mercoledì 31 dicembre 2014

La Scuola italiana nell'epoca della Globalizzazione di Nello De Bellis

31 dicembre

Negli ultimi quindici anni la Scuola italiana è stata  interessata da un vasto movimento di riforme strutturali che, in perfetta sintonia coi mutamenti politici e sociali intervenuti tra la fine del secolo scorso e l'inizio del nuovo, ne hanno profondamente e forse irreversibilmente mutato e alterato la funzione culturale, educativa e sociale. 

Tutte queste innovazioni sono state presentate dai vari governi succedutisi come necessarie, inevitabili, addirittura epocali e certo lo sono state, ma non nel senso in cui l'opinione pubblica e gran parte della società civile le hanno fondamentalmente accolte. 

Fin dalla prima, che porta il nome di Luigi Berlinguer (1998-'99) alle riforme Moratti e Gelmini esse (come avevano compreso fin dal primo momento i più attenti osservatori,tra cui Massimo Bontempelli, Costanzo Preve, Lucio Russo e pochi altri), hanno cercato di allineare la Scuola italiana, con l'alibi dei suoi problemi reali e insoluti, agli standard anglosassoni, hanno teso ad una progressiva deconcettualizzazione delle discipline, abbassato e non innalzato il livello di competenza reale, depauperato gli strumenti del sapere critico, sottoposto l'insegnamento a vincoli sempre più rigidi e costrittivi. Alla Scuola che, nella sua pur relativa autonomia intellettuale, aveva il compito di promuovere la capacità concettuale dell'allievo, si è sostituita la Scuola intesa come variabile dipendente dell'Impresa. Due cose sono entrate nella Scuola italiana nell'ultimo quindicennio: il liberismo economico ed il nozionismo anglosassone.

Tutte le riforme attuate, compreso il piano per la Scuola dell'attuale Governo, sono state un tentativo di liquidazione in primo luogo della licealità. Il Liceo è stato il frutto (come notava Costanzo Preve) della sintesi di  importanti  momenti fondativi della cultura europea: l'Illuminismo, il Romanticismo e l'Idealismo. Dall'Illuminismo essa  riprende il motivo dell'uso libero e pubblico della Ragione critica, dal Romanticismo la valorizzazione  del sentimento e della passione, dall'Idealismo la padronanza concettuale della realtà e la centralità sociale della cultura. Senza dubbio il Liceo ha avuto un'origine borghese ed una funzione classista nella formazione e selezione delle classi dirigenti italiane ed europee cui  assicurava ascesa e prestigio sociale, garanzia di inserimento nel mondo del lavoro, ella produzione e dell'amministrazione dello Stato.  Non a caso storicamente esso nasce in età napoleonica e viene rifondato in Italia con la riforma Gentile del 1923. Da tempo, però, non è più così. Nel trapasso da una società capitalistica ad una ultracapitalistica come l'attuale, la formazione scolastica superiore non è più garanzia di  promozione sociale e di lavoro commisurato alle proprie aspettative, data la flessibilizzazione spinta del legame sociale e la precarizzazione generalizzata dell'esistenza. Per converso una cultura di robusto impianto umanistico e scientifico non appare più funzionale, anzi oppositiva alle nuove esigenze della produzione e agli accorti strateghi del capitale. Paradossalmente, proprio quando perde, depurato da una catarsi storica, il suo originario carattere di classe ed acquista valenza universalistica di sintesi intellettuale e promozione umana, il Liceo (esemplare l'attuale  polemica sul Liceo classico) viene proprio per questo riformato e sostanzialmente liquidato.


L'esigenza comunque obiettiva di risanare  il  corpo malato e in sofferenza  della Scuola è stato il viatico per una serie  di  cambiamenti  che hanno abolito non solo gli aspetti caduchi e superati dell'impianto intellettuale gentiliano, ma inficiato profondamente la struttura stessa della licealità. Le mode luddistiche futuristiche e postmoderne, scatenatesi a partire dal notabile sardo ipodotato Luigi Berlinguer, hanno eroso (come sosteneva Preve) lo stesso nucleo critico della modernità con le conseguenze che sono davanti agli occhi di tutti ed allineato la Scuola alla dimensione dell'attuale capitalismo assoluto.

I mentori di tale processo sono stati nell'ordine: pedagogisti dogmatici che hanno imposto in modo unilaterale ed astratto, scisso dai contenuti intellettuali e dalla loro valenza formativa, la propria disciplina, ceto burocratico-sindacale e staff ministeriali che hanno di gran lunga ecceduto i loro compiti istituzionali. In ogni caso il nucleo vivo e vitale della Scuola, grazie a cui nonostante tutto  essa si sostiene, cioè gli insegnanti colti e preparati, sono stati espropriati di ogni potere consultivo e decisionale. Tutti  costoro, con un seguito di santoni ieratici e sedicenti esperti, si sono arrogati il diritto di decidere sulle sorti dell'istituzione su cui pontificavano senza che un solo professore di ruolo venisse interpellato!  Diciamo a questo punto che se  l'intero programma di "messa al passo" dell'istruzione superiore (e dell'Università) è stato realizzato, ciò si deve anche alla fondamentale  acquiescenza della categoria degli insegnanti, i quali,nonostante la strenua resistenza di agguerrite avanguardie intellettuali e sindacalizzate, hanno subìto con  "insoddisfatta rassegnazione" i mutamenti che li hanno visti "strumenti parlanti" di tale rivoluzione passiva. A ciò si deve aggiungere la responsabilità morale, intellettuale e storica della classe accademica, "sorda e grigia" di fronte al processo di innovazione peggiorativa portato innanzi dalle forze dianzi menzionate. Col loro poco intelligente distacco dalla questione scolastica, considerata per lo più una vicenda corporativa e politico-sindacale, non più capaci di un'adeguata sintesi politica della situazione economico-sociale, gli accademici italiani hanno lasciato che si segasse il ramo stesso sul quale erano seduti e quando l'onda lunga delle riforme scolastiche ha cominciato a lambire le aule universtarie, è stato ormai troppo tardi per intervenire.

Al contrario una levata di scudi a tempo e a luogo avrebbe potuto imprimere altra direzione o addirittura bloccare sul nascere tutto quanto,in attesa di una ristrutturazione necessaria ma ben altrimenti intesa da chi nella Scuola in prima persona, "lotta e spera".


Invece si è accettata la subordinazione completa della Scuola, dell'istruzione superiore, dell'Università alla logica d'impresa di un totalitarismo economico che  riduce   sempre di più fino a sopprimerla quasi del tutto  qualsiasi reale autonomia nel campo della formazione intellettuale e civile dei futuri cittadini. Al posto di essa si impone "una generica socializzazione, priva di supporti concettuali, in grado di adattare flessibilmente l'individuo alla produzione e al consumo" (M.Bontempelli) e inscriverlo quale consumatore passivo nell'orizzonte generale della merce. Si è creata così in questa fase decisiva (che coincide pienamente cogli anni della costruzione europea) una Scuola che  si  allinea conformisticamente alla società circostante, "sottomessa ormai integralmente alla dinamica di accumulazione del plusvalore,priva di qualsiasi finalità etica, non più proiettata alla trasmissione di alcunchè di essenziale, come se non avesse né radici né futuro" (M.Bontempelli). Ne è riprova il fatto che le riforme scolastiche degli anni scorsi come l'attuale non hanno neppure provato a definire un asse culturale intorno a cui la Scuola avrebbe dovuto organizzarsi e concentrato tutta l'attenzione sulle metodologie avulse dai contenuti,quanto più vuote tanto più defatiganti e prescrittive per gli insegnanti, nonché  sulle tecnologie che appaiono in questo contesto di deconcettualizzazione delle discipline sempre più fini a se stesse.

Non a caso inoltre  tali  riforme si inscrivono  compiutamente nel processo di unificazione europea, poiché disconoscono l'importanza del riferimento del complesso di valori e di saperi da trasmettere da una generazione all'altra come afferente ad un patrimonio morale, intellettuale e spirituale che si identifica con la storia del proprio Paese. Mediante l'istituzione della cosiddetta autonomia scolastica si è posto fine ad un sistema nazionale della pubblica istruzione e delegato ai presidi e ai singoli Consigli d'Istituto la definizione dell'offerta formativa con un carattere sempre più esasperatamente localistico, concorrenziale e pubblicitario. Tale impianto configura ormai da tempo una catastrofe culturale per le nuove generazioni e la società italiana nel suo insieme. Invece di una Scuola in grado di attivizzare il sapere trasmesso con le esigenze ed esperienze di vita, i giovani acquisiscono una cultura apparentemente innovativa e al passo coi tempi, in realtà funzionale soltanto  ad  un nuovo conformismo di massa e alle esigenze del nuovo modo di produzione post-keynesiano e post-fordista, incapace  di costituire    il  sapere critico necessario ad un orientamento etico e razionale nella società. Compito di ogni movimento antisistemico ed anticapitalistico dev'essere, al contrario ,impadronirsi dei termini esatti della questione e battere in breccia il processo di smantellamento dell'istruzione pubblica, la privatizzazione ormai palese e il didatticismo di regime.

A scopo propositivo, in questa fase di elaborazione  iniziale della nostra riflessione, si
propongono le seguenti misure in controtendenza  col processo in atto e per la salvezza dell'istruzione, della formazione e della Scuola pubblica:

1) Abolizione con decreto delle riforme Berlinguer-Moratti-Gelmini e del Piano Scuola Renzi. Restituzione della Scuola ai suoi operatori, ribadendo la centralità dell'insegnamento.

2) Convocazione di una Commissione nazionale formata esclusivamente da insegnanti di ruolo con almeno 5 anni di anzianità per discutere ed attuare una riforma  finalmente non peggiorativa della Scuola e dell'Università italiana e  per delinearne gli assi culturali  portanti.

Abolizione dell'INVALSI e utilizzo dei fondi PON e POF per gli aumenti salariali del personale scolastico. Divieto di formare classi con più di 20 alunni per classe.

3) Allineamento delle retribuzioni degli insegnanti ai veri standard europei, assorbimento integrale dei precari e creazione di "passerelle" per il passaggio dalla Scuola all'Università (anche part-time) per tutti i docenti capaci e meritevoli con pubblicazioni rilevanti e attività pubblicistica e culturale di effettiva importanza all'attivo. Possibilità di fruire dell'anno sabbatico per comprovati fine di ricerca e di aggiornamento. Facilitazioni per il conseguimento di ulteriori lauree e specializzazioni.

4) Piano di recupero dell'edilizia scolastica per permettere la fruizione del tempo pieno nelle scuole elementari e medie e dotare tutti gli istituti di palestre, di biblioteche e di mense.

5) Contrasto del bullismo  nonché  coinvolgimento degli alunni nella cura degli ambienti scolastici mediante la pulizia, pitturazione e riparazione degli stessi da parte degli studenti.

6) Introduzione nell'asse  curriculare di musica e teatro, potenziamento  della Storia dell'Arte e delle discipline sportive.

martedì 30 dicembre 2014

LA GRECIA AL VOTO di Leonardo Mazzei

Brevi note sul programma di Syriza e sugli scenari possibili


30 dicembre



Dunque è ufficiale: la Grecia andrà al voto il prossimo 25 gennaio. L'elezione del tecnocrate eurista Stavros Dimas è fallita. I 168 voti di martedì scorso sono rimasti tali e quali anche nel terzo scrutinio di stamattina. La campagna acquisti di Samaras non ha funzionato, e ora tutto si giocherà in una battaglia elettorale che si preannuncia davvero infuocata.

Questo esito non deve sorprendere. L'obiettivo del capo del governo di Atene è stato, fin dal principio - cioè dalla decisione di anticipare l'elezione presidenziale -, quello di drammatizzare lo scontro per ribaltare i sondaggi elettorali che attualmente prevedono la vittoria di Syriza.


In realtà il margine tra il partito guidato da Tsipras e Nea Dimokratia sembrerebbe assai limitato, da due a sei punti percentuali. Un distacco che Samaras, spalleggiato in pieno dall'Unione Europea e dal Fondo monetario internazionale, pensa di poter colmare. E non è affatto detto che questo disegno sia destinato al fallimento.



Alla fine è molto probabile che tutto si giochi per una manciata di voti. E siccome il sistema elettorale assegna un premio di maggioranza di 50 parlamentari (su 300) a chi arriva primo, è prevedibile una fortissima polarizzazione del voto tra i primi due partiti, come già avvenne nelle elezioni del giugno 2012.



Se il quadro appare incerto, le forze anti-euriste non possono certo restare indifferenti a quel che accade in Grecia. Noi non abbiamo mai nascosto le nostre critiche al partito di Tsipras ed al suo programma, cosa di cui ci occuperemo tra qualche riga. Al tempo stesso ci auguriamo cheSyriza vinca e che vada al governo, che è l'unico modo per complicare i disegni della Troika, per far pesare il rifiuto popolare delle politiche austeritarie, ed infine per mettere seriamente alla prova Syriza stessa.



D'altra parte, chiediamoci quali sarebbero invece le conseguenze di una vittoria di Samaras. Essa sarebbe la legittimazione dei sacrifici imposti dalla Troika, un successo indiscutibile per Juncker e soci. La cosa è così chiara che non importa dilungarsi oltre.  




Il programma di Syriza



Passiamo ora dagli auspici all'analisi delle prospettive. Cosa accadrebbe se Syriza vincesse e riuscisse a formare un governo? Questa è la vera domanda. Di certo l'oligarchia eurista non si farebbe convincere da Tsipras, il quale invece si muove all'interno di una linea che ha come sua premessa proprio la «riformabilità» dell'Unione Europea. Il fatto è che questa grossolana illusione non potrebbe durare troppo a lungo, imponendo allora strade ben più radicali nel confronto con Bruxelles. 



Ma entriamo nel merito del programma di Syriza, il cosiddetto «Programma di Salonicco», perché lì presentato da Tsipras lo scorso 15 settembre.



La contraddizione che chiunque può facilmente rilevare dalla sua lettura è quella di sempre: da una parte un programma sociale avanzato, dall'altro un percorso per la sua realizzazione del tutto campato in aria, a partire dalla rimozione della necessità di uscire dall'euro.



Certo, il programma di Syriza non è il socialismo, ma quel che possiamo certamente dire è che si tratta del programma più avanzato di una forza che si candida, con reali possibilità di successo, al governo di un paese europeo. Questo è un dato di fatto difficilmente discutibile. Il problema è che Tsipras vorrebbe realizzarlo con l'assenso delle oligarchie europee, e questo ci sembra davvero un po' troppo...



Il Programma di Salonicco parte comprensibilmente dalla questione del debito, ponendo chiaramente la necessità di una sua sostanziale decurtazione. Leggiamo: «Cancellare la maggior parte del valore nominale del debito pubblico in modo che diventi sostenibile nel contesto di una "Conferenza europea del debito"». Ed ancora: «Includere una "clausola di crescita" nel rimborso della parte restante in modo che tale rimborso sia finanziato con la crescita e non attraverso leggi di bilancio». Ed infine: «Includere un periodo significativo di grazia ("moratoria") del pagamento del debito per recuperare i fondi per la crescita».



Obiettivi del tutto condivisibili, ma davvero si pensa che sia possibile perseguirli attraverso una «Conferenza europea»? Vogliamo davvero augurarci che nessuno sia a questi livelli di ingenuità.



Grazie alla decurtazione del debito Syriza si propone i seguenti scopi: «Aumento immediato degli investimenti pubblici di almeno € 4 miliardi; graduale inversione di tutte le ingiustizie del Memorandum; graduale ripristino di stipendi e pensioni in modo da far aumentare i consumi e la domanda; ricostruzione dello stato sociale»



Si può essere contro a questi obiettivi? Ovviamente no. Così come sono certamente da sottoscrivere le misure sociali indicate. Tra queste citiamo l'elettricità gratis per le famiglie più povere, i sussidi pasto per chi è senza reddito, il programma di garanzia abitativa, il ripristino della tredicesima, l'assistenza sanitaria gratuita per i disoccupati privi di assicurazione, un sistema fiscale più equo grazie ad una maggiore progressività delle aliquote.



Tutto bene dunque? Assolutamente no.
La contraddittorietà e l'illusorietà di certi obiettivi è ricavabile dalla stessa lettura di alcuni punti programmatici. Leggiamo ad esempio: «Escludere gli investimenti pubblici dai vincoli del Patto di Stabilità e di Crescita». Qualcuno sa dirci cosa ci sia di diverso in questa proposizione da quanto va ciarlando Renzi da molti mesi? E non è anche questo un modo per riaffermare l'accettazione di fondo di tali vincoli, che andrebbero solo alleggeriti?



Ed ancora: «Un "New Deal Europeo" di investimenti pubblici finanziati dalla Banca europea per gli investimenti». Può piacere oppure no, ma un tale piano di investimenti attraverso la Bei esiste già. Lo ha varato di recente Juncker (leggi QUI), peccato che alla sua efficacia non creda praticamente nessuno. 



E, per passare ad un tema ancora più attuale, il programma chiede: «Un aiuto quantitativo da parte della Banca centrale europea con acquisti diretti di obbligazioni sovrane». Eccoci così arrivati al famoso Quantitative easing, che però la Bce sta predisponendo (leggi QUI e QUI) in modo assolutamente penalizzante per un paese come la Grecia.




Conclusioni 



La lettura di questi punti del programma non fa altro che esaltare la contraddizione tra obiettivi di per sé condivisibili e la pretesa di raggiungerli nel contesto europeo. Ma tutto ci dice che l'Europa - quella reale, cioè l'unica davvero esistente - se ne sta andando in una direzione del tutto opposta ai desiderata di Tsipras.



Il succo politico del ragionamento di Syriza è ricavabile dalla parte conclusiva del programma, che merita una citazione integrale: «Siamo pronti a negoziare e stiamo lavorando per costruire le più ampie alleanze possibili in Europa. L’attuale governo Samaras è di nuovo pronto ad accettare le decisioni dei creditori. L’unica alleanza che si preoccupa di costruire è con il governo tedesco. Questa è la differenza tra di noi e questo è, alla fine, il dilemma: negoziazione europea di un governo di Syriza, o accettazione dei termini dei creditori sulla Grecia da parte del governo Samaras. Negoziazione o non-negoziazione. Crescita o austerità. Syriza o Nuova Democrazia».



Secondo questo ragionamento il dilemma sarebbe tra negoziazione (Syriza) e non-negoziazione, cioè supina accettazione da parte di Nuova Democrazia. Qui però c'è un piccolo dettaglio, ed è che per negoziare veramente bisogna essere in due. L'Europa vuol davvero negoziare con Atene? E darebbe a Tsipras quel che non ha concesso ai servitori che ha insediato al governo tre anni fa? La risposta non pare davvero difficile.



La verità è che se Bruxelles accettasse sul serio una simile trattativa, essa sarebbe il segnale del «rompete le righe», l'annuncio della fine certa se non ancora dell'UE, certamente della moneta unica e del suo sistema di dominio. Il problema, si badi, non è principalmente economico (la Grecia da questo punto di vista conta poco), quanto piuttosto politico: altri paesi vorrebbero imitare Atene e l'UE non potrebbe sopravvivere alla fine dei dogmi sui quali è stata edificata. Ovvio, dunque, che quantomeno nella sostanza, ma prevedibilmente anche nella forma, la risposta europea a Tsipras sarebbe solo un netto ed inequivocabile NO.



Dopo di che resterebbero solo o la resa o la lotta, altro che negoziazione!
Ed è in questo quadro che si porrebbe, come unica alternativa possibile alla resa incondizionata, la questione della rottura con l'UE, a partire da quella con l'euro.



In conclusione: l'impianto programmatico di Syriza è debole nell'insieme della sua struttura, pur se condivisibile nei sui obiettivi sociali. Ma quel che più conta è il processo che potrebbe avviarsi con l'eventuale (e non facile) successo del partito di Tsipras. Le contraddizioni e le illusioni che abbiamo messo in luce non potrebbero reggere la prova dei fatti. E la partita sarebbe tutta da giocare. Ecco perché ci auguriamo che Tsipras possa essere il prossimo capo del governo di Atene.

domenica 28 dicembre 2014

TE LO DO IO IL QUANTITATIVE EASING! di Leonardo Mazzei

28 dicembre

Raramente la verità delle cose si mostra fin da subito nella sua pienezza. Anzi, di solito, essa ama nascondersi nelle pieghe degli eventi e dei processi che segnano la storia, i cui svolgimenti sono in genere tortuosi e non privi di contraddizioni. Ed il percorso dissolutivo dell'Unione Europea, realisticamente preceduto dalla fine della moneta unica, non fa certo eccezione.

Per comprendere la portata di quanto sta avvenendo è utile tornare sulla vicenda del Quantitative easing (QE), sulla quale abbiamo già scritto pochi giorni fa (vedi Il QE della discordia). Le cose corrono infatti con la fretta dovuta dei momenti topici, e nuovi e decisivi elementi sulle manovre in corso sono ormai di pubblico dominio.

Due settimane fa avevamo ipotizzato uno scenario dove al successo d'immagine di Draghi, l'avvio del QE appunto, corrispondeva una vittoria del governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, sulla sostanza di questa operazione. Come dire: a Draghi le telecamere, a Weidmann gli euro-tedeschi ben chiusi in cassaforte.

Quel che è emerso in questi ultimi giorni non fa che confermare questa ipotesi, che comincia ad assumere contorni sempre più precisi quanto più inquietanti per i paesi dell'area mediterranea.


Il principio è sempre il solito dogma tedesco: non può e non deve esserci mutualizzazione alcuna del debito e del rischio che ne consegue. Punto. Il problema è che tutto ciò sta scritto nei trattati europei, un particolare che a volte si tende a dimenticare ma che a Berlino invece non scordano.

Come conciliare questo dogma con un QE almeno in parte basato sull'acquisto di titoli del debito dei vari stati dell'Eurozona? Ecco il problema che la Bce cerca di dirimere. Perché che il QE debba esserci è ormai cosa praticamente certa: lo reclamano i mercati finanziari (cioè i pescecani della finanza), lo esige il sistema bancario (pena il rischio di crack incontrollabili di alcune banche del sud Europa), lo chiedono a gran voce da oltreoceano per andare a compensare la minor liquidità emessa dalla Fed.

Che si possa trattare di un'operazione davvero efficace per ottenere un minimo di ripresa economica non ci crede ormai più nessuno, ma - al di là delle ragioni di cui sopra - a questo punto ce n'è un'altra ancora più importante che impone che il quantitative easing si faccia. Una ragione così sintetizzata da Alessandro Merli sul Sole 24 Ore di questa mattina:
«l'efficacia del QE non va sopravvalutata... Ma, a questo punto, l'alternativa può essere rovinosa».
Il punto è che i mercati finanziari si reggono da mesi sull'attesa messianica del QE, e se questo alla fine non arrivasse le conseguenze sarebbero appunto gravi, se non disastrose. Diamo quindi per presa la decisione del quantitative easing, e concentriamoci invece sulle sue - decisive - modalità.

Innanzitutto una necessaria premessa. 
L'acquisto di titoli riguarderà le obbligazioni (bond) del debito pubblico non per aiutare questo o quel paese in difficoltà, che anzi l'acquisto è previsto in base alla percentuale del pil di ciascun membro dell'eurozona, bensì per altri due motivi. Il primo è che solo il mercato dei titoli cosiddetti "sovrani" ha la dimensione adeguata. Il secondo, e più importante motivo, è che gli Stati - tanto più se sottomessi come nel sistema-euro - possono dare garanzie ben più solide degli altri soggetti emittenti titoli del debito (banche, grandi aziende, eccetera).

Eccoci così arrivati al punto decisivo, quello delle garanzie. Negli uffici di Francoforte due le ipotesi allo studio, una peggiore dell'altra.

La prima ipotesi sarebbe quella di imporre ai paesi più deboli (sicuramente Grecia, Cipro, Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda; ma forse anche Francia, Belgio e Slovenia) la creazione di fondi statali da utilizzare per garantire la Bce dalle eventuali perdite derivanti da acquisti sui titoli dei rispettivi debiti nazionali. Una simile ipotesi sarebbe semplicemente impraticabile e del tutto in perdita per alcuni paesi. Ad esempio, secondo un'elaborazione del Sole 24 Ore del 20 dicembre, basata sul valore dei Cds (assicurazioni sul debito), la Grecia dovrebbe mettere preventivamente a garanzia per ogni milione di euro acquistato dalla Bce un valore di 320mila euro. Una cosa insensata, dato che il beneficio che ne trarrebbe in termini di riduzione dello spread sarebbe del tutto irrisorio di fronte al valore di un simile accantonamento.

La seconda ipotesi, nella sostanza gemella della prima, non prevede nuovi fondi dedicati, ma solo perché la funzione di garanzia verrebbe esercitata dalle singole banche centrali nazionali sotto la direzione e la vigilanza della Bce. La decisione finale di Francoforte è attesa per il 22 gennaio, ma al momento è questa l'ipotesi che va per la maggiore.

Ed è un'ipotesi davvero rivelatrice della verità che comincia a manifestarsi, sia pure nel modo tortuoso di cui abbiamo detto all'inizio. Se il QE dovrà prendere forma attraverso acquisti e garanzie delle singole banche centrali, non è questo il segno manifesto della fine dell'unitarietà della politica monetaria dell'attuale Eurozona? Detto in maniera più chiara: non è questo - per quanto possa essere lungo il percorso - l'inizio della fine dell'euro?

Se questo sarà il "QE all'europea", che la stampa economica definisce ormai senza pudore alla "tedesca", avremo che ogni stato risponderà per le sue perdite, pur non essendone neppure direttamente responsabile, dato che la stanza dei bottoni dalla quale partiranno gli ordini sarà solo quella all'interno della torre della Bce. E questa è una cosa senza precedenti. Quando mai si è vista una banca centrale (e dunque uno Stato) divenire titolare di una perdita, senza avere invece alcuna titolarità sulle scelte di acquisto che l'hanno determinata? Ebbene, in Eurolandia è possibile anche questo...

Becchi e bastonati: ecco la condizione in cui verranno a trovarsi gli stati con i debiti più alti. Ma dire "stati" dice ancora poco, perché a pagare saranno ancora una volta i popoli.

Il meccanismo che si va congegnando è infatti micidiale. 
Esso consiste in 3 mosse, che ricapitoliamo: a) la Bce acquista titoli del debito garantiti dalle banche centrali nazionali, b) le banche si liberano così di una quota rilevante di titoli destinati a deprezzarsi (leggi QUI), c) le banche centrali, che dovranno sanare le perdite della Bce, ripianeranno i loro bilanci attingendo da quelli dei relativi stati.

Dunque, alla fine, più tagli e più tasse per i cittadini dell'Europa mediterranea per consentire il QE salva-banche, trasformando così un'altra quota di debito privato (quello delle banche) in debito pubblico. Peggio di così non si potrebbe. Ma proprio per questo si può esser certi che la decisione finale non si discosterà più di tanto da questo schema.

sabato 27 dicembre 2014

DI CHE MOVIMENTO POLITICO ABBIAMO BISOGNO? (inedito) di Costanzo Preve

27 dicembre
Era l'autunno del 2004. L'euro era da poco entrato in vigore. Il Movimento no-global si stava inabissando, mentre il governo Berlusconi era stato costretto a fare marcia indietro sull'Art.18. La Resistenza contro l'occupazione anglo-americana (sostenuta da vari paesi tra cui l'Italia ) dilagava e sferrava colpi durissimi, e G.W.Bush stava per essere rieletto per la seconda volta. 

In quei mesi nell'area antimperialista (da poco colpita da una dura offensiva repressiva accompagnata da una potente campagna di calunnie a mezzo stampa) si stava discutendo se dare vita ad un nuovo movimento politico, e quindi della natura ed del profilo che esso avrebbe dovuto avere. Costanzo si considerava dell'impresa. Inviò questa lettera ai compagni spiegando quali fossero le sue idee in proposito. Riteniamo utile pubblicarla. Costanzo condensa in poche ed efficaci paginette quale fosse il suo punto di vista: andava fondato sì un movimento anticapitalista, ma senza le stimmate del marxismo, ed oltre la dicotomia destra-sinistra. 
[Nella foto Costanzo Preve, a sinistra, in uno dei forum al Campo Antimperialista (Assisi) dell'agosto 2000]

CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE PREPARATORIA SULLA COSTITUZIONE DI UNA NUOVA FORZA POLITICA IN ITALIA

di Costanzo Preve

Ho sentito recentemente riproporre da amici, e compagni. con cui collaboro da circa quattro anni la tesi della possibilità-opportunità-necessità di una nuova forza politica. Personalmente anch’io auspico una simile forza politica. Sono piuttosto pessimista (o forse”realista”) su di un suo rapido sviluppo a breve o medio termine. 
Un conto è il “bacino di ascolto ed interesse” (presumibilmente discreto), ed un conto è il bacino di “militanza” (presumibilmente molto basso) perché in questo periodo storico mi sembra che la disponibilità generale alla militanza sia minima. 

Quelle che seguono sono da un lato riflessioni, dall’altro però anche la sincera enunciazione pubblica senza diplomatismi furbeschi delle condizioni minime di una mia possibile futura adesione organica. Un conto è infatti scrivere, spedire e pubblicare interventi teorici e filosofici (che continuerei ovviamente a fare), un conto invece una aperta adesione politica. Non intendo comunque, alla mia età e con la mia esperienza politica (sono nato nel 1943 ed ho cominciato a fare politica nel 1963), mettermi a tavola per mangiare cibi cucinati da altri. Questa è una cosa che non farò mai più. E’ bene dunque che sia chiaro a tutti che una cosa del genere mi interessa come cuoco e non come cliente. Meglio che su questo non nascano equivoci dolorosi e noiosi.

ESPOSIZIONE DELLE TESI

Inizierò con una riflessione sul nome dell’eventuale forza politica. Il nome deve infatti essere un compendio fedele del contenuto, e non un segnale identitario ideologico (tipo Democrazia Proletaria, cioè l’organizzazione meno proletaria mai esistita, oppure Partito della Rifondazione Comunista, che è in realtà un partito cesarista e leaderistico-mediatico di rifondazione no-global e new-global). Passerò poi ai tre punti programmatici fondamentali che a mio avviso devono caratterizzare questa forza politica. Seguiranno due allegati il cui scopo è chiarire ulteriormente i punti indicati per la discussione.

Roma, 29 aprile 2004: in solidarietà col la Resistenza irachena
SUL NOME DELLA FORZA POLITICA DA COSTRUIRE


I Nomi sono importanti, perché devono indicare un rapporto con le Cose, e non solo oniriche intenzioni soggettive o fantasmi identitari di appartenenza militante. Per questa ragione indico un nome volutamente sobrio e “moderato”, e cioè: MOVIMENTO ITALIANO PER LA LIBERAZIONE E L’INDIPENDENZA.

"Movimento" e non Partito, anche se ovviamente un movimento organizzato funziona poi come un partito, in quanto deve avere strutture di direzione chiare, riconoscibili, democraticamente elette e democraticamente revocabili. Questo non implica assolutamente “movimentismo”. L’opposizione astratta fra movimentismo e partitismo è pura metafisica scolastica. Tuttavia, linguisticamente, il termine “partito” indica maggiormente una “rappresentanza”, o di interessi economici o di missione storica (anzi, sovrastorica), mentre il termine “movimento” indica maggiormente una “attivazione” che intende favorire aggregazioni.

Non si allude volutamente al “comunismo” (vedi allegato A) o al “marxismo” (vedi allegato B), per ragioni che verranno chiarite più analiticamente in questi due allegati. Non si parla di Forze Popolari, o altri termini guerriglieri e terzomondisti. perché non siamo in Nepal o in Colombia, e bisogna ispirarsi al giusto motto di “non farci ridere dietro da tutti”.

Si dice “italiano” non certo per nazionalismo, quanto per indicare che non si pretende di rappresentare simbolicamente il mondo intero (comunismo, no-global, eccetera), ma ci si limita a relazionarci con altre forze a noi simili ed affini presenti in Europa e nel mondo. 
Il termine "liberazione" deve essere inteso in due sensi: liberazione dalla dittatura dell’economia capitalistica-neoliberale, che mercifica tutto e tutti, e liberazione dalla dittatura militare imperiale americana, che priva l’Italia e l’Europa di ogni sovranità. 
Il termine "indipendenza" significa il fine politico proposto dalla nostra forza politica. Chi lo trova generico e poco “classista” dovrebbe rifletterci un poco sopra. La parola “comunismo” come fine politico implicherebbe due cose, e cioè primo che tutti gli aderenti dovrebbero essere d’accordo a priori con queste finalità e secondo che si avesse fra di noi almeno la condivisione di un significato univoco di questa paroletta, il che ovviamente non è (se non l’anticapitalismo in negativo, che non è una condivisione in positivo). In quanto al “classismo”, personalmente non condivido un riferimento monoclassista proletario. Chi vuole questo riferimento monoclassista proletario trova nel mercato politico italiano molte piccole organizzazioni che lo garantiscono, dalle Brigate Rosse della Lioce alle sette dl tipo trotzkista e bordighista. Chi vuole invece le “moltitudini” può accomodarsi nella vasta galassia negriana ed autonoma. Non c'è proprio bisogno di Preve, che romperebbe solo le scatole.

I TRE PUNTI PROGRAMMATICI FONDAMENTALI

A mio avviso, per questa forza politica bastano ed avanzano tre punti programmatici. fondamentali, e cioè:
(I) Resistenza alla dittatura oligarchica dell’economia capitalistica, senza un’imposizione contestuale di un solo profilo ideologico che dovrebbe fare da unico fondamento legittimo di questa resistenza,
(II) Resistenza all’attuale struttura imperialistica del mondo, di cui l’impero militare americano non è che l’odierno aspetto dominante, ma che certamente non è l’unico o quello cui bisogna ricondurre tutto,
(III) La scelta di tenersi integralmente fuori dal bipolarismo Ulivo-Polo, non per ragioni di. principio astoriche eterne, ma sulla base di un giudizio politico determinato, che potrebbe anche essere modificato in futuro se cambiasse il panorama politico europeo e mondiale.
Discutiamo ora questi tre punti uno per uno.

RESISTENZA ALL’ECONOMIA CAPITALISTICA
Roma, manifestazione di solidarietà col popolo iracheno

Siamo oggi dì fronte ad un dato paradossale, da cui possiamo e dobbiamo partire. Da un lato, c’è una maggioranza virtuale, o quantomeno una corposa minoranza, che non accetta i valori morali ed economici del capitalismo, cerca di resistere alle sirene della flessibilità e della precarietà del lavoro salariato, si rifugia nel lavoro “autonomo” non certo per entusiasmo elettivo ma per impossibilità di avere un “posto fisso” (cui invece aspirerebbe se potesse), mostra ripugnanza per i tentativi di “aziendalizzare” integralmente ciò che non è per sua propria natura aziendalizzabile (la cultura, la scuola, l’assistenza sanitaria, eccetera), ed in definitiva concede solo a questo sistema una sorta di “obbedienza passiva”, mescolanza di incertezza e di impotenza, obbedienza passiva molto simile a quella a suo tempo prestate alle dittature novecentesche fasciste e “comuniste”. Obbedienza  politica passiva alle dittature politiche ieri, obbedienza passiva alla dittatura economica oggi.

Dall’altro, ed in modo solo apparentemente contraddittorio, questa larga insofferenza ai nuovi imperativi economici (che, ripeto è addirittura maggioritaria, o almeno corposamente minoritaria) convive e coesiste con una assoluta e verificabile indisponibilità ad una militanza politica stabile di tipo anticapitalistico. Da una sensibilità di massa si precipita a prefissi da elenco telefonico. Da un potenziale anticapitalismo generico minoritario (o almeno corposamente minoritario) si passa ad un anticapitalismo specifico organizzato ultra-ultra-minoritario. Questa è a mio avviso la contraddizione da cui partire.

Bisogna allora respingere ogni spiegazione consolatoria, anche se in molti casi realistica. Il riferimento alla sproporzione  di mezzi propagandistici e mediatici, ad esempio, non è una spiegazione, ma solo un’inutile lamentosa constatazione. Il riferimento alla caduta implosiva catastrofica del cosiddetto “socialismo reale”, che fa venir meno ogni possibilità immediata di una gestione alternativa dell’economia e delle forze produttive, non è una spiegazione, ma solo un dato storico su cui, fra l’altro, non esiste neppure fino ad oggi una diagnosi coerente, o almeno largamente condivisa, al di fuori di indegne banalità del tutto non-marxiste come l’allusione al ”tradimento dei burocrati”. 
II riferimento ai mutamenti nelle tecnologie produttive (dal fordismo al post-fordismo, eccetera) non è una spiegazione perché è assurdo ridurre una cosa complessa come l’opposizione al capitalismo ad una semplice questione come i mutamenti tecnologici di processo. E potremmo continuare. 
Roma, marzo 2003: l'oceanica manifestazione contro la guerra in Iraq

Ma non è il caso. E’invece necessario fare l’ipotesi che forse il nodo da cui si potrebbe forse uscire da questa contraddizione sta in ciò, che non è opportuno imporre all’anticapitalismo generico di oggi una condizione ideologica preventiva per legittimare il passaggio dal generico, disagio anticapitalistico all’anticapitalismo politico. E questo vale per tutti i riferimenti ideologici preventivi, nessuno escluso, dalIa nostalgia del vecchio PCI togliattiano (PdCI cossuttiano) all’adesione alla galassia ideologica Noglobal (PRC bertinottiano), dall’adesione a qualche variante delle scolastiche trotzkiste, bordighiste, maoiste o operaiste presenti sul mercato politico da decenni sempre strutturalmente minoritarie, fino alle nostre stesse posizioni (lrak Libero, eccetera). 

Se poi qualcuno mi volesse fare cortesemente osservare che un’anticapitalismo generico non è sufficiente, oppure che è “poco scientifico” (in quanto prescinde dalla conoscenza di Marx, dalla pratica di Lenin, eccetera), gli risponderò che ne sono perfettamente consapevole, ma non ritengo questa obiezione risolutiva. L’anticapitalismo, infatti, non è un dato astorico oppure epocale permanente, sempre eguale dal settecento ad oggi, ma è qualcosa di storicamente determinato in senso spaziale e temporale, ed è cioè qualcosa di dipendente dall’esperienza generazionale, dalla collocazione sociale nella divisione del lavoro, eccetera. Questa è la ragione per cui, a mio avviso, esso non deve essere preventivamente sottoposto alla condivisione di un’ortodossia ideologica, fosse pure la migliore del mondo. E dal momento che l’ortodossia ideologica migliore del mondo per ciascuno di noi finisce di fatto con l’essere la propria, dando luogo a tragicomiche vicende di tipo narcisistico ed autoreferenziale si organizzano di fatto solo i pochissimi “veri credenti”.
Questo discorso, ovviamente, vale innanzitutto per me stesso, e mi considero pienamente consapevole di questo.

Chi pensa che una piattaforma di anticapitalismo generico darebbe luogo a contraddizioni profondissime di tipo economico (salariati ed autonomi), politico (anticapitalismo di destra e di sinistra) e soprattutto culturale (perché sono ovviamente diversi gli aspetti del capitalismo che piacciono o non piacciono a ciascuno di noi), ebbene sappia che ne sono perfettamente consapevole. Ma pur essendone consapevole la ritengo comunque una risorsa dinamica, o quanto meno un male minore rispetto al male maggiore dell’uniformazione ideologica preventiva.
D’altro canto, mi chiedo come si possa seriamente pensare di riuscire a far passare una “linea di massa” sulla base della richiesta dell’uniformazione ideologica preventiva, fosse pure la migliore (o la meno peggiore) del mondo.
Oggi il capitalismo è “percepito” come cattivo da una maggioranza (o quanto meno da una corposa minoranza), mentre è “interpretato” come cattivo da una piccolissima minoranza ultra-ideologizzata, per di più spaccata al suo interno in decine di sette rabbiosamente ostili una all’altra per la divisione delle piccolissime quote di militanza nella ristrettissima nicchia di mercato socio-politico.
E questo è in breve il primo punto programmatico.

RESISTENZA ALL’IMPERIALISMO  ED A QUELLO AMERICANO  IN
PARTICOLARE

Non ho certo paura del termine anti-americano o anti-americanista ma,  ammetto che effettivamente esso si presta ad equivoci spiacevoli, come se fossimo dei fanatici monomaniaci che individuano negli USA il Male Assoluto. Ora, tutti mali sono “relativi” agli uomini ed alla loro storia (da Hiroshima ad Auschwitz)  e non esistono mali “assoluti”, perché l’Assoluto, dato e non concesso che esista (ed Hegel pensava che esistesse, mentre invece Marx non lo pensava), esiste comunque solo nel mondo delle idee, perché nel mondo reale tutto è “relazionato” (relazionato, non relativo, visto che scrivere in maiuscolo Relativo è farlo diventare un assoluto) con altro. Questa, signori, è la dialettica.
Dunque, niente USA come male assoluto. E dunque respingiamo ogni accusa di antiamericanismo assoluto. L’americanismo, militare imperiale (AMI) è però un nemico. Dunque, se vogliamo, noi non siamo nemici degli USA, ma degli AMI sì. Tuttavia, non giochiamo più con le parole, ma cerchiamo di chiarire i concetti.

Oggi il potere unilaterale militare americano non è che la forma presa dall’odierno imperialismo. Questo non significa, ovviamente, che ci sia oggi un solo potere imperialista nel mondo, e Francia, Inghilterra, Germania, eccetera, fino alla piccola Italia ulivo-polista, non sono più potenze imperialiste per nulla. Mi chiedo come ci si possa seriamente attribuire una simile sciocchezza. Oggi il potere imperiale americano sovradetermina la conflittualità inter-imperialistica in modo storicamente inedito, perché non è ancora mai successo finora nella storia del mondo (impero romano, impero mongolo, impero navale britannico, eccetera) che una singola potenza intendesse attuare un effettivo dominio militare mondiale.

Scrivo, senza sapere ancora se vincerà Bush o Kerry. Ma in ogni caso, con dosi maggiori o minori di cosiddetto “multilateralismo” e di coinvolgimento subalterno ONU, eccetera, non cambierà nell’essenziale lo scenario di dominio, militare americano.

Ed ecco il perché del termine INDIPENDENZA. Noi dobbiamo essere la forza, di fatto l’unica in Italia, che non fa sconti e compromessi sul ritiro, integrale di tutte le basi militari americane e NATO dall’Italia e dall’Europa, e questo senza premettere ideologicamente il riferimento al proletariato, al marxismo e al comunismo, ma semplicemente per rimettere alla sovranità democratica del popolo (necessariamente pluriclassista) il potere che gli viene tolto dalle basi americane.
Sovrano è solo chi è sovrano nelle condizioni di  emergenza. E se l’emergenza è in mano alle decisioni delle basi militari (e nucleari) americane, non c’è sovranità.
E questo è in breve il secondo punto programmatico.

CHIAMARSI FUORI DAL BIPOLARISMO CENTRO-DESTRA/CENTRO-
Firenze, ottobre 2002 in occasione del sociale forum europeo
SINISTRA

Questo terzo punto è il più delicato e contrastato. Sui primi due ci può essere forse un consenso di massima —no al capitalismo che mercifica tutto, no all’arroganza imperiale americana—, ma sul terzo fioccano invece le obiezioni ("Berlusconi è il nemico principale", "fare fuori Berlusconi e poi penseremo al resto", eccetera). E’allora necessario iniziare respingendo due punti di vista presenti nel piccolo mondo settario-gruppettaro che si scontrano con il buon senso prevalente nel mondo esterno. In primo luogo, non è ovviamente vero che il Polo e l’Ulivo sono “eguali”, perchè sono entrambi “borghesi” o “antiproletari”. 
Lasciamolo dire ai gruppuscoli bordighisti e trotzkisti. Bisogna invece ammettere apertamente che Polo e Ulivo sono diversi per insediamento sociale, rappresentanza differenziata di gruppi sociali, culture politiche di riferimento, eccetera. E non potrebbe essere diversamente, perché Polo e Ulivo, lungi dall’essere una “sola massa reazionaria”, sono la prosecuzione, nella nuova situazione della seconda repubblica italiana nata dal colpo di stato giudiziario kafkianamente detto “mani pulite” (laddove non ci fu mai nulla di più “sporco”), di divisioni sociali e culturali presenti già, sia pure in forma diversa ed apparentemente irriconoscibile, nella prima repubblica. Persino nella politica estera ed europea vi sono differenze, anche se l’ulivista D’Alema ha fatto la guerra del 1999 e il polista Berlusconi ha aderito alla guerra del 2003, entrambe ad assoluta sovranità strategica e militare USA.

In secondo luogo, sarebbe assurdo dire che con l’Ulivo non ci si potrebbe alleare mai perché un signore ucraino chiamato Trotzky ha scritto nel 1934 che non si possono mai fare per principio dei “fronti popolari”, e questo varrà sempre per i tempi dei tempi fino a che finalmente sarà possibile riedificare una salvifica Quarta Internazionale planetaria. Gli allucinati che pensano questo hanno già la loro piccola nicchia politico-ideologica per compiere i loro riti identitari. No, non è così. E’ anzi del tutto possibile che in futuro si possano creare situazioni inedite ed oggi imprevedibili per cui potrà essere utile e necessario fare alleanze politiche con un Ulivo (o con un Polo) trasformati da eventi tellurici di tipo economico e sociale per ora inimmaginabili.
Mai legarsi le mani da soli con ortodossie estrapolate da eventi del passato. Lenin non lo ha fatto (esempio Tesi di Aprile del 1917).
Roma, settembre 2006
Il chiamarsi fuori dal bipolarismo Polo-Ulivo è allora, e non potrebbe mai essere diversamente, non certo una petizione dogmatica di principio di “purezza”, ma una decisione politica concreta in risposta ad una analisi storica determinata. E dal momento che l’ipotesi dell’appoggio al Polo è solo scolastica, astratta e teorica, mentre quella dell’appoggio all’Ulivo è invece reale, discussa, concreta, desiderata da molti, credibile, eccetera, bisogna allora tralasciare del tutto come irrealistica la prima ipotesi, e ragionare solo sulla seconda, quella che potremmo definire del Male Minore fra i Due Mali (Polo male maggiore, Ulivo male minore, e dunque per ora scelta del male minore). 

La teoria del Male Minore è praticamente irresistibile, perché corrisponde ad un’esperienza quotidiana e ne rappresenta l’estrapolazione nel rarefatto mondo della rappresentanza politica. Peccato che sia del tutta falsa. Mentre esistono veramente  i “mali minori” in molte scelte concretamente controllabili dalla nostra prassi quotidiana, la delega di decisioni politiche a gruppi oligarchici (come la guerra o la pace a D’Alema ed a Berlusconi, che hanno in comune quello di essere incontrollabili dai loro elettori perché rispondono solo a mandanti politico-diplomatici sistemici di altissimo livello) è invece del tutto incontrollabile. Sia che noi crediamo al superamento della dicotomia Destra/Sinistra sia che invece non ci crediamo (perché crediamo alla rigenerazione della sinistra e/o alla “vera sinistra ideale”, eccetera), in ogni caso la preferenza per l’Ulivo si basa sulla premessa, del tutto mitica, inverificabile e congetturale, della possibilità di influenzare i suoi vertici politici su questioni di tipo economico  e politico-militare reali.

Ed invece non è così. Due sono le questioni in cui il vertice dell’Ulivo è del tutto intrasformabile. Primo, la questione della precarizzazione e flessibilizzazione sempre maggiore del lavoro salariato e dipendente. Secondo, la questione della permanenza delle basi militari sia NATO che USA in Italia ed in Europa. Mille contorsioni retoriche ed elettorali di Diliberto e di Bertinotti non possono cambiare di un grammo la situazione. 
Chi si orienta in base alla categoria del Meno Peggio sappia che l’ideologia del menopeggismo, fase suprema delI’Antiberlusconismo, farà sì che le retoriche di Bertinotti e Diliberto verranno soddisfatte al 5 per cento mentre il 95 per cento sarà nelle mani “sistemiche” delle oligarchie capitalistiche, nel sorriso da furetto presuntuoso di Amato e nel ghigno di sufficienza nichilista di D’Alema. Chi scriverà la preferenza elettorale per Ferrando (di cui è già programmato al cento per cento che non verrà eletto mai, come per il povero Maitan in Rifondazione) sappia che il suo voto servirà solo a mandare in parlamento il sionista Rutelli. 

Per questa ragione è del tutto inutile ipotizzare di fondare una nuova forza politica se non ci si mette bene d’accordo sul fatto che in ogni caso, per ora e nelle attuali condizioni storiche, non si vota per l’Ulivo e ci si mette fuori dell’illusione bipolare Polo-Ulivo. E nelle stesso tempo deve essere anche chiaro che non ci si presenta alle elezioni in modo testimoniale senza che ci siano ancora le condizioni minime di visibilità e di consenso, perché questo vorrebbe dire prendere percentuali da prefisso telefonico e farsi ridere dietro da tutti. Ancor peggio, vorrebbe dire di fatto ridicolizzare una causa storica e strategica con elettoralismi affrettati e mediatici.

ALLEGATO A. SUL COMUNISMO
Genova, 20 luglio 2001

Nessuno può impedire a qualcuno di essere e proclamarsi pubblicamente “comunista”, come nessuno può impedire a qualcuno di essere e proclamarsi cristiano o musulmano.
Quando però si passa dalla autoproclamazione  privata e pubblica del proprio essere “comunista” al chiarimento razionale di che cosa si intende dire con questa autoproclamazione, allora comincia la torre di Babele. Voglio oppormi al capitalismo. Voglio essere fedele ai miei ideali di gioventù. Voglio rivendicare quello che c’era di buono in Stalin, Togliatti, il socialismo reale, i partiti comunisti, eccetera. Voglio continuare a richiamarmi a Marx (oppure Engels, Stalin, Mao, Trotzky, eccetera). Non accetto il verdetto della fine capitalistica della storia. Berlusconi mi fa schifo. Non tutto è merce. Eccetera, eccetera.
Ridotto a questo, il comunismo diventa di fatto, al di là delle migliori intenzioni un fantasma identitario. Ora, agitare un fantasma identitario che nasconde centinaia di significati diversi e spesso opposti non può diventare la precondizione per l’adesione ad una forza politica oggi. I “comunisti” allora è bene che ci aderiscano individualmente rivendicando pienamente quello in cui credono, senza pretendere però che questo “comunismo” diventi un vincolo ideologico comunitario di partito.
Con questo, non dico che Lenin e Gramsci hanno fatto male a fondare ai loro tempi dei partiti comunisti. Personalmente, ritengo invece che abbiano fatto benissimo. Ma ai loro tempi la parola “comunismo” significava una cosa ben precisa (dittatura del proletariato industriale, abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, partito unico che si fa stato, socializzazione formale e statalizzazione reale delle forze produttive, filosofia marxista ridotta ad ideologia di partito, ateismo di stato, eccetera), e allora essere “comunisti” voleva dire una cosa ben precisa (anche se poi inevitabilmente spaccata fra ortodossi ed eretici). Ma oggi non è più così, o meglio è ancora così solo per i gruppi fondamentalisti, non importa se neostalinisti o neotrotzkysti (ed allora chi lo vuole si accomodi con loro). Non si sente il bisogno oggi di un’ennesima setta neocomunista di tipo mazzeo-previano-pasquinelliana, il cui motto inevitabilmente non potrebbe essere “Proletari di tutto il mondo unitevi”, ma “Prepariamoci a farci ridere dietro da tutti”.
Se poi qualcuno vuole il comunismo come improvvisazione mediatica alla Bertinotti priva di capacità di bilancio storico e teorico e regno del peggiore analfabetismo scientifico e  filosofico, allora si accomodi in una organizzazione già esistente, il cui prossimo ministerialismo aumenterà ancora il circo di adulatori, nani e ballerine.

ALLEGATO B. SUL MARXISMO


Comunque lo si definisca o lo si voglia interpretare, il “marxismo” non  è un distintivo che si porta all’occhiello per segnalare agli altri un’appartenenza ideologica di gruppo o di partito, ma è piuttosto un apriscatole che serve a mangiare il cibo della conoscenza scientifica e filosofica della società. Nelle attuali condizioni esso può solo essere formulato in forma aporetica e non sistematica, ed è un’illusione pericolosa (che personalmente non accetterò e non avallerò mai) pensare che una sua versione, per buona che sia, debba essere posta a fondamento di un gruppo politico. Oggi il marxismo è un libero cantiere di ricostruzione aperto a tutti, non una bandiera di organizzazione.

Torino, ottobre 2004




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