lunedì 30 giugno 2014

UN MOSTRO CHIAMATO TTIP di Jorge Alcazar Gonzalez e Manuel Montejo

30 giugno. UN FORMIDABILE DOSSIER. 

Lo chiamano Ttip, acronimo che sta per Transatlantic Trade and Investment Partnership. Si tende a contestare l'accordo tra Stati Uniti ed Unione europea dal solo punto di vista economico, in quanto è un distillato di neo-liberismo. Non meno importante è l'aspetto geopolitico: il Ttip è infatti la catena che inchioda definitivamente l'Unione europea nel blocco imperialistico a guida USA.

Questo Dossier è stato pubblicato dai compagni no-euro spagnoli del Frente Civico

Ricordiamo che due esponenti di punta del Frente (Manolo Monereo e Alberto Montero) saranno tra i protagonisti del Forum Europeo che si svolgerà ad Assisi dal 20 al 24 agosto prossimi.


Il Dossier è pubblicato in lingua italiana dal Coordinamento nazionale della sinistra contro l'euro.




domenica 29 giugno 2014

RENZI TORNA A CASA CON LA CODA TRA LE GAMBE di Piemme

29 giugno. NO PANNICELLI CALDI, NO MILLE GIORNI.
Il vertice europeo nulla concede al governo italiano. Una stangata di 25 miliardi è in arrivo in autunno.

Scrivevo il 25 giugno, alle porte del Consiglio Europeo, del "fiato corto di Matteo Renzi". Ricordate? Titoloni a tutta pagina che davano per scontato che la Merkel sarebbe andata incontro a "Mister 40%", che la Germania avrebbe permesso all'Italia di aggirare le stringenti clausole previste dai Trattati, ed in particolare quelle del Patto di Stabilità e crescita. [Il Patto di stabilità venne sottoscritto nel 1997 e precisava le condizioni stringenti inerenti alle politiche di bilancio che i singoli stati avrebbero dovuto rispettare per dotarsi dell'euro, condizioni già scolpite nel Trattato di Maastricht. Ndr].

Partito per il vertice con la sua proverbiale baldanza, Renzi se ne è invece tornato a casa con la coda tra le gambe. Egli non ha ottenuto dalla Merkel nessuna della quaattro briciole che era andato ad elemosinare. Ricordiamole: (1) scorporare le spese per investimenti dal calcolo del deficit ; (2) scorporare dallo stesso calcolo i pagamenti arretrati della pubblica amministrazione ed infine; (3)
far slittare di un anno il pareggio di bilancio nel 2016, non nel 2015 come concordato in precedenza; infine, (4) ammorbidire la clausola del Fiscal Compact e ribadita dal Two Pack, che prevede la riduzione annuale automatica di un ventesimo dell'eccesso di debito, i famigerati 50 miliardi l'anno di tagli alla spesa pubblica.

Avevamo visto giusto, la Merkel non si è fatta incantare dal pifferaio fiorentino ed ha ribadito che le regole vanno rispettate (stabilità) e che se Roma vuole fare più spesa pubblica reperisca eventualmente queste risorse aumentando il "denominatore", ovvero il Pil (crescita), oppure aumentando le tasse.

La cancelliera, dopo aver  ribadito con forza che il "Patto va applicato pienamente", ha ricordato, a chi si fosse eventualmente scordato a chi spetta nell'Unione la sovranità sulle politiche di bilancio, un principio fondamentale: ovvero che «il principio di flessibilità non è verificato dai singoli Stati, ma è la Commissione europea che decide». La Merkel, fedele al precisionismo maniacale tedesco ha affermato testualmente:
«Per i paesi con un deficit inferiore al 3% del Pil la Commissione può già dire che, per certi progetti di riforma il cofinanziamento dei singoli Stati non verrà aggiunto al deficit. Per i paesi vicini al limite del 3% di disavanzo, come l'Italia, il potere discrezionale della Commissione aumenta».[Ivo Caizzi, Corriere della Sera del 28 giugno]
La Merkel "ha ragione", è la Commissione europea infatti, l'organismo politico decisionale di ultima istanza, quello che, in base ai Trattati, ha l'ultima parola in merito alle politiche economiche e di bilancio. Lo tengano a mente non solo i piddini, ma tutti coloro che cianciano di "riformabilità dell'Unione" e che fanno spallucce quando diciamo che la sola speranza per evitare l'abisso è riconquistare la piena sovranità nazionale, tra cui quella monetaria.

Si capisce dunque perché, al di la delle chiacchiere italiane, la Merkel abbia ottenuto la vittoria piena al recente Consiglio europeo, ovvero aver messo un suo fedele mastino, Jean-Claude Juncker, a capo della Commissione. E Renzi che ha fatto? In barba a tutti i suoi proclami di "cambiare verso all'Europa", lasciando soli inglesi e ungheresi, si è adeguato, senza fiatare, ostentando anzi un significativo servilismo verso la cancelliera.

Ma quali sono le conseguenze di questa sconfitta renziana? E' presto detto: non potendo tra l'altro nemmeno far slittare il pareggio di bilancio di un anno il governo sarà obbligato a correre ai ripari. Ad ottobre il governo dovrà presentare alle Camere la Legge di Bilancio. Come far tornare i conti? Come coprire il buco degli 80 euro visto che il PIl 2014 si attesterà vicino allo zero invece che all'1% com'era stato strombazzato? Federico Fubini su la Repubblica di ieri —dopo averci ricordato che il debito pubblico è cresciuto in un anno di 77miliardi e che nel 2013 solo di interessi l'Italia ha pagato ben 82 miliardi— conferma le indiscrezioni che già circolavano: c'è solo un modo, con una manovra correttiva di circa 25 miliardi, 50mila miliardi di vecchie lire, più di un punto e mezzo di Pil. 

Nuova maxi-stangata in arrivo dunque. Al netto (modesto) degli incassi delle svendite delle aziende pubbliche (cosiddette privatizzazioni) si dovranno o aumentare le tasse o ridurre drasticamente la spesa pubblico. Avremo un mix di entrambi, i cui effetti depressivi sul ciclo economico saranno pesanti, col risultato di distruggere altre forze produttive, di far chiudere altri migliaia di aziende, di aumentare disoccupazione e miseria. 

Alle porte del Consiglio europeo concludevo:
«Non è con i pannicelli caldi degli "allentamenti dei patti" che l'Italia potrà uscire dal marasma. Ci vorranno misure radicali, tra cui l'abbandono della moneta unica e la disdetta dei Trattati, e poi grandi trasformazioni sociali. Senza il paese procederà sulla via del collasso e dovrà necessariamente passare per un periodo di eccezionali turbolenze sociali. Si illude, il Renzi, che in queste condizioni abbia mille giorni a disposizione».
Tenete a mente: non avremo nemmeno i pannicelli caldi e Renzi non avrà mille giorni. 

venerdì 27 giugno 2014

RENZI-GRILLO: DUE A ZERO PALLA AL CENTRO

27 giugno. COSA BOLLE NELLA PENTOLA A CINQUE STELLE? 

«Sembra che questo voltafaccia stia causando "forti mal di pancia" in seno non solo alla base degli attivisti ma anche nei gruppi parlamentari di M5S. Altro che "mal di pancia"! Ci sarebbe bisogno di un vero e proprio sussulto!
Invece di farsi incantare dal pifferaio fiorentino i parlamentari M5S dovrebbero ricordarsi le ragioni per le quali sono stati eletti, tenendo fede al mandato che hanno ricevuto. E ciò dovrebbe valere a maggior ragione dal momento che M5S teorizza il cosiddetto "vincolo di mandato"».

Riguardo alla proposta di legge elettorale avanzata dal Movimento 5 Stelle Leonardo Mazzei ha detto, e in maniera molto convincente, l'essenziale. [Vedi: Il diavolo o l'acqua santa?] Si tratta di un fax-simile del modello in vigore in Spagna, cioè di un sistema fortemente bipolare che sacrifica il principio democratico della rappresentanza (per cui il Parlamento dev'essere specchio fedele dell'intero corpo elettorale) sull'altare della "governabilità". In buona sostanza: i due partiti che arrivano per primi usufruiscono di sostanziosi premi (più seggi rispetto ai voti effettivi ottenuti) a scapito di tutti gli altri ed anzitutto delle forze dell'opposizione anticapitalista.

Non c'è da stupirsi quindi, che una volta fatto proprio il paradigma della "governabilità", M5S abbia accettato il negoziato con il Partito democratico di Matteo Renzi. Poiché di negoziato si tratta, tant'é che Di Maio, fermo restando il discorso (secondario) sulle preferenze, ha addirittura aperto sul doppio turno e uno sbarramento secco del 5%. Che questo negoziatio si concluda con un accordo vero e proprio, tagliando fuori Forza Italia, io ne dubito. E se è così, segnalano la maggior parte dei commentatori politici Renzi, con la sua tattica dei "due forni" avrà segnato un punto a suo favore, restando il cerino acceso in mano ai pentastellati.

Vedremo. Io mi pongo una domanda: quella di M5S è solo una mossa tattica per galleggiare dopo la delusione delle europee, oppure è indice di una svolta più profonda, che annuncia una istituzionalizzazione e normalizzazione del Movimento?

Temo che sia la seconda che ho detto. 
Fino ad ora i Cinque Stelle, rispetto ai tentativi di snaturamento autoritario della repubblica parlamentare, avevano adottato —solo nelle sedi istituzionali visto che si sono sempre rifiutati di suscitare un movimento di protesta dal basso— una sacrosanta tattica ostruzionistica, denunciando le mosse dei partiti di regime come anticostituzionali, ed ergendosi a paladini della Costituzione. 
Avevano poi appoggiato la tattica ostruzionistica alla recente sentenza della Corte costituzionale la quale,  dichiarata incostituzionale la legge elettorale "Porcellum", implicitamente dichiarava illegittimo lo stesso parlamento eletto nel febbraio 2013.

Dalla sentenza della Consulta sorge una domanda che non è ammissibile aggirare: può un Parlamento eletto in maniera illegittima e anticostituzionale, arrogarsi la facoltà di stravolgere l'ordinamento istituzionale?

Certo che no!
Aldo Giannuli faceva giustamente notare:
«La stessa sentenza precisa che il Parlamento è pienamente legittimato ad operare, per il principio della continua operatività degli organi dello Stato, ma è palese che questo argomento abbia piena efficacia a riguardo della produzione legislativa ordinaria, che può anche avere caratteri di necessità ed urgenza, mentre è discutibile per quella di ordine costituzionale che, per definizione, non ha mai caratteri di necessità ed urgenza (e, infatti, è esclusa dalla decretazione). E tale rilievo acquista ulteriore peso ove si consideri che, almeno in teoria, potrebbe verificarsi il caso di una modifica costituzionale proprio sugli articoli in base ai quali la Corte ha dichiarato incostituzionali due aspetti fondamentali della legge elettorale, in modo tale da annullarne gli effetti, ma, con questo, aprendo un conflitto di attribuzioni senza precedente».
Cambiare in senso decisamente maggioritario la legge elettorale e addirittura l'assetto bicamerale della Repubblica sono senza dubbio questioni che hanno rilievo costituzionale, giusto quindi l'ostruzionismo in base al principio che questo Parlamento è illegittimo.

Col suo nuovo approccio "costruttivo" (ovvero distruttivo dell'ordinamento costituzionale) M5S viene meno non solo alla promessa che aveva fatto agli elettori, calpesta e straccia la sua stessa ragione sociale.

Sembra che questo voltafaccia stia causando "forti mal di pancia" in seno non solo alla base degli attivisti ma anche nei gruppi parlamentari di M5S. Altro che "mal di pancia"! Ci sarebbe bisogno di un vero e proprio sussulto!

Invece di farsi incantare dal pifferaio fiorentino i parlamentari M5S dovrebbero ricordarsi le ragioni per le quali sono stati eletti, tenendo fede al mandato che hanno ricevuto. E ciò dovrebbe valere a maggior ragione dal momento che M5S teorizza il cosiddetto "vincolo di mandato".

Dovrebbero ricordarsi che nel Paese non solo è maggioritario il disprezzo per i partiti di regime, che c'è una vasta area disposta a mobilitarsi per difendere la Costituzione e per impedire nuoci strappi autoritari.

Altro che "approccio costruttivo e dialogante" quindi! Occorre anzi far sì che dall'opposizione sterilmente istituzionale si passi a quella popolare, animando un movimento di massa per fermare un regime ormai putrido che tenta disperatamente di autoperpetuarsi, in ossequio ai desiderata delle oligarchie europee e del capitalismo predatorio.

mercoledì 25 giugno 2014

IL FIATO CORTO DI MATTEO RENZI di Piemme

25 giugno. «Non è con i pannicelli caldi degli "allentamenti dei patti" che l'Italia potrà uscire dal marasma. Ci vorranno misure radicali, tra cui l'abbandono della moneta unica e la disdetta dei Trattati, e poi grandi trasformazioni sociali. Senza il paese procederà sulla via del collasso e dovrà necessariamente passare per un periodo di eccezionali turbolenze sociali.
Si illude, il Renzi, che in queste condizioni abbia mille giorni a disposizione».

Avremo modo di tornare a parlare dello spettacolo che va sotto il nome di "riforma della legge elettorale". L'astuto Renzi va per la sua strada, si dichiara disposto a trattare, ma senza mettere in discussione il principio per cui "chi arriva primo pigliatutto", anche ove il "primo" fosse solo una minoranza del Paese. Ciò con buona pace del principio democratico della rappresentanza, per cui governare spetta a chi ottiene la maggioranza effettiva dei consensi.
Il Movimento 5 Stelle sembra un pugile suonato. Dopo aver depositato una propria indecente spagnolista proposta di legge elettorale (una pseudo-proporzionale che fa acqua da tutte le parti), in occasione dell'incontro di oggi con la delegazione del Pd, M5S ha di gran lunga peggiorato le cose, aprendo all'ipotesi antidemocratica e anticostituzionale di uno sbarramento generale del 5% (col che una forza con più di 2 milioni di voti non entrerebbe in Parlamento) e addirittura al doppio turno com'è nei desiderata del Pd. Per farla corta:  avendo sorpassato in voti il blocco berlusconiano, i pentastellati han fatto la mesta fine degli altri, proponendo una legge pro domo loro, nella speranza (vana) di congelare l'attuale bipolarismo Pd-M5S.

Lunedì la Merkel ha accennato alla possibilità che la Germania accetti, per i paesi Ue con alto debito e alto deficit, deroghe ai vincoli stringenti del Patto di Stabilità stipulato dai paesi Ue nel 1997. Due i vincoli o caveat fondamentali: il primo è che il deficit pubblico non deve superare il 3% del Pil del Paese, in caso di sforamento scatta la procedura d'infrazione; il secondo vincolo è che il debito pubblico non deve superare il 60% del Pil. Ricordiamo che il Patto di Stabilità venne blindato successivamente nel dicembre 2011dal Six Pack, quindi dal Fiscal Compact siglato nel marzo 2012, ed infine dal Two Pack entrato in vigore nel marzo 2013 —il quale consegna alla Commissione europea la possibilità di pronunciarsi sui bilanci nazionali dei 18 Paesi della zona euro (a partire dal 2014) ed eventualmente di porre il veto, mentre fino ad allora poteva esprimere solo raccomandazioni.

Il giorno dopo, cioè ieri, i giornali italiani esultavano. Oggi l'inevitabile correzione di rotta. La battuta della Merkel è stata spiegata dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble: la Germania, ha affermato in Parlamento, non accetterà alcuna deroga alle regole fiscali e di bilancio. Più preciso ancora è stato Jens Weidmann, presidente della Bundesbank: "Non abbiamo bisogno di un indebolimento ma piuttosto di un rafforzamento delle regole Ue". Ecco, ha fatto capire Weidmann "non appena le pressioni del mercato si sono calmate, sono giunte le richieste dei politici per un allentamento delle regole".

Scontro vero o finto in seno al governo e alla cupola tedeschi? Lo sapremo presto, dalle conlcusioni del prossimo Consiglio europeo, che si riunirà domani e dopodomani. 
Il varco per Renzi è strettissimo. Vorrebbe tornare a casa con qualcosa in mano, con almeno la promessa che il suo governo possa almeno, dimenandosi tra le pieghe dei Trattati, possa: (1) scorporare le spese per investimenti  dal calcolo del deficit e (2) ammorbidire la clausola del Fiscal Compact e ribadita dal Two Pack, che entra in vigore nel prossimo anno e che prevede la riduzione annuale automatica di un ventesimo dell'eccesso di debito, i famigerati 50 miliardi l'anno di tagli

Renzi si presenta al Consiglio europeo con vaghe promesse di "riforme radicali" e privatizzazioni. Difficile che queste possano incantare Berlino. E' probabile che il Consiglio europeo si concluda con un prendere tempo. Il blocco tedesco vorrà prima di tutto chiudere la partita delle nomine europee, definire gli assetti dei centri nevralgici, tra cui la Commissione europea, ed è significativo che la Germania tenga duro sul suo candidato Jean-Claude Juncker, non certo un accomodante.

Non c'è bisogno di attendere il Consiglio europeo per capire quanto vaghe siano le promesse di Renzi
Nel discorso svolto ieri in Parlamento il Presidente del Consiglio ha fatto sfoggio della sua proverbiale retorica, anche con frasi ad affetto che potrebbero essere attribuite ad un euro-scettico: "Si è immaginato di fare l'Europa solo basandosi sulla stabilità. Ma la stabilità senza la crescita diventa immobilismo. Si e' affidato alla moneta il compito di costruire l'Europa. Questo ragionamento non basta: non basta avere una moneta unica per condividere un destino insieme".

L'astuto Renzi è tuttavia un baro.
Dietro al fumo del suo discorso l'arrosto è stato costituito dalla risoluzione presentata a Montecitorio dai capigruppo della maggioranza che sorregge il governo nella quale sono contenute le direttive in vista della presidenza italiana del semestre europeo (approvata con 296 sì e 169 no): di riferimenti all'allentamento del Patto di stabilità e del Fiscal compact nemmeno l'ombra. Se a questo sommiamo che il 3% di deficit su Pil è stato addirittura scolpito in Costituzione (e Renzi ha più volte ripetuto che lo rispetterà), è facile capire quanto lungo sia il naso di Renzi.

Non è con i pannicelli caldi degli "allentamenti dei patti" che l'Italia potrà uscire dal marasma. Ci vorranno misure radicali, tra cui l'abbandono della moneta unica e la disdetta dei Trattati, e poi grandi trasformazioni sociali. Senza il paese procederà sulla via del collasso e dovrà necessariamente passare per un periodo di eccezionali turbolenze sociali.
Si illude, il Renzi, che in queste condizioni abbia mille giorni a disposizione.




martedì 24 giugno 2014

VERSO IL FORUM EUROPEO (Assisi 20-24 agosto 2014)

La lista dei protagonisti
L'elenco dei forum e delle tavole rotonde
Le in formazioni per partecipare e aderire


Per informazioni, prenotazioni e adesioni: forumeuropeo2014@virgilio.it

In Aprile diffondemmo l'Appello che convocava il Forum europeo OLTRE L'EURO. L'ALTERNATIVA C'È
Venne subito tradotto in greco, in spagnolo, in francese, in tedesco e in inglese.

Il Forum di Assisi servirà a confrontare le diverse idee ed esperienze in vista di un’alleanza delle forze democratiche che oltre a dire no all’euro-dittatura e al neoliberismo, si battono per la giustizia sociale, per la fratellanza e la liberazione dei popoli. Riusciremo a superare le divisioni? A fare fronte comune? E’ un’impresa ardua ma doverosa, tenendo conto che mentre si deve agire per riottenere la sovranità politica, democratica e monetaria, occorre contrastare esiti autoritari come vogliono forze a vario titolo reazionarie e liberiste.

Al forum interverranno 

Giuseppe Amini (Coord. Sinistra contro l'euro), Luciano Barra Caracciolo (Giurista), Emiliano Brancaccio (in collegamento videoeconomista), Sergio Cesaratto (economista), Shirin Chehayed (Bottega Partigiana), Valerio Colombo (Partito Umanista), Giorgio Cremaschi (ROSS@), Nello De Bellis (MPL), Daniele Della Bona (me-MMT), Beppe De Santis (Meridionalisti Italiani), Roberta Fantozzi (segreteria nazionale PRC), Nino Galloni (economista), Aldo Giannuli (politologo), Sergei Kirichuk (Borotba, Ucraina), Francisco La Manna (Alza il pugno), William Langthaler (storico, Austria), Alessandro Leoni (PRC), Tony Manigrasso (Partito Umanista),  Leonardo Mazzei (MPL), Rodolfo Monacelli (Coord. Sinistra contro l'euro), Manolo Monereo (storico e politologo, Frente Civico, Spagna), Alberto Montero (economista, Frente Civico, Spagna),  Luigi Nanni (Marcia della Dignità), Sergey Novikov (Partito Russo dei Comunisti), Moreno Pasquinelli (MPL), Marco Passarella (economista), Albert Reiter (pubblicista, Germania), Andrea Ricci (economista), Franco Russo (ROSS@), Ernesto Screpanti (economista), Antonio Stacchiotti (LUPO), Riccardo Tomassetti (me-MMT), Panayota Zampras (EPAM, Grecia),

Questo il programma dei forum e delle tavole rotonde (clicca per ingrandire)




Il Forum si svolgerà presso il Camping Fontemaggio.
- Ogni movimento, ogni associazione che vogliano aderire, intervenire o disporre di un proprio stand sono pregati a contattarci.
- Chiunque voglia partecipare è tenuto a prenotare in anticipo.
Per informazioni, prenotazioni e adesioni: forumeuropeo2014@virgilio.it 
- Tel: 339.2071977

Qui sotto i costi per il soggiorno

Prezzi per il soggiorno in albergo

Al giorno
Per 4 giorni (20-23)
Con pranzo del 24
Pensione completa camera
41 €
164 €
172 €
Mezza Pens. camera
33 €
132 €
140 €


Prezzi per il soggiorno in tenda

Al giorno
Per 4 giorni (20-23)
Con pranzo del 24
Pensione completa tenda
26 €
104 €
112 €
Mezza Pens. tenda
18 €
72 €
80 €

 NB: i bambini fino a 4 anni non pagano, dai 5 ai 10 anni, sconto del 30%.

Per i pendolari o chiunque non voglia usufruire del posto letto ma solo del vitto, 
il costo di un pasto è di 10 € (bevande escluse).


lunedì 23 giugno 2014

MARX, IL CAPITALISMO E LE CAUSE DELLE SUE CRISI di Moreno Pasquinelli

23 giugno. Ci pare di fare cosa utile ripubblicare un contributo che apparve su questo sito nel giugno di un anno fa. Il breve saggio che ricapitola l'analisi che K. Marx fece del modo capitalistico di produzione, le sue contraddizioni intrinseche, e quindi perché esso era condannato a conoscere crisi sempre più devastanti. Nella parte conclusiva ciò che Marx aveva solo in parte immaginato: la metamorfosi verso il capitalismo-casinò.

Cosa contraddistingue il capitalismo?

E’ vero che il mercato, il denaro, la speculazione e l’usura sono nati prima del capitalismo, che anzi quest’ultimo si è potuto affermare proprio grazie ad essi, ma questo non vuol dire che i diversi sistemi sociali (schiavista, asiatico, feudale, capitalistico) si equivalgano. Col sopravvento del capitalismo, certo, queste forme restano, ma mutano di segno e natura, e mutano la relazione fra loro. Il capitalismo le sussume in un nuovo modo di produzione, le subordina a nuovi rapporti di produzione, le aggancia a nuove forze produttive.

«Il capitale è costituito dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte determinata della società, dai prodotti e dalle condizioni di attività della forza-lavoro, resi autonomi nei confronti della forza-lavoro vivente, che vengono mediante questa contrapposizione personificati nel Capitale. Questo è costituito non soltanto dai prodotti dei lavoratori trasformati in potenze autonome, dai prodotti come dominatori e compratori dei loro produttori, ma anche dalle forze sociali (…) che si contrappongono ad essi come qualità del loro prodotto» [K. Marx, Il capitale, Volume III]
Cos’è ciò che in prima battuta distingue il capitalismo dai modi di produzione che l’hanno preceduto e dai sistemi sociali ad essi corrispondenti? Che in tutti i sistemi precedenti, principalmente agrari, era destinato agli scambi, al mercato, solo il surplus, l’eccedenza creata dal processo lavorativo [s'intende per surplus ciò la quota di beni prodotta da una comunità e che eccede la sussistenza; Ndr], essendo essi principalmente basati su un’economia di sussistenza e dunque volti all’autoproduzione e all’autoconsumo. In seconda battuta contraddistingue i sistemi sociali pre-capitalistici il fatto che il guadagno ottenuto dalla vendita di questa eccedenza era sì appropriata dalle classi dominanti, ma giusto per il loro consumo improduttivo [non assumeva dunque la forma di capitale; Ndr].
« Quali che siano le forme sociali della produzione, lavoratori e mezzi di produzione restano sempre suoi fattori ma gli uni e gli altri sono tali soltanto in potenza nel loro stato di reciproca separazione. Perché in generale si possa produrre essi si debbono unire. Il modo particolare nel quale viene realizzata questa unione distingue le varie epoche economiche della struttura della società». [K. Marx, Il capitale Volume II]
Repetita juvant: l’economia monetaria è comune ad ogni produzione di merci e il prodotto prende la forma di merce nei più diversi organismi sociali di produzione.
La grande svolta che si ha con l’avvento del modo capitalistico di produzione è che esso trasforma in merce non solo l’eccedenza (surplus), ma tutto ciò che risulta dal processo lavorativo (si produce quindi non più per l’autoconsumo quanto per il mercato e i beni diventano merci). 
Diventa infine merce la forza-lavoro stessa. In secondo luogo, la classe che detiene i mezzi di produzione e pone questi in movimento grazie all’acquisto della merce forza-lavoro, contrariamente alle vecchie classi dominanti, non consuma improduttivamente il surplus, ma lo getta nel mercato come capitale che deve nuovamente valorizzarsi.

La presenza di denaro circolante non attesta dunque che siamo in presenza di capitalismo, occorre che esso acquisisca la funzione di capitale, che diventi capitale monetario, e che questo diventi a sua volta capitale produttivo, destinato cioè a produrre plusvalore su una scala sempre più ampia. Per dirla con Marx:

«Ogni volta che viene esercitata la produzione di merci viene contemporaneamente esercitato lo sfruttamento della forza-lavoro; ma soltanto la produzione capitalistica di merci diviene un modo di sfruttamento che fa epoca, il quale nel suo successivo sviluppo storico attraverso l’organizzazione del processo lavorativo e il gigantesco progresso della tecnica, sovverte l’intera struttura economica della società e si lascia enormemente indietro tutte le epoche precedenti». (K. Marx, Ibidem)
Il capitale industriale (o "operante") come unica fonte di plusvalore

Vero è che fare denaro, non l’utilità dei prodotti, è pur sempre principio e scopo del capitale, ma dal momento che questo denaro passa in un processo produttivo creatore di un plusvalore cristallizzato in merci destinate ad essere vendute, esso subisce una metamorfosi, cambia pelle e funzione. Il capitale monetario non è dunque denaro qualsivoglia, non è solo denaro che si trasforma in più denaro (ad esempio l’usura o il prestito a interesse); è denaro destinato a diventare capitale produttivo di plusvalore, ad essere investito nel processo lavorativo per sfornare merci su una scala sempre più estesa, che così agendo stimola un incessante sviluppo delle forze produttive sociali, materiali e cosiddette “immateriali”.

Non è che se io presto cento euro e domani ottengo un interesse di dieci euro, allora io ho il capitalismo, e non ho capitalismo per la semplice ragione che io non ho consumato (investito) in maniera produttiva i miei cento euro, ma in maniera improduttiva. Alla fine ho ottenuto una plusvalenza, un profitto a interesse, ma non ho creato plusvalore. Anche per il capitalista il fine è certo quello di ottenere l’eccedenza più alta possibile rispetto alla somma iniziale investita, lo distingue la maniera con cui ottiene l'eccedenza, il fatto che tratta quella somma iniziale come capitale, che cioè consuma il denaro non solo come mero denaro ma come capitale monetario, lo spende in maniera produttiva (creativa di plusvalore), lo consuma in mezzi di produzione e forza-lavoro, per riconvertirlo nuovamente in capitale addizionale. Quelli che Marx chiamava “consumo produttivo” e “riproduzione allargata”.

C’è un passaggio decisivo sempre nel secondo volume de Il Capitale, che non solo ci aiuterà a comprendere a pieno il pensiero di Marx (la sua teoria del valore), ma ad entrare nel cuore della questione che stiamo discutendo, se cioè il capitalismo-casinò, ovvero la iper-finanziarizzazione che il capitalismo occidentale ha conosciuto dagli anni ’70 in qua, sia o non sia un passaggio qualitativo rispetto all’epoca precedente.
E’ una citazione lunga ma ne vale senz’altro la pena:

«Il capitale industriale è l’unico modo di essere del capitale in cui funzione del capitale non sia soltanto l’appropriazione di plusvalore, rispettivamente di plusprodotto, ma contemporaneamente la sua creazione. Esso è perciò la condizione del carattere capitalistico della produzione: la sua esistenza implica quella dell’antagonismo di classe fra capitalisti e operai salariati. Nella misura in cui esso si impadronisce della produzione sociale, vengono sovvertite la tecnica e l’organizzazione sociale del processo lavorativo, e con ciò il tipo economico-storico della società. Le altre specie di capitale comparse prima di esso entro condizioni sociali di produzione passate o declinanti non solo vengono ad esso subordinate e mutate nel meccanismo delle loro funzioni in maniera ad esso corrispondente, ma si muovono oramai soltanto sul [nuovo] fondamento.Capitale monetario e capitale-merce, in quanto con le loro funzioni compaiono accanto al capitale industriale come depositari di branche proprie, sono modi di esistenza oramai soltanto per la divisione del lavoro, resi autonomi e sviluppati in senso unilaterale, differenti forme di funzione che il capitale industriale ora assume, e che ora abbandona entro la sfera della circolazione». [K. Marx, Ibidem.] 
In altre parole:

(a) Il capitale industriale —per capitale industriale Marx non intende solo quello delle fabbriche, ma pure quello impiegato in agricoltura, in genere tutto il capitale produttivo, ovvero quello che crea plusvalore, che fa incontrare mezzi di produzione e forza-lavoro salariata— non è soltanto la forma fondamentale del modo capitalistico di produzione, ma “l’unico suo modo d’essere” che crei plusvalore, la condizione essenziale senza cui non avremmo capitalismo dispiegato o meglio una struttura sociale a capitalismo dominante;
(b) solo dal momento che il capitale industriale si impadronisce della produzione sociale (espropriando i produttori sia dai mezzi per produrre che dal prodotto del lavoro) abbiamo che la legge del valore (creazione di plusvalore grazie allo sfruttamento della forza-lavoro) diventa dominante;
(c) per questo il capitalismo industriale è dunque per eccellenza la forma che contiene l’antagonismo di classe fra capitalisti e operai salariati;
(d) date queste condizioni merce e denaro diventano capitale-merce e capitale monetario, due forme che il capitale industriale sussume a subordina a sé nell’ambito della circolazione, circuito che il capitale deve compiere per potersi auto-valorizzare.

«Ciò è qualcosa di assai differente dalla produzione e anche dalla produzione di merci, il cui scopo è l’esistenza dei produttori; una sostituzione di merci con merci, condizionata così da produzione di plusvalore, è qualcosa di completamente diverso da quel che è in sé uno scambio di prodotti, mediato solo dal denaro. Così invece viene intesa la cosa da parte degli economisti, a dimostrazione che non è possibile una sovrapproduzione». [K. Marx, Ibidem]
Le crisi capitalistiche

La qual cosa ci spinge dentro al discorso della crisi, più precisamente delle crisi generali di sovrapproduzione, che mentre l’economia borghese esclude in linea di principio era invece per Marx la destinazione obbligata del processo capitalistico di valorizzazione.

Vediamo. Il ciclo del capitale produttivo (industriale) si compie a patto che il plusvalore contenuto solo in potenza nella merce si materializzi in atto, e ciò avviene a due condizioni: che le merci create nel processo lavorativo e quindi incapsulanti plusvalore, siano vendute integralmente e al loro valore effettivo (ovvero ad un prezzo che riconsegni non solo il valore anticipato dal capitale ma pure il plusvalore), e che il denaro ricavato dalla vendita delle merci non giaccia ozioso ma sia reimpiegato nell’acquisto di mezzi di produzione e della forza lavoro consumati nel processo produttivo. Se questo flusso si interrompe, se le merci non vengono vendute o vengono vendute al di sotto del loro valore, il ciclo si spezza, abbiamo il corto circuito, si manifesta la crisi (di sovrapproduzione).

Non basta dunque, al capitale produttivo (industriale), produrre merci, per quanto elevata possa essere la quantità di plusvalore in esse potenzialmente contenuto. Queste devono essere vendute, e questo implica che la produzione è un momento (mediano) del ciclo di rotazione del capitale. Allora abbiamo che dev’esserci un’armonia funzionale, una stretta complementarietà (rotazione) tra le tre forme o modalità del capitale monetario, del capitale produttivo e del capitale-merce.


Si noti, en passant, che quest’armonia, per Marx, è l’eccezione non la norma, in quanto queste tre forme o modalità corrispondono, nella gran parte dei casi a tre entità diverse e in competizione fra loro. Ognuna di esse, fermo restando che solo il capitale industriale (produttivo) crea plusvalore, combatte per accaparrarsi pro domo sua la quota più alta di plusvalore. In fase di vacche grasse, di saggi crescenti di plusvalore, i tre ladroni non hanno difficoltà a spartirsi il bottino. Nei momenti di vacche magre, quando il capitale industriale subisce suo malgrado una caduta del saggio di profitto, quando cioè la riproduzione allargata si interrompe, la lotta tra i ladroni diventa senza esclusione di colpi. Ciò che contribuisce ad inceppare il ciclo virtuoso.

Diamo per l’ultima, ma decisiva volta, la parola a Marx:

«Finché il prodotto viene venduto, dal punto di vista del produttore, tutto segue il suo corso regolare. Il ciclo di valore del capitale che egli rappresenta, non viene interrotto. E se questo processo è allargato —ciò che implica allargato consumo produttivo dei mezzi di produzione— questa riproduzione del capitale può essere accompagnata da allargato consumo individuale (domanda) dei lavoratori, poiché esso è introdotto e mediato dal consumo produttivo. Così la produzione di plusvalore e con essa anche il consumo individuale del capitalista può crescere, l’intero processo di produzione trovarsi nelle condizioni più fiorenti, e tuttavia una gran parte delle merci essere entrata solo in apparenza nel consumo, in realtà invece giacere invenduta nelle mani dei rivenditori, e di fatto dunque trovarsi ancora sul mercato. Flusso di merci segue flusso di merci, e finalmente viene alla luce il fatto che il flusso precedente solo in apparenza è stato inghiottito dal consumo.I capitali-merce si contendono reciprocamente il loro posto sul mercato. Per vendere gli ultimi arrivati vendono al di sotto del loro prezzo. I flussi precedenti non sono stati ancora resi liquidi, mentre scadono i termini di pagamento. I loro possessori devono dichiararsi insolventi, ovvero vendere a qualunque prezzo per pagare».
E a dissipare ogni possibile equivoco sottoconsumistico che fraintenda la sovrapproduzione, ovvero che consideri quest’ultima come determinata non dalla spinta del capitale a fabbricare merci su scala sempre più ampia senza alcun riguardo per i “limiti del mercato” (offerta) ma, appunto, a causa dei “limiti del mercato” (domanda), Marx conclude:
«Questa vendita non ha assolutamente nulla a che fare con lo stato reale della domanda. Essa ha a che fare soltanto con la domanda di pagamento, con l’assoluta necessità di trasformare la merce in denaro. Allora scoppia la crisi. Essa diventa visibile non nell’immediata diminuzione della domanda di consumo, della domanda per il consumo individuale, ma nella diminuzione dello scambio di capitale con capitale, del processo di riproduzione del capitale» [K. Marx, Ibidem]
Con l’inceppamento del ciclo della riproduzione allargata, il capitale non riesce più a valorizzarsi (realizzare il plusvalore), anzi, si svalorizza, abbiamo così disinvestimento e crisi di sovrapproduzione, il crollo del valore del capitale e dei mezzi di produzione, l'espulsione della forza-lavoro e l'aumento dell’esercito industriale di riserva.
«E una tautologia dire che le crisi provengono dalla mancanza di un consumo in grado di pagare o di consumatori in grado di pagare. Il sistema capitalistico non conosce altre specie di consumo all’infuori del consumo pagante, eccettuate quelle sub forma pauperis o quelle del “mariuolo”. Il fatto che le merci siano invendibili non significa altro se non che non si sono trovati compratori in grado di pagare, cioè consumatori (sia che le merci in ultima istanza vengano comprate per consumo produttivo [si intendono qui i mezzi di produzione e i salari, Nda] oppure individuale». (K. Marx, Il Capitale, II)
E qui siamo all’oggi, anzi a ieri.

L’iper-finanziarizzazione 
come concausa 
della decadenza del capitalismo occidentale

Il capitalismo mondiale ha conosciuto dopo la seconda guerra mondiale, durante quello che è stato definito “periodo d’oro”, ben 16 recessioni, considerando quella in corso, iniziata nel 2008.

Nel grafico accanto, che tiene conto del periodo 1960-2008, saltano agli occhi le quattro più recenti e grandi recessioni a carattere globale. Come si può vedere, malgrado le riprese ad esse succedute, la curva della crescita economica mondiale è andata scendendo costantemente. In altre parole i cicli di ripresa non hanno riguadagnato ciò che nelle recessioni era andato perduto. È di straordinaria importanza segnalare che la tendenza alla de-crescita è stata costante malgrado tre basilari fattori di contrasto: (a) i forti tassi di crescita prima delle “Tigri asiatiche”, (b) poi della Cina, dell’India, del Brasile e (c) la tanto decantata “revolution technology” degli anni ‘90.

Siamo in presenza di una curva tendenziale, causata anzitutto dall’effetto di trascinamento del declino del capitale dell’Occidente, una curva che esprime un processo storico epocale, quello della decadenza del capitalismo (imperialista) occidentale, che è stato per quattro secoli il motore del capitalismo mondiale.

Volendo spiegare le cause che soggiacciono a questa decadenza e alle sue recessioni intermittenti bisogna distinguere quelle che stanno a monte e quelle che stanno a valle. L’impianto categoriale marxista è fondamentale per capire quelle che stanno a monte, un po’ meno quelle che stanno a valle, poiché attengono appunto al capitalismo-casinò venuto avanti negli ultimi quaranta anni.

Marx ci aiuta a comprendere la crisi come crisi di sovrapproduzione, ovvero le difficoltà del capitale a realizzare un adeguato saggio di profitto. Sovrapproduzione e caduta del saggio di profitto determinano le recessioni e sono la causa a monte della tendenza al declino (sulla legge della caduta tendenziale abbiamo espresso i nostri giudizi critici nel primo convegno sulla crisi del giugno 2009 ("La teoria marxista e il collasso dell'economia capitalistica").

Marx, a ragione, segnalava che esse sarebbero state sempre più frequenti e gravi, e se non sono state ancor più devastanti è stato solo grazie al ruolo di supplenza dello Stato (Keynesismo), alla rapina imperialistica ai danni dei paesi della periferia o sottosviluppati (imperialismo), al ruolo collaborativo del lavoro salariato (opportunismo), e all’aumento della produttività del lavoro (accrescimento del plusvalore relativo) e grazie ad accorgimenti quali il Just in time, il toyotismo, il World Class Manifactoring, la robotica, ecc.,

Tuttavia, per tornare al tema e all’oggi, questa difficoltà del capitale produttivo (industriale) occidentale a creare plusvalore crescente (accumulazione e riproduzione allargata), ha causato i due fenomeni di dimensioni colossali che contraddistinguono la cosiddetta “globalizzazione”: (a) la fuga del capitale dalla sfera della produzione materiale, dal consumo produttivo, per dirigersi verso la speculazione finanziaria e l’economia improduttiva e (b) l’esodo dei capitali nei luoghi a più alta creazione di plusvalore (leggi tasso di sfruttamento e bassi costi della forza-lavoro), ovvero dall’Occidente verso Oriente il tutto a conferma della teoria del valore di Marx, che solo il lavoro vivo crea plusvalore).

Marx, per quanto nel Terzo volume si fosse soffermato sulla funzione decisiva del credito, delle borse e delle banche, sul capitale produttivo d’interesse e sulla rendita, era ben lungi dall’immaginare il fenomeno della iper-finanziarizzazione, il sopravvento del capitale speculativo su quello industriale, che si sarebbe insomma capovolto il rango tra i due, che il capitale improduttivo avrebbe soggiogato quello produttivo, succhiandogli come una sanguisuga gran parte del suo plusvalore, che la borghesia sarebbe diventata in larga parte una classe rentier e parassitaria. Marx lo aveva  intuito e segnalato 
quando affermava che la borghesia avrebbe cessato di svolgere un funzione sviluppista per dedicarsi alla speculazione finanziaria, ma riteneva che prima che questo processo fosse giunto al culmine, il proletariato avrebbe prima preso in mano le redini della storia.
«Questa eccedenza delle esportazioni sulle importazioni spiega perché il cambio è favorevole all'Inghilterra. D'altra parte, poiché l'eccedenza di esportazioni è pagata in oro, una larga parte del capitale britannico resta inutilizzata e va ad accrescere le riserve nelle banche. Le banche, come anche i privati, danno la caccia a qualsiasi mezzo di investimento di questo capitale inutilizzato. Di qui la grande disponibilità di capitale finanziario e il basso tasso di interesse. Il tasso di sconto per il cambio di prima classe va da 1, 3/4 al due per cento. Ora, se si consulta qualsiasi storia del commercio, per esempio la «History of Prices» di Tooke, si nota che la coincidenza di questi sintomi - accumulazione eccezionale di riserve auree nelle casse della Banca d'Inghilterra, eccedenza delle esportazioni sulle importazioni, tasso di cambio favorevole, abbondanza di capitale disponibile e basso tasso d'interesse - inaugura regolarmente nel ciclo commerciale la fase in cui la prosperità si trasforma in parossismo, la fase in cui immancabilmente da una parte si ha una massa eccessiva di capitali destinata all'importazione e dall'altra parte folli speculazioni su ogni sorta di seducenti bolle di sapone. Ma questo stadio parossistico non è altro che il prodromo della catastrofe. Il parossismo rappresenta l'acme della prosperità; non produce la crisi ma ne provoca lo scoppio.So molto bene che gli stregoni ufficiali dell'economia inglese considereranno questa opinione come eccessivamente eterodossa. Ma, quando mai, sin dai tempi di «Prosperity Robinson» *, di quel famoso cancelliere dello scacchiere che nel 1825, alla vigilia dell'esplosione della crisi, inaugurò il parlamento profetizzando un'era di immensa e incrollabile prosperità, quando mai questi ottimisti borghesi hanno previsto o preconizzato una crisi? Non c'è stato periodo di prosperità in cui essi non abbiano approfittato dell'occasione per dimostrare che questa volta la medaglia non aveva rovescio, che questa volta il fato era vinto. E il giorno in cui la crisi scoppiava, si atteggiavano a innocenti e si sfogavano contro il mondo commerciale ed industriale con banalità moralistiche, accusandolo di mancanza di previdenza e di prudenza».[K. Marx. Pauperismo e libero scambio. La crisi commerciale incombente. (1852)]
Così non è stato. Lenin invece, nel suo "Imperialismo. Stadio supremo del capitalismo", si era avvicinato, e di molto, ad intuire come sarebbero andate le cose.

Per tornare a noi. Come già la crisi del 1929 aveva mostrato, esiste una stretta correlazione tra la sfera finanziario-speculativa e quella produttivo-industriale. Questa correlazione si spiega facilmente perché non c’è tra capitale industriale, capitale monetario, capitale produttivo d’interesse, rendita e credito, alcuna muraglia cinese. Abbiamo piuttosto un sistema di vasi comunicanti, visto che qui siamo in presenza di sfere e settori di quello che Marx definiva unico capitale complessivo sociale. Solo dei somari, e ce ne sono in circolazione, possono ancora pensare che i trilioni di dollari che ogni giorno si muovono nelle borse e più ancora Over the counter (fuori dai circuiti ufficiali borsistici e quindi senza alcuna regola), che le enormi masse di denaro che viaggiano in tempo reale sulle reti telematiche pilotate da algoritmi, le spaventose quantità di debito e di moneta circolante; solo dei somari, dicevamo, possono ritenere che siano tutta una roba “sovrastrutturale” e virtuale rispetto alla struttura e alla “economia reale”, che i crack e le "bolle" finanziarie siano addirittura salutari al capitalismo (destructive creation).

Tutte le ultime grandi recessioni sono state invece scatenate da crack relativi alle sfere della finanza, della circolazione monetaria e del debito. Quella degli inizi degli anni ’70, quella degli inizi degli anni ’80, a maggior ragione quella degli inizi degli anni ’90 (collasso dei junks bond e esplosione del debito pubblico giapponese). Quella del 1999-2002 (crollo finanziario delle tigri e poi la bolla delle DotCom). Infine l’ultima, esplosa con lo scoppio della "bolla" dei mutui sub-prime che ha portato al fallimento della più granda banca statunitense come Lehman Brothers.

Il tutto a conferma di quanto da noi affermato al recente Seminario di Vienna “Capitalismo o Socialismo”:

«Il processo di finanziarizzazione consiste essenzialmente nel fatto che il capitale, giunto al suo massimo punto di espansione nel periodo keynesiano, con l’ausilio determinante del potere politico imperiale nordamericano da Nixon in poi, per diverse cause (tra cui l’avanzata delle lotte operaie e dei popoli oppressi, la concorrenza forsennata tra monopoli, il declino dei tassi di plusvalore) è stato spinto ad orientarsi verso la speculazione (denaro che riconsegna più denaro) senza passare per un ciclo produttivo di plusvalore che implica investimenti produttivi, accumulazione di capitale e quindi sviluppo delle forze produttive materiali. In termini marxiani, inceppatasi la “riproduzione allargata”, il capitale, che per sua natura cerca anzitutto profitto, ha finito per scegliere le modalità speculativo-finanziarie per ottenerlo. Abbiamo che in Occidente il capitale monetario fa fatica a convertirsi in capitale produttivo, che l’eccedenza ottenuta nel processo di produzione, invece di essere riconvertita in plusvalore, preferisce ottenere plusvalenza monetaria nei mercati finanziari, del debito e delle valute. Siccome capitale produttivo è solo quel capitale che crea sì profitto ma solo in quanto crea plusvalore su scala sempre più ampia, abbiamo che il capitale è diventato appunto anzitutto speculativo e improduttivo. I settori produttivi che resistono sono quelli in cui il ciclo di valorizzazione è sempre più breve (a danno di investimenti che hanno periodi lunghi di remunerazione) e quelli rivolti al mercato dei beni di consumo (che infatti hanno generalmente tempi brevi).

Ciò ha indotto profonde trasformazioni sia per quanto attiene alla composizione delle due classi fondamentali e alle loro relazioni reciproche, che alla composizione della società tutta. Alla crescita abnorme del capitale improduttivo (e dei settori rentier della borghesia) ha corrisposto necessariamente l’aumento del lavoro improduttivo. Ha infine causato la definitiva sussunzione dello Stato e della sfera del politico, nella forma della loro privatizzazione da parte degli organismi e dei consorzi speculativi transnazionali (sotto le mentite e ingannevoli spoglie dell’osservanza delle “regole del mercato”, nel frattempo brutalmente manipolate dai pescecani della speculazione).

Un simile modello sistemico è per sua natura parassitario, instabile e destinato a passare, nel contesto della fine della crescita e dell’opulenza, da un crack all’altro, senza la possibilità (salvo un redde rationem bellico) di potere invertire il corso decadente, producendo nuove e inedite tensioni sociali all’interno stesso delle roccaforti imperialistiche, e dunque il ritorno al centro della scena della necessità di una rottura rivoluzionaria e della fuoriuscita dal capitalismo».

domenica 22 giugno 2014

MA PERCHÉ RENZI NON PIACE AGLI AMERICANI di Aldo Giannuli

22 giugno. Matteo Renzi non piace agli americani, che non perdono occasione per farlo notare: Obama, nell’incontro, fu freddissimo, limitandosi ad apprezzamenti sull’ “energia” del nostro Presidente del Consiglio (ben più calorosi erano stati i giudizi su Enrico Letta), poi, nel momento peggiore della crisi di Crimea le note del Dipartimento di Stato evitavano ostentatamente di citare l’Italia a differenza di Francia e Germania, poi è venuto lo schiaffo del D-Day e del G7. Insomma, l’ometto non suscita entusiasmi sul Potomac. Capita, ma perché?

In fondo, con il suo inconfondibile stile alla Fonzie, tanto po’ dinoccolato ed un po’ tamarro, non dovrebbe dispiacergli. Ha anche fatto il boy scout! Eppure…

Forse sarà perché gli americani badano anche ad altre cose oltre che il look. Certo, a Renzi non mancano gli amici americani come Michael Ledeen, ma il guaio è che sono della destra repubblicana, colore opposto a quello dell’attuale Amministrazione. Poi, sicuramente gli americani si capivano molto meglio con Enrico Letta e, probabilmente, non gli è piaciuto il modo con cui è stato buttato giù di sella: allo zio Sam non piace che i suoi amici vengano trattati in quel modo.

Ma i motivi più “Pesanti” probabilmente sono altri. Il primo si chiama Eni. Gli americani avrebbero tanto gradito la nomina ad Ad di Leonardo Maugeri, già rappresentante dell’Eni a New York, grande esperto di petrolio, soprattutto loro grande amico e sicuro avversario della politica pro-Mosca di Scaroni. Con lui alla guida dell’ente, l’operazione Southstream sarebbe cosa morta e sepolta. Finalmente! E invece no: Renzi nomina De Scalzi. Insomma, lo zio Sam sogna da anni di togliersi dai piedi il duo Berlusconi-Scaroni, fa quello che può per ammazzare il primo (quelle di Geithner sono lacrime di coccodrillo), aspetta con pazienza la fine del mandato dell’aborrito Scaroni e tu che fai? Nomini al suo posto il suo vice? Vero è che, in queste settimane, l’Eni ha ridotto la sua partecipazione in Southstream dal 50 al 15% in favore di tedeschi e francesi, vero è che il nuovo percorso del gasdotto passa tutto per i Balcani e non fa neppure più il passaggio per il Tarvisio ed è anche vero che Renzi non sa neppure dove stanno i Balcani ed il Tarvisio; ma sa dove sta l’Eni e ci nomina De Scalzi che, per ora, lascia al suo posto Marco Alverà (che è stato quello che ha ordito la trama con i russi) ed accetta che sia comunque la Snam a fare la posa dei tubi del gasdotto. Qui non ci siamo capiti: il problema non è cambiare il percorso di Southstream, ma proprio la cancellazione del progetto. E lo zio Sam si arrabbia.

C’è poi la questione Finmeccanica. C’è chi dice che per far confermare l’amico De Gennaro al suo posto, gli americani abbiano dovuto smuovere Re Giorgio dal Colle, cosa poi smentita dallo stesso Re. E va bene, ma Re Giorgio o non Re Giorgio, resta che l’ometto di Palazzo Chigi ha provato a togliere di mezzo De Gennaro ed anche questo non sta bene.

Poi, come amministratore delegato, ci piazza Moretti, con il quale aveva vecchi legami personali per questioni fiorentine. Il fatto è che Moretti conosceva le ferrovie traversina per traversina, e quindi si dedicherà al ramo trasporti di Finmeccanica (come già sta facendo) ma di armi capisce quanto di dialetto algonkino e questo è un momento in cui gli americani, nel settore armi, hanno bisogno di interlocutori sì obbedienti, ma che capiscano di che si sta parlando. Insomma, anche qui, buca!

Come si sa, Renzi ha importanti legami con Israele e, se non li ha lui, li ha il suo consigliere economico Yoram Gutgeld; questo sarebbe stato un ottimo viatico in altri tempi, ma, negli ultimi anni, Tel Aviv ha dato più dispiaceri che altro all’amico americano: loro sono ostilissimi al Quatar e gli americani hanno bisogno del suo gas per fare un gasdotto alternativo a quello russo (come aveva ben capito Enrico Letta), hanno urgenza di chiudere la partita palestinese e gli israeliani fanno le bizze, ora hanno bisogno di capirsi con l’Iran per mettere un freno all’offensiva di Al Quaeda in Irak senza andare ad impantanarsi di nuovo lì e gli israeliani non apprezzano…

Insomma, neanche da questo versante c’è modo di capirsi con il nuovo Capo del Governo italiano.

Intendiamoci: noi abbiamo sempre apprezzato chi sa dire no agli americani e far valere l’interesse nazionale, ma è una cosa che occorre saper fare e non per fare un favore a terzi. Tutte cose che richiedono cervello lucido e spalle larghe, molto larghe.

Il guaio è che Palazzo Chigi va largo a Renzi, troppo largo.
Comincio a pensare che questo non durerà molto su quella poltrona.

venerdì 20 giugno 2014

IL DIAVOLO O L'ACQUA SANTA? Perché non va bene la proposta di legge elettorale di M5S di Leonarado Mazzei

20 giugno. Leonardo Mazzei (nella foto) è, a sinistra, uno dei maggiori esperti in questione di leggi elettorali. Egli analizza la proposta avanzata dal Movimento 5 Stelle e spiega perché essa "..si allontana fortemente dai principi democratici della rappresentanza e dell'uguaglianza del voto tipici di una vera legge proporzionale".

L'hanno chiamato Democratellum ma non si sa bene il perché

Cari amici del M5S non ci siamo proprio. Il problema non è la disponibilità a discutere con Renzi di legge elettorale. Il problema è piuttosto il contenuto della proposta di legge presentata alla Camera dei Deputati.

Quando, all'inizio dell'anno (leggi QUI), Renzi lanciò la sua offensiva sulla nuova legge, tre furono le opzioni avanzate: il sistema delle comunali, il Mattarellum, il sistema spagnolo. Poi, pochi giorni dopo, previo accordo con Berlusconi, quell'offensiva produsse il mostruoso Italicum, un incredibile incrocio tra il doppio turno delle comunali ed il premio di maggioranza del vecchio Porcellum, con l'aggiunta di soglie di sbarramento di tipo turco.

Per adesso questo obbrobrio giace su un binario morto. Lo sbruffone fiorentino ha dalla sua la forza di chi ha vinto nettamente le elezioni europee, ma deve fare i conti con le resistenze, più o meno sommerse, di chi a gennaio aveva sottoscritto il "Patto del Nazareno". Vecchie, presunte, convenienze stanno forse venendo meno.

E' in questo quadro che va letta l'iniziativa del M5S. Un tentativo di inserirsi in uno scenario assai fluido per cercare di "limitare i danni" della legge renziana. 

Chi scrive non dubita affatto dello spirito democratico di questa mossa, dubita piuttosto della qualità democratica della proposta messa in campo. Una proposta che ricalca nell'essenziale il modello spagnolo, un sistema che distorce fortemente i principi della rappresentanza e dell'uguaglianza del voto, e che applicato in Italia potrebbe produrre effetti distorsivi anche maggiori. 

Si fa presto a dire "proporzionale"

Come mai il prestigiatore Renzi indicava a gennaio le tre opzioni richiamate sopra? Fu quella una mossa meramente tattica? Forse sì, ma non sarà un caso se i tre sistemi indicati - il doppio turno, il Mattarellum e lo spagnolo - hanno in comune una cosa: produrre notevoli effetti maggioritari senza un esplicito premio di maggioranza. Con il vantaggio di poter ottenere gli stessi effetti del Porcellum senza però incappare in una nuova bocciatura della Corte Costituzionale. 

Va detto che, per non farsi mancare niente, e per meglio evidenziare il suo assoluto disprezzo dei principi costituzionali, il futuro premier chiedeva già allora l'aggiunta di un premio di maggioranza del 15% da inserire tanto nel Mattarellum, quanto nel modello spagnolo qualora si fosse optato per uno di questi sistemi. Non per caso si è poi arrivati al cosiddetto Italicum, una delle peggiori leggi elettorali mai concepite al mondo. 

Ora il problema è quello di opporsi a questo mostro antidemocratico. Ed è comprensibile che una forza come il M5S cerchi di farlo mettendo pienamente in gioco la forza parlamentare di cui dispone.

Ma la legge elettorale è materia delicata, è un tassello decisivo della democrazia, uno dei perni su cui poggia l'intero ordinamento istituzionale. E, dunque, proporre una legge elettorale significa anche mettere in campo la propria visione della democrazia e dello stato. Ne consegue che la logica non può essere quella della "riduzione del danno", perché tale "riduzione" può essere semmai perseguita attraverso i normali strumenti della battaglia parlamentare, laddove ogni convergenza è benvenuta quando serve a conseguire risultati concreti.

Una delle caratteristiche del M5S, ed un suo incontestabile punto di forza, è il costante riferimento alla democrazia. Ma purtroppo, nella proposta di legge presentata, il principio "uno vale uno", un tempo si sarebbe detto "una testa, un voto", cioè il principio proporzionale, viene di fatto accantonato. 

Certo, così non è nella forma. Ma nella sostanza? Il fatto è che si fa presto a dire "proporzionale", ma si fa altrettanto presto a disproporzionalizzare la base proporzionale con l'aggiunta dei famosi "correttivi", paroletta assai malefica che fornisce la vera chiave di lettura della proposta del M5S.

Ricordiamoci che proporzionale era anche la base del Porcellum, stravolta però da un forte premio di maggioranza verso l'alto e da due soglie di sbarramento verso il basso. Proporzionale è anche la base dell'Italicum, stravolta ancor di più da premi e soglie da autentico regime.

Dire proporzionale dunque non basta. E questo vale anche per la legge dei Cinque Stelle. Certo - ci mancherebbe altro! -, la proposta del M5S è ben diversa dalla legge Calderoli e da quella del duo Renzi-Berlusconi, ma si allontana fortemente dai principi democratici della rappresentanza e dell'uguaglianza del voto tipici di una vera legge proporzionale.   

La proposta di legge del M5S

Entriamo dunque nel merito.
Per brevità tralascio qui la questione delle preferenze. Dico solo che mentre è positiva la loro reintroduzione, trovo sbagliate le idee della "preferenza disgiunta" (la possibilità di scegliere un candidato di una lista che non si è votata) e quella della "preferenza negativa" (la cancellazione di candidati della lista prescelta). Meccanismi fra l'altro inconciliabili con la posizione fin qui tenuta dal M5S sul "mandato imperativo". Posizione assai discutibile, e di certo non condivisa da chi scrive, ma mai messa in discussione dal Movimento.

Ma veniamo al cuore della proposta. 
Il M5S prevede un sistema basato su 42 circoscrizioni di diversa ampiezza. Ogni circoscrizione elegge i propri parlamentari con il metodo proporzionale, ma senza riporto dei resti nel collegio unico nazionale. In questo modo ogni circoscrizione ha una sua soglia di sbarramento implicita, normalmente molto alta, con l'eccezione delle aree metropolitane di Roma, Milano e Napoli, dove la soglia si abbassa sensibilmente per garantire il cosiddetto "diritto di tribuna". Entreremo nel dettaglio più avanti, ma per capire di cosa stiamo parlando basti dire che in 15 circoscrizioni (su 42) la soglia di sbarramento sarà ben superiore al 10%, mentre in altre 19 andrà a collocarsi tra il 5 ed il 10%.

Sta qui, nella cancellazione del collegio unico nazionale, la prima pesantissima correzione del sistema proporzionale. Ma, come se non bastasse, ce n'è anche una seconda che riguarda il divisore adottato. Mentre il tradizionale metodo D'Hondt prevede la divisione dei voti di lista per 1, 2, 3, eccetera, fino al numero dei seggi da assegnare nella circoscrizione, i parlamentari M5S propongono quello che essi stessi definiscono "divisore corretto". I voti di ogni lista vengono così divisi per 1, 1,8, 2,6, 3,4, 4,2, eccetera. Questo passaggio da uno scalino 1 ad uno scalino 0,8 determina un ulteriore vantaggio alle liste maggiori e naturalmente un'altra penalizzazione per le liste minori.

Il combinato disposto di queste due vistose correzioni produce una notevole disproporzionalità. In questo modo il premio di maggioranza da esplicito (come nell'Italicum) diventa implicito, e così pure le soglie di sbarramento. Come dire: il sistema parlamentare salva la sua faccia, ma la democrazia ne esce comunque pesantemente ammaccata.

Per evitare troppi tecnicismi riportiamo da l'Espresso uno studio realizzato dallo stesso M5S in base ai risultati delle elezioni europee. Secondo questo studio il Pd, con il 40,8% dei voti otterrebbe il 50% dei seggi, il M5S con il 21,2% dei voti avrebbe il 24,1% dei seggi, Forza Italia con il 16,8% dei voti incasserebbe il 17,6% dei seggi. Se c'è chi ci guadagna deve esserci ovviamente chi ci perde. Ed infatti: la Lista Tsipras con il 4% dei voti si fermerebbe all'1,1 dei seggi, Fratelli d'Italia con il 3,7% avrebbe solo lo 0,5% dei seggi, e la stessa Lega Nord - benché favorita dal suo carattere territoriale - porterebbe a casa solo il 4,6% dei seggi contro il 6,2% dei voti.

Naturalmente il nostro confronto è con un sistema elettorale puro. Si può dunque obiettare che il confronto va fatto semmai con quel che prevede l'Italicum. Obiezione accoglibile solo fino ad un certo punto, dato che attualmente, dopo la sentenza della Corte Costituzionale del dicembre scorso, è in vigore una legge proporzionale con soglie di sbarramento al 2 e al 4%, a seconda che si sia "apparentati" o meno.

Comunque, a beneficio dei lettori, facciamo tutti i confronti prendendo il caso della Lista Tsipras, di una lista cioè che possiamo definire medio-piccola (nella graduatoria delle elezioni di maggio è arrivata sesta, assai vicina al quinto posto di Ncd). In base ai voti delle europee essa otterrebbe i seguenti seggi: zero con l'Italicum, 7 con la legge del M5S, 26 con la legge in vigore [quella emersa dalla sentenza della Corte Costituzionale, Ndr]. 

Vedete che differenze, e pensare che si tratta di 3 leggi tutte con base proporzionale! Forse sarà ora più chiaro quanto sia poco innocente parlare di "correttivi", quasi si trattasse di quisquilie cui non importa prestare attenzione.

I correttivi pesano eccome, sia quando producono effetti espliciti, come nel caso dei premi di maggioranza e delle soglie di sbarramento, sia quando essi sono solo impliciti, non dichiarati ma ugualmente operanti.

Certo, come si evince dai dati riportati, la legge del M5S non è mostruosa come quella del "Patto del Nazareno". Non garantisce automaticamente a chi vince la maggioranza assoluta, e lascia una specie di "diritto di tribuna" alle forze minori altrimenti cancellate. Ma basta questo per dire che si tratta di una buona legge? Per quanto mi riguarda, assolutamente no.

Un sistema alla spagnola, con qualche piccola correzione 

Il sistema proposto dal M5S è una duplicazione di quello spagnolo, dal quale si differenzia in maniera sensibile solo sulle preferenze, che in Spagna non ci sono, dato che anche nel paese iberico vige il sistema delle liste bloccate. Per la precisione c'è anche un'altra piccola differenza: mentre in Spagna, oltre alle soglie implicite dovute alle dimensione dei collegi, ve n'è anche una esplicita (al 3%) di fatto operante soltanto nelle due maggiori circoscrizioni, quelle di Madrid e Barcellona; nella proposta dei Cinque Stelle c'è solo la soglia implicita. Il che significa che se a Madrid ho bisogno di raggiungere il 3% per ottenere seggi, a Roma mi basterà forse il 2,5%. 

Che si sia di fronte ad uno Spagnolo a 5 stelle ci viene confermato dai dati delle elezioni tenutesi nel paese iberico nel 2011. Il Partito Popolare con il 45,2% dei voti raggiunse la maggioranza assoluta del 53,1% dei seggi; il secondo partito, il PSOE, ottenne il 31,4% dei seggi con il 29,1% dei voti; la sinistra di Izquierda Unida con il 7,02% dei voti si fermò al 3,1% dei seggi. 

Come si vede, il premio di maggioranza c'è eccome, anche se non garantisce sempre il raggiungimento della maggioranza assoluta; le forze principali (in Spagna 2, in Italia 3) vengono comunque avvantaggiate; le forze minori, anche se consistenti, sono pesantemente sotto-rappresentate; quelle più piccole del tutto cancellate: una  fotografia sostanzialmente sovrapponibile al quadro disegnato per l'Italia dallo studio del M5S di cui abbiamo detto sopra.

Naturalmente ogni paese ha la sua storia e la sua strutturazione politica. In Spagna, ad esempio, i numerosi partiti regionalisti si trovano assai bene con il sistema delle piccole circoscrizioni. In Italia, dove l'unico partito regionalista è la Lega, questo sistema finirebbe per favorire ancor di più i partiti maggiori.

La violazione del principio dell'uguaglianza del voto

Prima di giungere alle conclusioni c'è un altro aspetto che merita di essere esaminato. Giustamente, nella sentenza già ricordata, la Corte Costituzionale ha insistito molto sul concetto di "uguaglianza del voto". Ora sappiamo benissimo che un tale principio non può mai essere del tutto applicato. Ad esempio, qualora io scegliessi una lista che si fermasse in tutta Italia a poche migliaia di voti, il mio voto andrebbe perso con qualsiasi sistema elettorale. Il mio voto varrebbe dunque zero, a differenza di quello espresso da chiunque avesse votato una lista che abbia ottenuto anche un solo seggio.

Tutto questo è evidente. Ma allora perché il richiamo della Consulta? Semplicemente perché i meccanismi distorsivi delle leggi elettorali della "Seconda Repubblica" vanno ben oltre il caso limite di cui sopra. Questo per l'effetto combinato di premi di maggioranza e di soglie di sbarramento, indipendentemente dal fatto che questi meccanismi siano espliciti od impliciti.

Nel caso della proposta del M5S c'è però un'aggravante. Un'ulteriore differenziazione tra elettori di serie A e di serie B. In questo caso perfino peggiore dell'Italicum. Vediamo di cosa si tratta.

Dividendo l'Italia in circoscrizioni di dimensioni diversissime, e (questo è il punto decisivo) avendo cancellato il collegio unico nazionale, avremo anche "diritti elettorali" (chiamiamoli così per capirci) diversissimi nelle varie zone del Paese.

Per comprendere la questione diamo la parola ai parlamentari del M5S, che nel testo di presentazione della legge hanno scritto:
«In 33 circoscrizioni su 42 (che assegnano 373 seggi, ossia il 60% del totale) lo sbarramento naturale è superiore al 5%; nelle altre 9 circoscrizioni (che assegnano 245 seggi, ossia il 40% dei seggi della Camera) lo sbarramento è inferiore al 5%».
Ammissione interessante e tuttavia piuttosto reticente. 
Come avrete capito, e com'è inevitabile in un simile sistema, ogni circoscrizione (e dunque ogni elettore) avrà la sua soglia di sbarramento. Le differenze, però, non sono così marginali come  la citazione di cui sopra vorrebbe far intendere.

Vediamo nel dettaglio il numero di circoscrizioni previste con i relativi seggi (tra parentesi la soglia di sbarramento, calcolabile solo in maniera approssimativa, per ottenere seggi):

- Una circoscrizione con un seggio (50%)
- Una circoscrizione con tre seggi (30%)
- 13 circoscrizioni da 5-9 seggi (dal 10 al 20%)
- 19 circoscrizioni da 11 a 19 seggi (dal 5 al 10%)
- 6 circoscrizioni da 21 a 24 seggi (dal 4 al 5%)
- 3 circoscrizioni da 32 a 42 seggi (dal 2,5 al 3%)

Come si vede le differenze sono abissali. Facciamo alcuni esempi. Mentre l'elettore di Milano dovrà confrontarsi con una soglia attorno al 2,5%, per quello di Alessandria essa sarà del 7%, salendo al 10% a Caserta, al 17% a Potenza ed al 30% a Campobasso. Queste città sono state scelte a caso, giusto per dare l'dea di una pesantissima differenziazione che tocca in realtà tutto il territorio nazionale.

Vi sembra che il principio dell'uguaglianza del voto, e dunque dell'elettore, possa convivere con una simile differenziazione? Se, volendo contribuire a far scattare almeno un seggio, l'elettore di Campobasso avrà al massimo due opzioni, quello di Potenza ne avrà 3, quello di Caserta magari 4, quello Alessandria 5, quello di Milano probabilmente 10. Questi gli effetti devastanti di quella che possiamo definire solo come una vera e propria "discriminazione geografica".

Il tentativo di giustificare l'ingiustificabile ha prodotto questa penosa e aberrante argomentazione: 
«La varietà di ampiezza delle circoscrizioni non costituisce un limite al sistema, bensì una sua qualità. Infatti, nelle circoscrizioni in cui si assegnano pochi seggi ottengono seggi esclusivamente le forze più grandi, mentre nelle circoscrizioni in cui si assegnano molti seggi ottengono seggi anche i partiti piccoli. E' una conseguenza coerente col tentativo di rendere "reali" e non "virtuali" la rappresentanza: le forze politiche piccole, infatti, hanno una struttura, un numero di militanti e di risorse concentrato nelle aree metropolitane, viceversa nelle comunità più piccole, tali forze politiche spesso non hanno un reale radicamento territoriale».
Che dire? Gli è venuta proprio male e, come spesso avviene, la pezza di questa rocambolesca giustificazione è perfino peggio del buco causato dalla palese lesione al principio dell'uguaglianza del voto.

O bianco o nero: rappresentanza e "governabilità" non possono stare insieme

Ora la domanda è questa: perché il M5S è arrivato a questa proposta?

Per capirlo conviene dare la parola ai presentatori della legge. Dice ad esempio il pentastellato Danilo Toninelli, a commento del 10% di premio di maggioranza che otterrebbe il Pd, che questo dimostra che quello proposto è un proporzionale «fortemente corretto», «un proporzionale governante».

Ecco, in quest'ultima formula c'è probabilmente la chiave di tutto. Come ci conferma la seguente affermazione, tratta dal testo di presentazione della Proposta di legge: 
 «La presente proposta si preoccupa di sciogliere il nodo fondamentale del rapporto tra l'esigenza di avere un Parlamento realmente rappresentativo e di favorire la governabilità del sistema disincentivando la frammentazione del sistema politico»
Eh no, cari amici del M5S, proprio non ci siamo. E' qui che cade l'asino: nel tentativo di conciliare l'inconciliabile. Forse gli estensori non lo sanno, ma - parola più, parola meno - la loro formulazione è simile a quel che ci è capitato di sentire da almeno trent'anni (30), cioè dalla metà degli anni '80 del secolo scorso. E che non certo per caso ha portato ai successivi disastri del Mattarelum nel 1993 e del Porcellum nel 2005.

Vogliamo continuare su quella strada, pensando magari di essere più bravi nell'escogitare magiche soluzioni che tengano insieme il Diavolo e l'Acqua Santa? Fate pure, ma sappiate che la parolina decisiva è "governabilità", un termine tutt'altro che neutro che non significa, come forse pensate, "governo democratico", bensì governo oligarchico, governo sempre più autonomo dalla società e dallo stesso parlamento.

Il fatto è che il principio della rappresentanza e quello della "governabilità" non possono stare insieme, sono in contraddizione tra loro. Il primo ci dice che è il principio democratico che deve prevalere, per cui ogni governo deve avere comunque una piena legittimazione democratica, che risiede in primo luogo nel detenere il consenso effettivo nella società. Il secondo afferma invece che il governo viene prima di tutto, che l'essenziale è che sia stabile e duraturo, preferibilmente quanto più autonomo possibile dalle dinamiche parlamentari, con un consenso non necessariamente della maggioranza assoluta, e da misurarsi solo ogni 5 anni con elezioni sempre più manipolate da sistemi elettorali disproporzionali.

Riflettete. Fino agli anni '80 la parola "governabilità" praticamente non esisteva. In Italia diventa d'uso corrente solo con il craxismo, per poi sfondare negli anni successivi. Anni che, su scala globale, vedono una trasformazione in senso autoritario delle democrazie parlamentari. Questo non per caso, ma per effetto di due precisi fenomeni. 

Il primo consiste nell'affermazione, al centro del sistema capitalistico, di potenti oligarchie finanziarie che abbisognano sempre più di un potere politico servile, dunque di governi, ma anche di partiti, sempre pronti a rispondere signorsì. 

Il secondo deriva dalla generale crisi del consenso che vivono i partiti così trasformati, destinati inevitabilmente a separarsi sempre più dalla società. A questa crisi di consenso si risponde trasformando, per legge, in maggioranze assolute le modeste maggioranze relative conquistate da partiti sempre più strutturati come gruppi di potere ben integrati nel blocco dominante, egemonizzato a sua volta dalle oligarchie finanziarie, nazionali ed  internazionali. 

Questa è, in buona sostanza, la famosa "governabilità": un principio del tutto inconciliabile con la democrazia. 

Ma se accettare il principio della "governabilità" è grave, pensare di poterlo facilmente miscelare con quello della rappresentanza è assurdo. Non è che con l'applicazione del principio di rappresentanza non si abbiano più governi, come la storia italiana (e non solo) dimostra in abbondanza. E' che con il principio della "governabilità", quello della rappresentanza viene sempre ferito a morte.

E siccome i due termini non possono stare insieme, inevitabile diventa il prevalere del principio di "governabilità". Ora, se da un lato si possono capire le buone intenzioni dei parlamentari M5S, mai bisogna dimenticarsi che di buone intenzioni è lastricata la via che porta all'inferno...

D'altra parte, se si accetta come cardine il principio della "governabilità", allora cari miei ha ragione Renzi. Egli infatti vi dirà: "venite avanti ragazzi, vedo che vi siete applicati, e questo è bene. Tuttavia ancora non basta, perché il vostro sistema ci va vicino, ma per assicurare davvero la governabilità bisogna che la sera delle elezioni si conosca con certezza il vincitore, la maggioranza ed il capo del nuovo governo. Dunque: no alle mezze misure, sì o al ballottaggio o al premio di maggioranza, meglio a tutti e due messi insieme come nell'Italicum, una proposta che probabilmente modificheremo qua e là, ma senza venir meno a questo principio".

Non nascondiamoci che su questo il berluschino fiorentino ha davvero un ampio consenso popolare. Purtroppo è così. Decenni di martellamento sulla bontà del maggioritario e sulla "governabilità" non si superano facilmente, specie se si rinuncia a condurre la battaglia politica e culturale per la democrazia, il principio di rappresentanza e dunque per il sistema proporzionale.

E questo, detto con lo spirito di chi il M5S l'ha votato, di chi si augura che il Movimento superi positivamente le difficoltà emerse con il risultato delle europee, è il vero problema della proposta di legge da poco presentata dai deputati a Cinque Stelle. 

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