisamente segnati dal populismo, ossia dall’illusione del “tutti a casa”, dall’incapacità di individuare gli avversari, dalla tendenza a prendersela con altri poveracci, dalla fascinazione per un capo ed uno stato autoritari.

Sarà certamente questione di gradi, di analisi fattuali, di valutazioni fatte caso per caso, e magari quello del “9 dicembre” risulterà essere un caso particolarmente ambiguo. Ma nessun movimento potrà più essere giudicato “prima”, senza parteciparvi o senza aver tentato di farlo, senza attraversarlo e senza averne separato il buono ed il cattivo: senza aver proposto dall’interno un'altra definizione dei fini e dei mezzi. D’ora in poi snobbare o contrastare una mobilitazione perché è in odore di populismo significherà snobbare o contrastare qualunque mobilitazione. Tranne quelle sindacali, che però (e non è un caso) latitano, o quelle studentesche, che però (e non è un caso) alla lunga sono inefficaci.


Se la sinistra vuol tornare ad essere sinistra e a contare qualcosa deve quindi allontanarsi dall’atteggiamento che oggi sembra prevalere al suo interno. Se vuole essere una soluzione per il Paese deve prima riconoscere di essere, essa stessa, una parte del problema. Perché la sua componente maggioritaria è da tempo passata al nemico ed è corresponsabile della distruzione neoliberista della democrazia e dello stato sociale (altro che “pericolo di destra”… la destra più pericolosa c’è già ed è già al potere, si chiama “larghe intese”, si chiama “Grosse Koalition”, si chiama PD e sedicente “socialismo europeo”…).

Perché l’alternativa della democrazia partecipata proposta da ciò che resta del movimento altermondialista è debolissima rispetto all’esigenza ormai acuta di trasformare i rapporti di proprietà, e soprattutto è incomprensibile per quella larga parte del popolo che non ha il tempo e le risorse per partecipare ad alcunché. E infine perché la stessa sinistra radicale, forse spaventata dalle conseguenze delle proprie migliori analisi, non riesce ad emanciparsi dalla trappola dell’europeismo (e dell’euro), non riesce a proporre fin da oggi soluzioni neosocialiste in grado di traghettare il Paese fuori dalla subalternità al capitalismo atlantico, non riesce a costruire un discorso “nazionaldemocratico” capace anche di prevenire il diffondersi del nazionalismo di destra, non riesce a svincolarsi dall’idea che l’unica vera lotta popolare sia quella della CGIL, o di movimenti da sempre legati alla sinistra (come il benemerito movimento No Tav).

Bisogna smetterla con esitazioni ed illusioni. Bisogna svegliarsi. E cominciare magari a porre una buona volta il problema dei problemi: che è quello di rompere l’alleanza tra le frazioni sindacalizzate (e qualificate) del lavoro ed il capitalismo europeista, e l’alleanza tra le frazioni più deboli del lavoro ed il capitalismo protezionista, per costruire una vera unità del lavoro subalterno (dipendente o no).

Come si può fare? Si può fare concentrando gli sforzi sulla rottura dell’oligopolio dei sindacati maggioritari, senza quindi accodarsi sempre alla Fiom e senza sperare sempre nel rinsavimento della CGIL. Si può fare costruendo comitati popolari contro la crisi (e quel “partito sociale” di cui spesso ci limitiamo a parlare) capaci di muoversi nel magma dei conflitti attuali. Si può fare elaborando idee forti, certo (nuovo socialismo, nazionalismo costituzionale e democratico…), ma anche idee apparentemente più prosaiche. Comprendendo, ad esempio, che la questione fiscale ha cambiato forma, perché se il piccolo evasore degli anni passati difendeva la propria ricchezza sottraendola allo stato sociale, quello di oggi – vista la durezza della crisi e visto il crescente dirottamento del denaro pubblico verso il pagamento del debito – si difende dalla miseria sottraendo denaro alla speculazione.

Non dobbiamo certo fare l’elogio dell’evasione, ma riconoscere che chiedere oggi la normalizzazione fiscale è condannare la gente alla fame. Riconoscere che la durezza delle sanzioni sui “piccoli” è effetto della scelta di non chiedere denaro ai “grandi”. E riconoscere che se i lavoratori sindacalizzati proponessero, invece della generica lotta all’evasione, una riduzione del carico e delle multe per i “piccoli” ed un deciso aumento della tassazione delle rendite e delle plusvalenze, riuscirebbero finalmente ad attrarre a sé sia le “partite IVA per forza”, ossia gli strati dequalificati del lavoro, sia i lavoratori autonomi di seconda generazione e di alta qualificazione. E soprattutto incrinerebbero quella loro nefasta alleanza col grande capitale che, riflessa nelle incapacità e nelle colpe della sinistra attuale è, ad oggi, il principale ostacolo ad una soluzione democratica della crisi italiana».

* Fonte: SinistraNoEuro

giovedì 19 dicembre 2013

VERSO UN GRANDE CONVEGNO

19 dicembre. Mancano solo tre settimane al grande convegno «OLTRE L'EURO. La sinistra, la crisi, l'alternativa» ((11-12 gennaio 2014). Siamo sicuri che sarà un successo, sia  per quanto riguarda i contenuti che la partecipazione. L'ondata di proteste che ha scosso il Paese queste settimane attesta in maniera inequivocabile che la necessità di uscire dal regime dell'euro non è più patrimonio di piccoli cenacoli intellettuali, e dunque quanto sia urgente avere idee chiare sull'uscita dalla crisi sistemica. 
PER PARTECIPARE E PRENOTARE CLICCA QUI.

Al Convegno, promosso da Mpl e Bottega Partigiana, hanno sin qui aderito: Me-Mmt, Epic (Economia per i Cittadini), Centro Studi marxisti Lelio Basso, Marcia della Dignità, Bandiera Rossa in movimento, KeynesBlog, Mainstream, Corretta informazione, Eco della Rete, Partito Umanista, Movimento radical-socialista, Ass. Culturale Sirio 87, CUB Trasporti, Comitato Valdarno sostenibile, Moneta Bene Comune, Economia&Democrazia Diretta, Qualcosadinuovo, Fondazione Cipriani.

ECCO IL PROGRAMMA DEFINITIVO DEL CONVEGNO

Prima giornata Sabato 11 Gennaio - ore 10-19.30)


SEMINARIO: Oltre l’euro: per andare dove?

Inizio lavori ore 10:00 - Presiede: Lella Bigatti




ore 10:10 - Introduzione di Moreno Pasquinelli
"Capitalismo-casinò, eurocrazia, sovranità. Dalla proposta alla sollevazione"

ore 10.40 - Ernesto Screpanti: “2007-2013: una crisi di transizione”

ore 11:10 - Marco Passarella: “Attualità del piano. Critica del paradigma liberoscambista”
(in collegamento skype)

ore 11:40 -  Bruno Amoroso: “L’Europa siamo noi: per il risveglio delle comunità”

ore 12:10 -Sergio Cesaratto: “Sinistra, Europa e questione nazionale”

ore 13:00 - pausa pranzo

ore 14:30 -  Andrea Ricci: “Uscita dall'euro e integrazione europea: un binomio possibile”

ore 15:00 - Luciano Barra Caracciolo: “Euro e (o?) democrazia cositutuzionale. La convivenza impossibile tra Costituzione e Trattati europei”

ore 15:30 - Gennaro Zezza: “L'euro, la crisi, e la redistribuzione dei redditi”

ore 16:00 - p
ausa

ore 16:15 - Warren Mosler: “Le proposte della Me-Mmt per uscire dalla crisi”

ore 17:15 - Nino Galloni: “Ci porti all'inferno, Germania? Egemonia, supremazia, catastrofe”

ore 17:45 - Emiliano Brancaccio: “Sugli effetti delle crisi nei regimi di cambio fisso”
(in collegamento skype)

ore 18:15 - Conclusioni



Sabato 11 Gennaio - ore 21-23.30
Tavola Rotonda: Quale società per il futuro?


Presiede: Valerio Colombo

Partecipano: Ernesto Screpanti, Claudio Martini, Norberto Fragiacomo, Moreno Pasquinelli

Domenica 12 Gennaio - ore 9-13
Forum: La sinistra. La crisi. L’alternativa.

Presiede: Nello De Bellis

Intervengono:
Francesca Donato, Diego Fusaro, Valerio Colombo, Giorgio Cremaschi, Marino Badiale, Ugo Boghetta, Fabio Frati, Leonardo Mazzei.

PER PARTECIPARE AL CONVEGNO E PRENOTARE CLICCA QUI.

mercoledì 18 dicembre 2013

FERRO, CALVANI, CHIAVEGATO: CRITICHE INGENEROSE?

18 dicembre. Sarebbe interessante svolgere un referendum tra le migliaia di attivisti che hanno animato la mobilitazione iniziata il 9 dicembre per chiedere loro cosa ne pensino del Coordinamento nazionale.  Noi lo ripetiamo: essi hanno avuto il grande merito di aver accesso la scintilla, ma si sono rivelati del tutto inadeguati a dare direzione e sbocco alla protesta quando essa si è estesa a tutto il Paese. 
Questa critica è sembrata ad alcuni ingenerosa.

Prendiamo spunto da un commento di ieri:
«Le vicende legate al movimento dei Forconi dimostrano che i leaderini in provetta della sinistra rivoluzionaria italiana se sono negletti nella pars costruens sono dei veri campioni in quella destruens. La foga con cui ci si scaglia una volta contro Grillo, una volta contro Danilo Calvani, un'altra ancora contro Mariano Ferro é direttamente proporzionale alla propria inconsistenza nella capacità di mobilitazione delle masse. E' indice inoltre di un cupio dissolvi che assale chi nutre complessi di inferiorita' nei confronti di chi alle masse è in grado di parlare. Un forcone deluso».
Ma di quale "sinistra rivoluzionaria" si cincischia? Questa sinistra, in larga parte, ha boicottato o snobbato il Movimento 9/12. Noi di Mpl siamo stati tra i pochi che non solo l'abbiamo sostenuto a parole ma animato, sin dall'inizio. Vorremmo ricordare ai soloni che siamo in stretto contatto con i Forconi di Mariano Ferro sin dal gennaio 2012, e che lo stesso Ferro fu ospite dell' assemblea costituiva del Mpl che si svolse un mese dopo.

Su Calvani abbiamo già detto. L'amicizia fraterna che ci lega a Ferro non ci impedisce di vedere i limiti del suo fare politico. Limiti che sono emersi ai tempi dei moti siciliani del gennaio 2012, e riemersi quando i Forconi decisero di presentarsi alle elezioni regionali sicialiane dell'ottobre 2012.

Qual è il principale limite di Mariano Ferro? La sua linea oscillante e zigzagante. Non si può fare la frittata senza rompere le uova. Ovvero: non si può chiamare il popolo a ribellarsi e, una volta che si è ribellato, chiamarlo a fare dietrofront, ad ammosciare e sfumare contenuti e radicalità. Un leader che abbia chiara la sua funzione non può dare un'ordine e subito dopo un contr'ordine di segno opposto. Ne nasce grande confusione e sbandamento.

Esemplare, sotto questo profilo, la vicenda della manifestazione calvaniana che si svolgerà oggi a Piazza del Popolo a Roma. Calvani ha ragione da vendere quando afferma che era stata decisa congiuntamente, e quindi accusare Ferro e Chiavegato di aver fatto dietrofront.

 Il 16 dicembre Mariano Ferro rilasciava questa secca dichiarazione:
«Con tutta quest’aria di violenza preferiamo dare un segnale diverso. Andremo dal Papa questa domenica, tutti insieme, a costo di pernottare a piazza S. Pietro». E’ quanto ci ha riferito telefonicamente il nostro concittadino Mariano Ferro, sempre più convinto della saggia scelta di dissociarsi dagli estremisti di destra. «Con queste persone non mi mischierò mai! ma non perchè sono di destra o di sinistra, ma perchè questa è gente mentalmente malata. Mercoledì sera vedremo chi avrà ragione!». [Avola Blog]
Il giorno le agenzie battevano questo dispaccio:
«Mariano Ferro, però, alla vigilia dell'appuntamento nella Capitale, ha lanciato segnali di riavvicinamento: "Il nervosismo di questi giorni ci ha giocato un brutto scherzo. Domani non sarò in piazza ma mi auguro di cuore che la manifestazione sia partecipata", dice all'Adnkronos il leader dei Forconi dei siciliani, " sia io che Danilo Calvani siamo vittime del sistema - dice Ferro - e purtroppo si è dato spazio a questa spaccatura"». [la repubblica]
Sembra quasi uno stato confusionale. 
Ma com'è che è nato questo pasticciaccio?

Noi mettemmo subito in guardia Ferro dal pericolo rappresentato dall'adesione a scoppio ritardato dei fascisti di Forza Nuova e Casa Pound. Vero è che venne fuori un comunicato stampa che prendeva le distanze dai fascisti. Ma esso non era sufficientemente chiaro. E in questa ambiguità l'estrema destra, spalleggiata da Calvani, ha avuto facile gioco ad incunearsi.

Ma questa dei fascisti era solo una specie di foglia di fico per camuffare la resipiscenza legalitaria e quindi per smorzare i toni e i contenuti della rivolta. Dopo la sollevazione di Torino Ferro è giunto a dire che si dovevano consegnare alla polizia i "facinorosi".

Dai! così non si fa. E a Ferro abbiamo avuto occasione di contestare de visu questa scivolata.

L'inadeguatezza dei leaders del Movimento 9/12 è sotto gli occhi di tutti. Giusta quindi la richiesta, che emerge da vari comitati locali, di andare ad una verifica e di svolgere subito un'assemblea nazionale. Debbono convocarla proprio questi lader. Se non lo faranno, come sospettiamo, giusto che i comitati e i presidi si autoconvochino.
Prima è meglio è.

martedì 17 dicembre 2013

M5S E IL 9 DICEMBRE: NÉ DI LOTTA NÉ DI GOVERNO di Piemme

17 dicembre. Merita attenta riflessione ciò che ha fatto, o meglio ciò che non ha fatto il Movimento 5 stelle in relazione all'ondata di proteste iniziata il 9 dicembre. Non c'è dubbio che nei diversi comitati e  presidi che hanno scosso il paese numerosi sono stati non solo gli elettori di M5S ma anche suoi attivisti. Tuttavia M5S li ha lasciati soli e non ha proferito, com'era lecito attendersi, una sola parola di sostegno, né tantomeno compiuto gesti fattivi di solidarietà. I circoli di M5S delle diverse città coinvolte non hanno spinto i loro iscritti a raggiungere i presidi e se ne sono restati alla finestra.

Grillo, il 10 dicembre, si è limitato a commentare favorevolmente il fatto che alcuni poliziotti si siano tolti i loro caschi in segno di solidarietà coi manifestanti. Davvero pochino per un partito che dice di voler "mandare tutti a casa". Invece di inviare militanti e parlamentari in mezzo a chi stava lottando per cacciare il governo e per la sovranità popolare, hanno deciso di stare alla finestra. I pentastellati hanno senza dubbio commesso un errore enorme madornale nel rifiutare di dare sponda e rappresentanza al movimento di protesta.

Come spiegare questo autogol? Di sicuro la principale causa politica è il religioso legalitarismo, il rispetto di M5S delle leggi e delle autorità costituite, quindi il vero e proprio timor panico della lotta diretta e dell'azione di massa. Al fondo la spiegazione sta nella natura stessa del movimento "grillino", che non è né cucca né noce, né di governo né tantomeno un movimento di lotta. Forte sul web, su facebook, non è minimamente in grado di stare nel sociale. I suoi attivisti sono in gran parte virtuali, impregnati oltretutto da una inguaribile mentalità elettoralistica.

Noi non siamo sorpresi. L'aveva segnalato Moreno Pasquinelli su questo blog il 21 aprile scorso, dopo la clamorosa marcia indietro di Beppe Grillo davanti alla rielezione di Napolitano al Quirinale. Cosa accadde? Nel primo pomeriggio del 20 aprile Beppe Grillo, dopo aver gridato al golpe, lanciò quest'appello:
«Il M5S da solo non può però cambiare il Paese. E' necessaria una mobilitazione popolare. Io sto andando a Roma in camper. Ho terminato la campagna elettorale in Friuli Venezia Giulia e sto arrivando. Sarò davanti a Montecitorio stasera. Rimarrò per tutto il tempo necessario. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Di più non posso fare. Qui o si fa la democrazia o si muore come Paese».
Immediatamente, sotto Montecitorio, si ammassarono migliaia e migliaia di cittadini. Molti altri stavano sopraggiungendo da tutt'Italia. E che fece Grillo?  appena giunto a Roma ordinò il dietrofront, lasciando soli e di stucco i dimostranti. "Perché me lo ha chiesto la Digos, che temeva incidenti", dichiarò.

Si trattò di una decisiva lezione. Si capì che M5S non sarebbe stato in grado di mettersi alla testa della latente sollevazione popolare.

Gli eventi dell'ultima settimana hanno confermato quella premonizione.

Cambiare da cima a fondo il Paese è cosa troppo seria per lasciarla in mano ai "grillini".

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