lunedì 31 ottobre 2016

CINQUE STELLE, STATUTI, QUORUM E TRIBUNALI di Piemme

[ 31 ottobre ]

Il tasso di disonestà intellettuale dei pennivendoli di regime è notoriamente alto. Nel caso del referendum on line svoltosi tra gli iscritti al M5S, alcuni media hanno superato la soglia oltre la quale c'è la vera e propria indecenza.

Prendiamo un caso su tutti, il Corriere della Sera di ieri, 30 ottobre. Titolo dell'articolo a firma di Emanuele Buzzi: "L'ira della base M5S contro chi non ha votato". A parte che di tutta questa furente base non c'è traccia; il succo dell'articolo è riassumibile in questo catenaccio: «Non è stato raggiunto il quorum del 75% dei votanti per poter cambiare lo statuto».

Voi cosa capite? Senza dubbio che il nuovo statuto-non-statuto non può entrare in vigore, e che il referendum ha quindi fatto flop.

Invece è tutto falso! La nuova versione del non-statuto (quale che sia il giudizio che se ne voglia dare) entra pienamente in vigore, per la semplice ragione che il quorum del 75% dei votanti non esiste, e non esiste perché, com'è notorio, non c'è in M5S la regola del quorum per validare una decisione qualsivoglia.

Ma allora, vi chiederete, il Corriere della Sera e d'appresso tutti i giornali ed i media di regime si sono inventati tutto di sana pianta. Sostanzialmente sì.  

Il fatto è che la soglia del 75% per potere cambiare lo statuto è stato sì stabilito, ma sapete da chi? Dal Tribunale di Napoli dopo un ricorso attivato da alcuni espulsi dal M5S. 

Ora, si può discettare se sia giusto o meno che un movimento politico sia dia la regola per cui non è necessario un quorum, tanto più per cambiare il proprio statuto, ma non spetta a nessuno sindacare sulle regole interne che un dato movimento si da. Tantomeno spetta ad un Tribunale di stato. Va dunque difeso il principio che ogni movimento politico, che si basa sull'adesione volontaria, sceglie la forma organizzativa e le norme che ritiene più confacente ai suoi principi, che lo Stato non ha il diritto di intromettersi negli affari interni di una associazione politica,  a meno che non si tratti di violazioni del codice penale. 

Chi scrive ha forti dubbi sulla stessa cosiddetta E-Democracy, o democrazia elettronica, che M5S considera una vero e proprio principio intangibile, ma è un fatto che quest'ultimo referendum, che ha visto partecipare 87.213 dei 135.023 iscritti (il64%)  è stato il più partecipato rispetto alle consultazione precedenti.*
Legittimo quindi il positivo bilancio che ne ha fatto da Beppe Grillo.

* Furono 13mila coloro che votarono nel 2013 sull'espulsione di Marino Mastrangeli. Furono 17mila gli iscritti che votarono nel 2014 sulla nomina si Silvana Sciarra. 37mila quelli che, sempre nel 2014 votarono per il "direttorio". 40mila coloro che parteciparono al voto per il nuovo simbolo.

OMBRE RUSSE A SALERNO di P101


[ 31 ottobre ]

SALERNO

Domenica 6 novembre, alle ore 20, presso il circolo "Mumble-Rumble" di via Loria, 35 (quartiere Pastena) il P101- Movimento di Liberazione Popolare organizza una serata di cultura russa con letture poetiche in lingua e in italiano, musica tradizionale, dibattito ed altro.
I brani verranno letti oltre che dai componenti del movimento, da attori e dicitori professionisti come i proff. Mimma Virtuoso, Anna Rotunno e Rino Graziano (docenti del Liceo "De Sanctis" di Salerno). Durante la serata verrà tentato un collegamento via Skype col Donbass, per dare voce ai protagonisti su una guerra dimenticata in un periodo di grave e rinnovata tensione internazionale.
Nello De Bellis
Comunicato Stampa

"Abbiamo deciso di dar vita a questa iniziativa —hanno dichiarato gli esponenti locali di P101-Movimento Popolare di Liberazione, Nello De Bellis, Maurizio del Grippo, Franco Maggio e Nina Tòlstikova, per ricordare in un momento come questo in cui la Russia è percepita come una potenza minacciosa e ostile, a causa di una incessante campagna mediatica, il grande contributo della cultura russa alla civiltà mondiale: dalla spiritualità ortodossa in cui rivive la patristica greca, alla grande letteratura del XIX e XX secolo, momento decisivo della cultura mondiale, alla stessa rivoluzione del 1917, risposta legittima al bagno di sangue determinato dal massacro imperialistico della Grande Guerra.

Siamo dalla parte della Russia attuale, che non è più quella dell'ubriacone El'cin, né del liquidatore fallimentare Gorbaciòv, non per un riflesso ideologico condizionato, ma perché la Russia di oggi, pur non esprimendo un'alternativa radicale, come ai tempi dell'URSS, al sistema liberalcapitalistico, può opporsi allo strapotere del capitalismo euro-atlantico, radicato negli Stati Uniti e nell'Unione europea, che non a caso individuano nella Russia il capro espiatorio della grave crisi sistemica che travaglia l'Occidente e nello stesso tempo l'unico serio ostacolo alle mire imperialistiche del modello neoliberista.

In tal senso, nel momento in cui le imminenti elezioni alla Casa Bianca, lo rimettono fortemente in discussione, essa può garantire l'equilibrio di un mondo multipolare. 
Ciò è particolarmente importante per noi europei che ci troviamo nell'epicentro della crisi, perché dopo la fine del bipolarismo Est-Ovest è emersa sempre più la tendenza degli USA a dominare il mondo in forma unipolare e perché la loro super-potenza è sconfinata sempre più nella prepotenza." 
«Alla serata parteciperanno —hanno aggiunto gli organizzatori—degli amici della Repubblica indipendente di Lugànsk (mediante collegamento Skype) che forniranno la loro viva testimonianza sul conflitto nel Donbass, conseguenza del colpo di Stato di piazza Majdàn a Kiev, che depose con la forza il Presidente ucraino legittimamente eletto Janukovic, sostituendolo con l'attuale governo, espressione di forze storiche nazi-fasciste appoggiate ed imposte da USA e UE».

CHI CI HA TRADITO E CHI CI STA TRADENDO di Alberto Bagnai

[ 31 ottobre ]

Eravamo sicuri che l'intervento autocritico di Alfredo D'Attorre non sarebbe passato inosservato. Abbiamo detto la nostra QUI, ha poi detto la sua Sergio Cesaratto.
"Meglio tardi che mai", abbiamo sostenuto noi e Sergio.
Alberto, invece, è meno indulgente, e ribadisce che la "uscita a sinistra dall'euro" era un'alibi dietro cui si nascondevano coloro che nei fatti contribuivano all'annientamento del nostro Paese e, in particolare, del popolo lavoratore.
Ci ha chiesto qualche lettore: "Il J'Accuse di Bagnai riguarda anche voi, che parlate di uscita a sinistra". Invece no, non ci sentiamo per nulla un bersaglio. 
Per essere brutali: se nel novembre 2011 Berlusconi, invece di capitolare per fare posto a Monti, avesse optato per abbandonare l'eurozona, noi —pur senza siglare un Patto Ribbentrop-Molotov— l'avremmo sostenuto. La differenza con Alberto Bagnai era semmai che noi non credevamo che le destre berlusconiane avrebbero mai fatto l'auspicabile passo della rottura con le euro-oligarchie.


«Il tema del tradimento della sinistra (genitivo soggettivo) ormai è entrato nel dibattito, tant'è che cominciano a parlarne intellettuali riconoscibili come "de sinistra" dalla sinistra di sinistra. Ci siamo lasciati dietro le spalle quelli che vaneggiavano sulla natura "non politica" della categoria di tradimento, in quanto categoria "soggettiva e non oggettiva"... Poveracci che, volendo fare sfoggio di approfondita cultura politica, mostravano solo di ignorare le basi della cultura occidentale. Una ignoranza tattica, naturalmente, volta solo a evitare quella cosa veramente di sinistra che da tempo sto chiedendo e che ora sembra arrivare, con un pochino di ritardo: l'autocritica (si veda qui il punto 3).

Ma la storia, i cui processi sono, in effetti, oggettivi, non aspetta che le fragili soggettività individuali si rendano conto della necessità di un atto di coraggio, di un'assunzione di responsabilità (come quella fatta da D'Attorre pochi giorni or sono sul Fatto Quotidiano), e tira dritto.

Ed è appunto in questo tirare dritto, nell'oggettività dei processi storici, che si materializza l'oggettività del tradimento.

Mi spiego meglio: vi ricordate di quelli che "la svalutazione schianta la vedova e l'orfano e quindi restiamo dentro l'eurone che ci protegge"? Quanto ho fatto, qui, per far capire la natura stolta e dilettantesca di queste affermazioni! Avevamo cominciato il 25 aprile di quattro anni fa, e poi battuto e ribattuto su questo argomento, ad esempio nella serie delle leggende metropolitane (la trovate elencata in calce a questo post). Ma non è servito a nulla. Indisturbati da parte dei politici di riferimento, pochi colleghi privi di scrupoli hanno continuato a fornire dati in contrasto con l'evidenza fattuale, terrorizzando soprattutto il sindacato rispetto alle conseguenze di una possibile uscita.

Perché soggettivamente l'abbiano fatto non lo so, posso solo supporlo. Ma quale sia stato oggettivamente il risultato lo vedete: il sindacato è ancora compattamente eurista, e per difendere l'euro ha accettato il jobs act, fra le altre cose, anche perché gli era stato detto da persone prive di scrupoli e di etica professionale che l'alternativa sarebbe stata un'inflazione al 20%.

Ora, il punto è che chi, con la solfa dell'uscita a sinistra, ha terrorizzato i sindacalisti, paralizzandone l'azione, ha oggettivamente comprato tempo coi soldi dei lavoratori per regalarlo al capitale. La vera uscita a sinistra, infatti, non è quella che propone Tizio che si sveglia nel 2014, scopiazzandola da un libro pubblicato nel 2012. Direi proprio di no. 

La vera uscita a sinistra è quella che avviene prima. Prima di cosa? Prima e basta. Perché finché continuiamo a comprare tempo da una posizione di debolezza, il poi per noi sarà sempre peggiore.

Secondo voi, sarebbe stato più "di sinistra" uscire prima del Jobs act, o dopo il Jobs act? Chiaro che nel mondo di poi, cioè posteriore al jobs act, i datori di lavoro hanno in mano uno strumento di ricatto che prima non avevano. Quindi, non ci sono santi: in queste condizioni è perfettamente ovvio che una uscita avrà effetti meno favorevoli ai lavoratori di quelli che avrebbe avuto nelle condizioni precedenti.

Del resto, noi qui lo sappiamo bene: la rigidità del cambio serve proprio ad accumulare tali tensioni sulla competitività da rendere credibile il messaggio di chi ci chiede (ma in realtà ci impone) di fare un "ultimo" sacrificio smantellando qualche altro pezzetto di stato sociale.

Il punto è che questi effetti sono largamente irreversibili. La crisi del 1992 è servita a rasare completamente la scala mobile e a introdurre la concertazione. Vi risulta che dopo lo sganciamento si sia tornati indietro? No.

E sapete perché?

Perché c'è un altro aspetto perverso, il più subdolo, il più disgustoso, il più vile, il più ributtante, del raccontino di quelli che "bisogna uscire a sinistra altrimenti sarà una catastrofe". E siccome nessuno ve lo ha fatto notare, ve lo faccio notare io, che sono qui per questo. Siccome la catastrofe che i cialtroni paventano non ci sarà, le persone ricominceranno a vivere meglio in termini assoluti (gli entreranno più soldi in tasca), e quindi, fatalmente, si disinteresseranno di come stiano andando le cose in termini relativi, cioè di lottare per avere la loro giusta quota del prodotto nazionale, e le istituzioni che la tutelano.

Capite? Ma c'è poco da capire: è già successo (nel 1992).

Un conto è dire: "sarà una catastrofe, recessione dell'80%, inflazione del 30%...". Chi agisce così è fascista due volte: la prima perché vuole mantenere una situazione nella quale è avvantaggiato solo il grande capitale, e la seconda perché contribuisce involontariamente (ma oggettivamente) a creare la sensazione fasulla che con l'uscita, visto che la catastrofe non ci sarà, sarà risolto tutto.

Insomma: è fascista due volte chi vi chiede di lottare ora per mantenere il sistema che vi opprime, e oggettivamente contribuisce ad illudervi che non sarà necessario lottare dopo, quando questo sistema continuerà a cercare di opprimervi.

Un altro conto è dire, come facciamo qui: ci sono delle criticità, naturalmente, ma sono gestibili e il problema non è il durante, il problema è il prima (in cui non possiamo lottare, perché inseriti in un contesto istituzionale che non lo permette) e il dopo (in cui dovremo lottare, sfruttando ogni centimetro che l'arretramento del grande capitale ci lascerà, senza lasciarci fuorviare dal mancato verificarsi delle previsioni catastrofistiche dei cialtroni).

Ecco.

Vi ha tradito chi non ha fatto abbastanza per far maturare la coscienza, che qui è stata limpidissima e coerente fin dal primo momento, della necessità di un cambiamento. Vi sta tradendo chi prospetta catastrofi, perché oggettivamente coopera a farvi abbassare la guardia nella fase più delicata: quella della gestione del cambiamento.

Ricordateli nelle vostre preghiere, come io faccio nelle mie, e guardate con attenzione al futuro».

* Fonte: Goofynomics

domenica 30 ottobre 2016

SCUOLA: TORNIAMO A GENTILE di Diego Fusaro

[ 30 ottobre ]

Non mi stancherò di ribadirlo: la cosiddetta Buona scuola promossa da Matteo Renzi si pone come momento culminante e forse definitivo del processo di dissoluzione della scuola italiana; processo portato avanti, con folle tenacia, da anni di “riforme” della scuola da interscambiabili governi di centrodestra e di centrosinistra ugualmente proni al cospetto della tendenza post-1989 alla aziendalizzazione integrale del mondo della vita.

Proprio come la riforma della Costituzione distrugge la Carta costituzionale, proprio come la riforma del lavoro (pateticamente detta Jobs Act) distrugge i diritti del lavoro, così la riforma della scuola annienta definitivamente la scuola. Si chiama orwellianamente Buona scuola, si chiama dissoluzione della scuola o, se preferite, sua rottamazione. Da istituto etico di formazione di esseri umani completi, pensanti e consapevoli delle loro radici e prospettive (così era la scuola grandiosamente pensata da Giovanni Gentile), la scuola diventa così una semplice azienda capitalistica che eroga debiti e crediti ai consumatori di formazione.

Addirittura introduce i “bonus premio“: i professori vengono valutati dagli studenti, perché il cliente ha sempre ragione… la scuola non educa più esseri umani, ma prepara giovani senza coscienza critica e radicamento culturale al mercato flessibile e precario del lavoro. Nel quadro del capitalismo flessibile, devono esservi solo atomi sradicati e senza identità culturale: senza memoria storica e senza prospettiva progettuale, pure monadi senza finestre, incapaci di prendere coscienza della falsità totale in cui sono inserite.

Ecco, così, che l’alternanza scuola-lavoro – uno dei “pezzi forti” della Buona scuola – mostra ora il suo vero volto. E lo fa con l’accordo tra Miur e McDonald’s. Ora è chiaro a tutti, spero: l’alternanza scuola-lavoro è la reintroduzione a norma di legge dellosfruttamento del lavoro minorile. È la prova che la scuola riformata, anzi rottamata, dal Pd è un crimine ai danni delle nuove generazioni: a cui ora è negato il diritto di formarsi e di istruirsi
.

sabato 29 ottobre 2016

LA SINISTRA SDENTATA di Sergio Cesaratto

[ 29 ottobre ]

Micromega ha pubblicato con bella evidenza (non era ovvio nei giorni del referendum) la nostra recensione al libro di Barba e Pivetti. Libro e recensione sono molto duri. Ma la sinistra deve fare i conti duramente con se stessa. Ha fatto bene D'Attorre a cominciare con l'euro qualche giorno fa. Massimo sforzo di condivisione per dare risonanza al libro di Barba e Pivetti. (Sergio Cesaratto)






Il tradimento della sinistra


Il volume di Aldo Barba e Massimo Pivetti [La scomparsa della sinistra in Europa] è di gran lunga la più importante provocazione intellettuale alla sinistra degli ultimi anni. 

Pivetti, il più senior della coppia e ben noto economista eterodosso (con fondamentali contributi di analisi economica), non è certo nuovo a queste provocazioni, tanto da meritarsi nel lontano 1976 l’appellativo di “simbionese” (più o meno sinonimo di “terrorista”) da parte di Giancarlo Pajetta. La sinistra avrà tre possibilità di fronte a questo libro: ignorarlo del tutto; criticarlo sulla base degli aspetti più “coloriti” del volume - quelli in cui gli autori s’indignano per certe posizioni della sinistra antagonista; discuterlo a fondo. E’ facile pronosticare che gran parte della sinistra italiana, troppo intellettualmente pigra o troppo radical-chic per entrare seriamente nel merito, sceglierà le prime due strade (ah, sono solo aridi economisti se non peggio). Ma il volume è ora lì come un macigno a pesare su una sinistra che ha perso, in Italia ma non solo, ogni reale contatto con le classi che rappresentavano un tempo la propria ragione sociale. Una sinistra che non solo ha perduto questo contatto, ma che è ormai da tempo considerata dai ceti popolari come propria nemica. Raccontano gli autori che pare che François Hollande in privato si riferisca ai ceti popolari come agli “sdentati”. Siamo anche convinti che, tuttavia, il volume rappresenterà occasione di dibattito e un randello da usare in ogni occorrenza per quel che resta di una sinistra intellettualmente solida e che delle ragioni di ampi strati della popolazione fa la propria ragion d’essere.

La tesi

La tesi centrale del libro è così riassumibile: gli anni gloriosi del capitalismo (1949-1978) videro la centralità degli Stati nazionali nel perseguire politiche di pieno impiego e di sostegno della domanda aggregata attraverso elevati salari reali diretti e indiretti (stato sociale), godendo di significativi margini di autonomia nella conduzione delle proprie politiche economiche (nei soli Stati Uniti la spesa militare sostituì in parte il sostegno al welfare state). Questi margini si esplicavano nel controllo dei movimenti di capitale e di merci, ma anche dei flussi migratori. La sinistra non ebbe una parte preminente nel disegno di questo modello, anche se talvolta lo gestì. Ruolo centrale ebbe piuttosto la risposta che il capitalismo fu costretto ad avanzare alla sfida del socialismo reale. Col successivo indebolimento di questa sfida, il capitalismo liberista riprese vigore. La sinistra, a quel punto, non solo si mostrò nel complesso incapace di rispondere, ma si incaricò di gestire il progressivo smantellamento delle istituzioni e degli avanzamenti conseguiti negli anni gloriosi. 

L’ala più anarcoide e anti-statuale della sinistra, frutto dell’anti-autoritarismo studentesco del 1968, prevalse su un’ispirazione più statalista —operazione facilitata dal fatto che in fondo le istituzioni degli anni gloriosi non furono un frutto di un’elaborazione della sinistra, lo statalismo di sinistra essendo più collegato all’esperienza sovietica in discredito presso la sinistra anti-autoritaria. 

Centrale nella capitolazione della sinistra al neo-liberismo fu l’episodio della Presidenza Mitterrand. Eletto nel 1981, e dotato di una grande maggioranza parlamentare, Mitterrand cominciò a eseguire il programma delle sinistre che comunisti e socialisti avevano elaborato sin dal 1972. Questo era un programma molto avanzato di nazionalizzazioni e misure redistributive, oltre che di riduzione dell’orario di lavoro. Le nazionalizzazioni di banche e imprese dovevano essere funzionali a una politica industriale volta a rafforzare l’apparato produttivo allo scopo di ridurre la dipendenza del paese dalle importazioni dall’estero, e rendere perciò possibili politiche espansive interne senza incorrere nel vincolo della bilancia dei pagamenti. 

Barba e Pivetti ritengono che già nella preparazione del programma la sinistra compì l’errore esiziale di trascurare l’impellenza del vincolo estero alla crescita tenuto conto sia di lentezza degli effetti della politica industriale, che del mutato clima internazionale segnato dall’avvento delle politiche deflazionistiche di Reagan e Thatcher. Né la sinistra francese fece tesoro del dibattito nel Labour inglese su come affrontare il vincolo esterno e di come l’accettazione supina di quest’ultimo avesse portato il governo laburista a misure deflazionistiche impopolari e alla successiva storica sconfitta del 1979. Invece, dal 1983 prevalsero nel Partito Socialista francese gli esponenti più neoliberisti alla Rocard e soprattutto alla Delors che si incaricarono di disegnare la nuova Europa cosmopolita e anti-statalista come nuovo spazio entro cui la “sinistra” si doveva muovere. 

L’intellighenzia francese più à la page assecondò l’operazione, sin dalla riscoperta da parte di Michel Foucault delle virtù dell’ordoliberismo.
Questo complesso ragionamento si dipana su sette capitoli, gli ultimi due dei quali dedicati rispettivamente ai comunisti italiani e alla cosiddetta sinistra radicale o antagonista, come la chiamano gli autori.

Il ragionamento

I primi due capitoli del v
olume sono dedicati al progressivo smantellamento delle istituzioni statuali che avevano assicurato margini di indipendenza delle politiche economiche nazionali, in particolare il controllo dei movimenti di capitale, segnando così il passaggio dagli “anni gloriosi” a quelli “pietosi”: 
«La liberalizzazione valutaria fu dunque in Europa la madre di tutte le riforme liberiste, in quanto minò alla base la capacità dello Stato di esprimere un indirizzo di politica economica autonomo, sia al suo esterno (ossia nei confronti degli altri Stati), che al suo interno (ossia nei confronti degli interessi dominanti)». (p. 33; se non altrimenti specificato, i riferimenti di pagina sono al volume qui recensito). La verve polemica del lavoro entra nel vivo nel capitolo 3 in cui viene illustrata l’esperienza del governo Mitterrand. Le realizzazioni sociali e le nazionalizzazioni attuate nel 1981-82 furono invero significative, ma l’esperienza incontrò presto il vincolo dei conti con l’estero, portati in rosso dalle politiche di sostegno della domanda interna conseguenti all’aumento dei salari e della spesa sociale. A quel punto, sostengono gli autori, si sarebbe dovuto mostrare adeguato coraggio politico:
«Nel breve-medio periodo … l’allentamento dei vincoli di bilancia dei pagamenti alla realizzazione del programma della sinistra avrebbe richiesto il ricorso a restrizioni quantitative delle importazioni e restrizioni delle esportazioni di capitali, le une e le altre tanto più estese e severe quanto maggiormente deflazionistico-recessivo si fosse rivelato l’orientamento della politica economica perseguita dai principali partner della Francia. Il fatto è, però, che la coalizione di sinistra era ben lungi dall’essere unanime al suo interno circa il ruolo delle nazionalizzazioni, e, più in generale, circa la gestione del vincolo esterno». (p. 97)
Gli autori non discutono della possibilità di svalutare il tasso di cambio a cui il governo francese apparentemente rinunciò. Il mancato approfondimento delle ragioni di questa scelta fa trasparire lo scetticismo degli autori verso questo strumento, convinti dell’importanza di riuscire a preservare il valore esterno della moneta nell’ambito del perseguimento di politiche di pieno impiego. E’ quella del sostegno di cambi fissi una posizione tradizionalmente condivisa a sinistra, sia per gli effetti negativi delle
svalutazioni sui salari reali, che per la connessa possibilità di effetti recessivi, laddove la caduta del potere d’acquisto dei lavoratori abbia effetti negativi sulla domanda interna. Affidare tuttavia alla fissità del tasso di cambio un primario ruolo nello stabilizzare la distribuzione del reddito può avere controindicazioni, se la perdita di competitività dovuta a un tasso di cambio reale forte incide sulla bilancia commerciale e da ultimo, attraverso la necessità di contenere la domanda interna, su occupazione e salari reali diretti e indiretti. Inoltre, l’esperienza storica suggerisce che sistemi di cambio fissi sono volti a contenere il conflitto distributivo – è l’esperienza italiana con lo SME e con l’euro, mentre negli anni settanta la politica del cambio accomodava il conflitto. Ciò detto, le forme di protezionismo proposte dagli autori fanno parte del bagaglio di strumenti noto agli economisti e sono solo superficialmente avverse al commercio internazionale. Anzi, combattendo la deflazione come modalità di aggiustamento dei conti nei paesi deficitari, o come strumento del mercantilismo economico per i paesi in avanzo, il protezionismo favorisce il mantenimento del commercio internazionale almeno sui livelli raggiunti. Gli eredi del perbenismo economico del PCI (che certamente ancora allignano nella sinistra PD) non mancheranno di attaccare il volume su questo. Ma basti qui ricordare che a dar man forte agli autori vi sono le esplicite prese di posizione di Federico Caffè che introducendo un famoso studio sulle politiche di pieno impiego steso ad Oxford nel 1944 con al centro la figura di Michael Kalecki, scriveva:
«Non può escludersi che, tra le concause della diffusione dell’odio che rattrista i tempi in cui viviamo, non rientri l’aver, con ingiustificato ottimismo alimentato anche illusorie forme di collaborazione internazionale, trascurato a lungo il messaggio essenziale di questa raccolta di saggi: "l’alternativa ai controlli resi necessari dal pieno impiego non è qualche situazione ideale di pieno impiego senza controlli, ma la disoccupazione e il succedersi di fluttuazioni economiche”» (Caffè 1979).
Comunque sia, nel 1982-83 il governo francese operò una svolta rigorista senza apparenti opposizioni, neppure dal Pcf, e nel 1986 la destra tornò al potere. Il j’accuse degli autori è netto:
«Si può in definitiva affermare che la svolta rigorista del 1982-1983 non fu imposta a Mitterrand e al governo Mauroy né dall’esterno della coalizione di sinistra né dall’esterno della Francia. Si trattò di una scelta in senso liberista e filo-capitalista autonomamente compiuta in piena coscienza dalla maggioranza della sinistra francese —una scelta gradualmente maturata nel corso del precedente quindicennio, lasciata a covare sotto la cenere in vista delle contese elettorali del 1981 e che a partire dal 1983 non fu mai più abbandonata». (p. 102)
La cenere che covava era, secondo gli autori, principalmente rappresentata da Jacques Delors, ispiratore e artefice della svolta “liberista e filo-capitalista” (ma altro eroe della sinistra che lo ritiene keynesiano). Il disegno di Delors era che:
«La libertà di circolazione dei capitali in Europa sarebbe stata il primo indispensabile passo di un percorso che avrebbe portato all’unione monetaria; più in generale, la libera circolazione internazionale dei capitali, proprio perché perseguita con determinazione da un Paese ad essa tradizionalmente ostile come la Francia, avrebbe contribuito a diffondere dappertutto la convinzione che il contesto nazionale non era più quello rilevante per la politica economica, che il tempo delle soluzioni nazionali ai problemi economici era ormai tramontato». (p. 104).
Insomma:
«L’unificazione politica del continente … avrebbe alla fine compensato le singole nazioni della perdita della loro sovranità monetaria, fiscale, eccetera». (pp. 105-6)
Le due sinistre

In verità, sostengono gli autori, a cavallo fra gli anni sessanta e settanta si delineano in Francia due sinistre: quella operaia, “statalista e sovranista” (Pcf e la sinistra Ps rappresentata dal Ceres di Chevènenment) e quella studentesca “dell’insofferenza verso ogni forma di autorità e di potere, dell’individualismo anarcoide, dell’autogestionismo antistatalista” (e dell’anti-sovietismo) (pp. 110-11). La prima sinistra riuscì effettivamente a influenzare la stesura del programma comune mentre la seconda si tenne “in disparte, coltivando però con cura i suoi rapporti con l’intellighenzia del Paese” (p. 111).

La seconda sinistra fu così pronta a balzar fuori alle prime difficoltà economiche del programma comune, proponendo un progetto opposto basato sullo svuotamento dello Stato-nazionale sostituito col progetto europeo, un esito “sostanzialmente autoritario” (p. 108). Del resto, sferzano gli autori citando un famoso passaggio di Gramsci, i figli della borghesia si fanno talvolta capi delle classi lavoratrici, pronti però a tornare all’ovile alle prime difficoltà —ma non senza aver lasciato macerie intellettuali nel movimento operaio sembrano far capire gli autori. L’abbandono della tradizione interventista francese e la riscoperta del mercato diventa caratteristica dell’intellighenzia di sinistra francese, da Claude Lévi-Strauss, a Foucault, Deridda e Lacan. Foucault il più influente, il quale conosce poco Marx e certamente ignora Keynes o Sraffa, viene però affascinato dall’ordo-liberismo.
Derrida, Foucault e Lacan

L’accusa che gli autori muovono alla sinistra, con cui si apre il capitolo 4 è di non aver subito il cambiamento politico, ma di averlo “deciso e gestito” (p. 125). Sul punto più dolente, quello dell’immigrazione, essi sono molto espliciti: “l’ostilità del lavoro dipendente indigeno all’immigrazione, la dimensione più immediatamente e “fisicamente” percepita della mondializzazione, ha di fatto determinato il suo distacco definitivo dalla cosiddetta sinistra del continente.” (p. 137). 

Barba e Pivetti ricordano l’attacco mediatico mosso al Pcf nel 1981, quando quel partito cercò di evitare questo distacco —col risultato che la classe operaia francese fece poi armi e bagagli spostandosi stabilmente nel Front National. Naturalmente gli autori non mancano di denunciare le devastazioni del Washington Consensus come una delle cause dell’esplosione dei flussi migratori —a cui si sono aggiunte le aggressioni militari ai regimi medio-orientali. E al fondo, chiosiamo, v’è sempre l’intento di distruggere gli Stati nazionali e la possibilità di vie nazionali allo sviluppo, cosa che può richiedere nei contesti di società instabili e culturalmente disomogenee la presenza di regimi autoritari. Con lucidità gli autori riassumono quello che finì per unire, nelle sue diverse sfaccettature, la gauche plurielle, come si pavoneggiava a definirla da noi il leader frivolo:
«Nel corso dell’ultimo trentennio, non solo per la sinistra modernista ma anche per la sinistra cosiddetta antagonista la difesa della sovranità nazionale in campo economico, più in generale della sovranità popolare, ha cessato di essere bussola di azione politica. Essa rigetta con orgoglio ogni forma di nazionalismo. La sua ideologia è ormai essenzialmente costituita da una miscela di antirazzismo e multiculturalismo, una sorta di cosmopolitismo intriso di marxismo volgare, visto cioè come un aspetto ineluttabile di quella forza continuamente sovvertitrice del capitalismo che sarebbe reazionario oltre che insensato cercare di contrastare ed alla quale conviene invece adattarsi come ad una "opportunità”». (p. 142).
Il pericolo che gli autori paventano è che la sostanziale paralisi della sinistra di fronte alla questione immigrazione, questione drammatica e lacerante —lasci il campo aperto a soluzioni di stampo fascista, che molti ritengono inevitabili (tralasciando gli antagonisti che ritengono di poter cavalcare la tigre, l’”opportunità” di cui parla il volume). In ogni caso, il mio invito al lettore è di dare il giusto peso al tema dell’immigrazione, per non farlo diventare un ulteriore elemento di lacerazione e impotenza a sinistra. Il tema chiave è lo Stato, la riappropriazione della libertà economica dei popoli. Con politiche nazionali diverse anche il problema dell’immigrazione potrebbe essere affrontato con maggiori strumenti e risorse, da noi e nei paesi di provenienza.

I sinistrati

Mentre il capito 5 descrive i mutamenti (peggiorativi) occorsi nel mercato del lavoro e nello stato sociale e i processi di privatizzazione dell’industria pubblica, la verve polemica del volume si riaccende negli ultimi due capitoli dedicati, rispettivamente al PCI e alla sinistra radicale. Quello che ne esce è il tremendo vuoto culturale della sinistra italiana accompagnato dalla condivisione da parte del Pci delle scelte liberiste. A rileggere i passi degli esponenti comunisti nel corso degli anni settanta, pur concedendo loro l’attenuante di circostanze come la strategia della tensione e il golpe cileno, o lo shock petrolifero, si è colti da un fremito di indignazione. 

Il leitmotive dei vari Peggio, Lama, Napolitano, Berlinguer, Trentin e compagnia cantando è uno e uno solo: il riequilibrio dei conti con l’estero deve ricadere sulle spalle dei lavoratori: “Ora bisogna battersi per i sacrifici!” dichiara nel 1976 un presunto eroe della sinistra, Bruno Trentin, che a un famoso convegno del Cespe (una sorta di ufficio studi economico del Pci), in maniera “surreale” chiosano gli autori, precisa che la contropartita consisterà “nella possibilità offerta alla classe operaia di partecipare alla gestione dei suoi sacrifici”. Cornuti e mazziati, insomma. Il sentimento che suscitano quei passi è che costoro fossero oggettivi avversari del popolo, altro che loro rappresentanti. Da notare come a quel convegno Lama attaccò per nome Massimo Pivetti, reo di aver proposto la strada alternativa dei controlli —strada difesa invece, l’anno successivo, da Federico Caffè (1977). La Troika era peraltro rappresentata in quegli anni dall’economista, naturalizzato americano, Franco Modigliani che nella sua visita annuale in Italia non mancava di impartire lezioni di liberismo a destra e a manca, presenziando come star al convegno del Cespe. Gli altri due dissenzienti a quel convegno, accanto a Pivetti, furono Domenico Mario Nuti e Bob Rowthorn. Nuti ha da poco firmato con noi più “giovani” la risposta a Lunghini su il manifesto.

Il Pci e i sindacati mai più si ripresero da tale distacco dalle masse popolari, concludono gli autori, e il Pci era già finito ben dieci anni prima della Bolognina. (Forse uno scatto di reni si ebbe sull’adesione allo SME nel 1979, ma si trattò di un gesto presto dimenticato).

Ma cosa ci fu dietro tanta pochezza del Pci? L’unico punto di riferimento solido del togliattismo, sostengono gli autori, era l’esperienza sovietica che aveva assicurato in un paese retrogrado, insieme alla piena occupazione, “un alloggio caldo … una buona istruzione… una distribuzione molto ugualitaria …una marcata parità effettiva tra uomini e donne” (p. 201). Il riferimento al socialismo reale fu frettolosamente cancellato da Berlinguer, il quale fu invece in continuità con il secondo aspetto del togliattismo, la subalternità alla cultura economica laico-liberale. L’intellighenzia organica del Pci brillò, infatti, per l’assenza della principale scienza sociale, rispetto a discipline più umanistiche, un partito crociano verrebbe da dire. L’unica eccezione fu il Piano del lavoro presentato dalla CGIL nel 1951, di chiara impronta keynesiana. Le sole parole di apprezzamento nel libro per un esponente comunista sono infatti per Di Vittorio. Fu quella una proposta riformista in linea con quanto accadeva al di sopra delle Alpi, che rimase però isolata, mentre la cultura del Pci restò profondamente succube di idee mutuate da Einaudi o dalla borghesia laico-liberale, come l’ossessione della lotta ai monopoli (un mantra simile a quello odierno della lotta alla corruzione). Del resto Togliatti si disinteressava di economia e già nell’elaborazione gramsciana la cultura economica appare come un dente dolente dei comunisti italiani – nonostante qualche sforzo di Sraffa di indirizzare Gramsci su sentieri più solidi. Croce ed Einaudi (o Ernesto Rossi e più tardi Spinelli) furono le stelle polari del Pci, più che Marx o Keynes o Sraffa. Al riguardo mi sembra doveroso notare come il volume è forse ingiusto nei confronti delle socialdemocrazie nordiche che non subirono passivamente l’esperienza degli anni gloriosi in quanto risposta capitalistica alla sfida sovietica, ma la disegnarono anche sulla base di una propria elaborazione teorica. Con Myrdal, questa muoveva dalla negazione di una distribuzione “di equilibrio” (o naturale) del reddito e dunque di “interessi nazionali” che sovrastassero quelli di classe – “interessi” che il Pci considerava invece sovversivo toccare - promuovendo il controllo dello Stato nazionale da parte dei partiti operai, con uno spostamento stabile delle quote distributive e la creazione di uno spazio “demercificato” coincidente con lo stato sociale. (Fu proprio Myrdal a proporre la medaglia speciale della Corte di Svezia per l’economia a Sraffa, onore che questi condivide con Keynes e assimilabile a un genuino premio Nobel).


Della sinistra antagonista Barba e Pivetti denunciano “lo spostamento della sua attenzione dalla sfera dei diritti sociali a quella dei diritti civili” (p. 225). Temi come la decrescita, il femminismo della differenza biologica, il multiculturalismo, i beni comuni (visti in funzione anti-statalista), l’altra economia e altre amenità (fino alla difesa fascista dell’utero in affitto da parte di una macchietta, ex leader di una formazione di sinistra —gli aggettivi sono miei) diventano i temi centrali di questa “sinistra”, a cui nulla perdonano gli autori. In particolare non le perdonano l’istigazione “all’odio verso se stessi”, inteso come odio per la cultura occidentale e il benessere conseguito da milioni di lavoratori. Al fondo v’è l’idea che questi avanzamenti culturali e materiali siano il frutto di uno sfruttamento verso il terzo mondo di cui si deve ora pagare pegno. E’ quest’ultima una tesi molto diffusa “a sinistra” sui cui gli autori avrebbero potuto spendere qualche parola di più, ci auguriamo lo facciano in successivi interventi. Personalmente credo che non ci si possa colpevolizzare per processi storici di sfruttamento, accaduti nel nord come nel sud del mondo, lasciando demolire ciò che può essere di guida per i mezzogiorno del mondo, ovvero la difesa di politiche pubbliche progressiste e i valori di tolleranza democratica - come è stato almeno in certa misura negli anni cinquanta e sessanta sino a che la furia economica e militare liberista (con al seguito il flagello connivente delle ONG) non si abbattesse su quei paesi distruggendo le vie nazionali e socialiste allo sviluppo.

Il futuro

In questo quadro sconfortante gli autori chiudono con una nota di ottimismo, indicando l’occasione storica offerta alla sinistra dalla diffusa protesta popolare contro banche e finanza, per la difesa del lavoro e dello stato sociale, contro una classe politica asservita agli interessi dei pochi, della riconquista degli spazi nazionali di democrazia e di intervento pubblico, quello che noi abbiamo altrove definito “Polany moment”, mentre solo la parte “più disorientata della gioventù” difende i temi del cosmopolitismo (p. 246). Un Polany moment può avere, com’è noto, anche un connotato di destra, come le vicende della Brexit per esempio suggeriscono.

Come abbiamo detto all’inizio, la sinistra potrà ignorare questo volume, o potrà entrare in polemica solo sui temi più caldi dell’immigrazione o del multiculturalismo, dimostrando in questo precisamente i limiti culturali denunciati nel libro. Potrà invece discutere la tesi centrale del volume: il necessario recupero delle politiche nazionali d’intervento pubblico come asse della sinistra. Ci aspettiamo che qualche grillo saccente contrapponga questa prospettiva alla presunta tradizione internazionalista della sinistra. Non avrebbe capito nulla, naturalmente. Lo spazio delle politiche di sinistra è, nelle circostanze storiche date, lo Stato nazionale, e solo una sinistra che operi in questa direzione potrà essere stimolo per l’emulazione a livello internazionale sì da costruire un 
internazionalismo dei fatti e non delle parole. Chi ha letto il mio libro (numerosi a quanto pare!) riconoscerà l’influenza che l’insegnamento teorico e politico di Pivetti, accanto a quello di Sraffa e Garegnani, ha avuto sulla mia formazione. Mi piace pensare che i due volumi giochino di squadra nel contribuire a una seria rifondazione della sinistra.


* Fonte: Politica economia

Riferimenti

Aldo Barba, Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016.
Federico Caffè, Introduzione a AAVV., L'economia della piena occupazione, a cura di F. Caffè, Torino, Rosenberg e Sellier, 1979
Federico Caffè, E’ consentito discutere di protezionismo economico?, in ID, La solitudine del riformista (a cura di N.Acocella e M.Franzini), Torino, Boringhieri, 1990 (originariamente pubblicato in: L’astrolabio, vol. 15 (12), 1977).
Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia - Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Reggio Emilia, Imprimatur, 2016.

venerdì 28 ottobre 2016

IMMIGRAZIONE: ESSI DANNO I NUMERI

[ 28 ottobre ]

Dunque l'Istat ci informa che in Italia gli immigrati (censiti al 2015) erano l'8,3% della popolazione; per l'esattezza 5 milioni e 26 mila.

Il Dossier Statistico "Immigrazione 2016", realizzato dal Centro studi Idos e della rivista Confronti, in collaborazione con l'Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni) ci dice poi che gli italiani all'estero nel 2015 erano 5 milioni e 200mila, con una crescita di 175mila unità. A conferma che il numero degli emigranti italiani ha superato nel 2015 quello degli immigrati sbarcati nel nostro Paese.

Sempre stando ai numeri questi smentiscono la tesi tranquillizzante in voga che gli sbarchi del 2016 siano diminuiti rispetto all'anno precedente:
«L’Italia si avvia a chiudere il 2016 superando il record di 170mila migranti sbarcati raggiunto due anni fa. Secondo i dati del Viminale, a ieri gli stranieri arrivati nel nostro Paese sono 153.450, il 9,83% in più rispetto allo stesso periodo del 2015. Un macigno per un sistema di accoglienza senza ossigeno, perché i ricollocamenti sono al palo: appena 1.318 i migrati spostati fin qui dall’Italia negli altri Stati Ue, a fronte dei 39mila in due anni previsti dal piano europeo varato nel 2015. Un flop, che il ministero dell’Interno continua a deprecare».
[il Sole 24 ORE del 25 ottobre]
Nel frattempo uno studio del Partito che si scrive Radicale e si legge NEOLIBERISTA, ci informa che di qui a dieci anni l'economia italiana avrebbe bisogno di 1milione e 570mila immigrati in più: una media di 157mila l'anno.

Bazzecole rispetto alle cifre del famigerato Rapporto della Divisione demografica delle Nazioni Unite reso pubblico nel gennaio del 2000, che immaginava che l'Italia avrebbe dovuto accogliere ben 9 milioni di migranti in 30 anni.

Tutta musica per le orecchie di Papa Bergoglio, che non perde occasione per dire che accogliere i migranti non è solo un obbligo morale ma atto che "profuma l'anima e cambia il cuore".

Doveroso segnalare che il direttore di questa orchestra sinfonica che inneggia alle taumaturgiche proprietà dell'immigrazione, a nome e per conto delle élite globaliste, è il Fondo Monetario Internazionale. In un recente rapporto l'Istituto di Lagarde sostiene che l'immigrazione è un modo sicuro per stimolare la crescita addirittura dell'intera Unione europea:
«Nel medio-lungo termine, invece, come sottolineato oggi dal Direttore generale del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde l’Europa può crescere di più con un’integrazione efficace dei migranti nel mercato del lavoro: il Pil Ue potrebbe essere più alto dello 0,25 percento e nelle tre principali nazioni di destinazione (Austria, Germania e Svezia) potrebbe crescere tra lo 0,5 e l’1,1 percento. Il potenziale associato ai rifugiati può essere sfruttato a beneficio di tutti, ma fin quando non ci saranno le giuste politiche d’integrazione il loro contributo al Pil sarà più basso di quello che potenzialmente potrebbe apportare».
C'è un "piccolo problema":  i disoccupati nella Ue sono ufficialmente circa 26 milioni, di cui 19 milioni nella sola zona euro. [fonte Eurostat]. La quota della disoccupazione giovanile è quasi doppia. Sempre Eurostat ci dice poi che una buona percentuale di lavoratori hanno si un'occupazione, ma precaria e sottopagata.

Ovviamente c'è chi questo "piccolo problema" non lo vede. Anzi, chi si chiede: "ma se abbiamo in Europa 26 milioni di disoccupati e altri milioni di cittadini sotto la soglia della povertà perché mai l'economia avrebbe bisogno di far venire forza-lavoro da fuori?", è satanizzato come "razzista".


IL MONDO NON FUNZIONA COME DICE THOMAS PIKETTY (teoria neoclassica e realtà) di Heiner Flassbeck

[ 28 ottobre ]

Flassbeck è un economista tedesco di grande valore. Egli mette a fuoco il tallone d'Achille del discorso di Piketty, che discende dal suo impianto teorico neoclassico. Sostiene infine "che non abbiamo alcuna teoria della crescita degna di questo nome ad eccezione di quella rudimentale schumpeteriana."
Non sarà che per definirla, come noi pensiamo, sia necessario rivalutare l'analisi marxiana del capitalismo?

L'economista francese Thomas Piketty è considerato da molti a sinistra come una sorta di salvagente. 
Non ha Piketty chiaramente e inequivocabilmente dimostrato che i rapporti di distribuzione cambiano sempre a favore del capitale, in quanto il rendimento del capitale è regolarmente superiore alla crescita? 
La formula r>g che esprime questo fatto è diventata famosa. 
Molti considerano questa una visione particolarmente arguta perché l'analisi di Piketty rimane strettamente vincolata ad un modello neoclassico. Secondo Piketty tuttavia, l'economia, sia che la si consideri in modo marxista o neoclassico, avrà sempre lo stesso risultato: il capitale vincerà. Friederike Spiecker ed il sottoscritto hanno spiegato in due occasioni negli ultimi anni che le cose sono ben lungi dall'essere così semplici.

Le destre, d'altra parte, sono state e rimangono molto spesso confuse circa il lavoro di Piketty. A loro avviso, in qualche modo, egli ha usato una teoria del tutto corretta ma giungendo a conclusioni completamente errate. Questo è per essi difficile da digerire. A causa del quadro concettuale neoclassico di Piketty, le sue analisi non possono essere respinte tanto facilmente dalle destre, come queste farebbero con fastidiosa gente sinistra che abbia idee marxiste o keynesiane. La conclusione di Piketty che le tasse sui ricchi dovrebbe essere aumentate al fine di migliorare la redistribuzione, sono un anatema per queste persone. Per loro, proprio questo deve essere combattuto con tutti i mezzi possibili.

Ora, però, la Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ), nel tentativo di screditare la richiesta di distribuzione di Piketty, ha oltrepassato il bersaglio. Patrick Bernau cita un recente studio del Fmi sulla eguaglianza e conclude che: «Gli scienziati del Fondo monetario internazionale hanno dato una diversa lettura dei numeri di Piketty, scoprendo che non vi è alcuna prova che l'economia moderna funzioni in realtà come egli sostiene».

Il redattore del FAZ e il Fondo monetario internazionale hanno assolutamente ragione su questo: le economie moderne non funzionano nel modo che Piketty descrive. Non vi è alcuna crescita che dipenderebbe dal risparmio. Non ci sono investimenti, che sarebbero indotti da ulteriori risparmi. Non c’è denaro neutrale. Non c'è progresso tecnico che cade dal cielo e non vi è alcuna relazione fissa tra la quantità di capitale che viene utilizzato nel processo di produzione e il tasso di crescita economica complessiva. Non c’è inoltre sostituzione di lavoro e capitale in conformità ai "prezzi relativi" dei fattori di produzione e l'idea che il libero commercio sia efficiente perché beneficia ugualmente tutti i partecipanti è mera finzione.

Se l'economia moderna non funziona come Piketty crede faccia, come funziona allora? E se Piketty si è sbagliato, vuol dire che la FAZ e il FMI hanno ragione?

Supponiamo che le idee di Joseph Schumpeter sullo sviluppo economico e la crescita siano in linea di principio corrette. Imprenditori pionieri hanno bisogno di denaro (creato ex nihilo) per entrare in processi inflazionistici pericolosi e dare all'economia nuovi impulsi. Non sono quindi necessari risparmi per finanziare questi investimenti perché le banche e la banca centrale possono creare denaro per gli investimenti disponibili senza alcuna restrizione.

Immaginate un mondo in cui i guadagni di produttività che vengono creati attraverso il processo di distruzione creativa di Schumpeter devono essere trasmessi integralmente sui salari più e più volte, perché altrimenti il ​​potere d'acquisto per comprare i prodotti che l'economia produce mancherebbe. Immaginate che ogni economia nazionale fosse incorporata in un sistema monetario ragionevolmente ben congegnato, che impedisca cioè ai singoli paesi di accumulare enormi surplus commerciali. In una tale situazione, il mercantilismo sarebbe impossibile. Lasciateci inoltre immaginare che i tentativi delle aziende di migliorare la loro situazione finanziaria richieda che le finanze pubbliche in vadano permanentemente in deficit.

Si potrebbe continuare quasi all'infinito. No, il mondo non funziona come spiega Thomas Piketty (ed egli ormai l’ha visto e oggi difende infatti la ridistribuzione con argomenti del tutto diversi).

Ma il mondo non funziona nemmeno nel modo che la FAZ descrive e su cui questo giornale basa le sue richieste politiche di vasta portata nonché le critiche a tutti coloro che non sono d'accordo. Sarebbe positivo se tutte le parti si rendessero conto che senza una discussione seria e obiettiva su una teoria economica realistica, non ci sarà alcun progresso, nessuna politica economica né regole distributive ragionevoli.

In particolare, le persone ragionevoli dovrebbero essere in grado di concordare abbastanza rapidamente che non abbiamo alcuna teoria della crescita degna di questo nome ad eccezione di quella rudimentale schumpeteriana. Ciò che gli economisti neoclassici (ma pure quelli che si fanno chiamare keynesiani) hanno messo a disposizione sono essenzialmente situazioni imbarazzanti che si basano su definizioni relazionali (come la parità di risparmi e investimenti). È impossibile costruire una teoria completa sulla base di queste definizioni relazionali. Tuttavia, riconoscere questo fatto richiederebbe che un sacco di pregiudizi politici che rendono la vita facile e spesso forniscono gli amici giusti, siano accantonati.

E chi vuole farlo?

* Fonte: EReNSEP
** Traduzione a cura di SOLLEVAZIONE

giovedì 27 ottobre 2016

PATRIOTTISMO PROLETARIO O COSMOPOLITISMO BORGHESE? di Lelio Basso

[ 27 ottobre ]

«Ma così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla di comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare con il quale si giustificano si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale».
Lelio Basso

Il compagno Alfredo D'Attorre scrive che la sinistra deve "chiedere scusa per aver voluto l'euro". Vale la massima: non è mai troppo tardi.
Tuttavia non la dice tutta, e ciò è sintomatico. La sua è una critica zoppa, che pecca di economicismo, che non vuole riconoscere l'enorme dimensione politica del problema. Non dice infatti che la sinistra dovrebbe fare mea culpa anzitutto per aver sostenuto L'Unione europea, di cui l'euro è solo una protesi. 
Perché non lo fa? Perché è ancora prigioniero della narrazione europeista, a sua volta precipitato storico-ideologico del cosmopolitismo —abbracciato dalle classi dominanti europee, sotto la spinta di quella americana, dopo la fase dei nazionalismi fascisti e imperialisti.

Le sinistre, questo è quello che D'Attorre si ostina a non vedere, accettarono l'euro in quanto già prima avevano introiettato il discorso ideologico cosmopolitico —non solo spinelliano, ma su questo, sul peso ben più determinante di certi cenacoli imperialisti come quello di Kalergi, ci torneremo su), ritenendo che il cosmopolitismo imperialista fosse compatibile con la tradizione dell'internazionalismo di matrice marxista. 
Il mostro bastardo che ne è venuto fuori l'ho chiamato cosmo-internazionalismo.
D'Attorre ci dice poi che l'avallo all'euro ha riguardato tutta la la sinistra, tranne "isolate eccezioni" (tra cui noi, voglio supporre).
La questione che va posta è allora la seguente: mancava a queste sinistre un retroterra teorico e programmatico per poter evitare l'abbraccio mortale del cosmopolitismo in salsa europeista?
No! Non mancava affatto. 
L'adesione al disegno cosmo-europeista è stato piuttosto uno scandaloso tradimento delle proprie basi programmatiche e strategiche. Del proprio stesso Dna.

Qui ve ne vogliamo portare la prova, anzi mostrarvi la "pistola fumante".
Il discorso che Lelio Basso, uno dei padri costituenti, antifascista e dirigente socialista (manco comunista, socialista!) svolse in Parlamento il 13 luglio del 1949, in merito al primo atto di nascita di quella che poi sarà l'Unione europea — l'Accordo per la costituzione del Consiglio d'Europa, firmato a Londra il 5 maggio del 1949.
Ne riportiamo alcuni stralci dove Basso critica come strumentale e antipopolare la conversione cosmopolitica delle classi dominanti, denuncia la natura imperialistica del nascente europeismo e rivendica invece il patriottismo democratico, la difesa della sovranità nazionale e la missione nazionale della classe proletaria.

Consigliamo caldamente di leggere TUTTO IL DISCORSO di Lelio Basso

Moreno Pasquinelli

Lelio Basso
«E’ in questa fase e come strumento di dominazione americana, che nasce e si concreta il progetto francese di Unione Europea, nasce cioè la proposta di una vera Unione Europea con parziali rinunce alle sovranità particolari, e con un proprio parlamento eletto.


(…)

il Consiglio europeo [di cui discutiamo] è uno strumento della politica atlantica, e quindi dobbiamo considerare l’accordo oggi sottoposto alla nostra ratifica come manifestazione di politica atlantica.

(…)

Il Consiglio europeo, cioè, è la maschera progressista, idealista che deve coprire due realtà brutali: la manomissione economica che l’imperialismo, il grande ca- pitale americano esercita sull’Europa e la politica del blocco occidentale in funzione antisovietica.
Tradurre questa politica nel linguaggio del federalismo, esprimere cioè questa realtà di sopraffazione e di soperchieria in termini ideali, è un mezzo che serve a fare accettare questa politica a molta gente in buona fede per poi servirsi di tutta questa gente in buona fede come specchio per le allodole onde trascinare certi strati della popolazione dalla stessa parte.

(…)

Naturalmente, perché gli investimenti siano più allettanti,
l’America ha bisogno di grandi mercati e l’interesse che l’America dimostra per le unioni doganali, la pressione che l’America esercita per ottenere un’ Europa unita in questo modo, l’interesse ad annullare le frontiere, non hanno per scopo di creare una terza forza, tra USA e URSS, ma semplicemente attestano il suo bisogno di dominare i mercati dell’Europa, di avere un grande spazio a sua disposizione, per poter governare meglio e più economicamente il dominion europeo. Hitler faceva la stessa politica e la chiamava Gleichschaltung. Di tutto ciò noi troviamo anche un’eco nei congressi dei federalisti, dove tanta brava gente applaude a mozioni in cui si parla indifferentemente dei diritti della personalità umana e della libera circolazione delle merci, e si vuole  intendere naturalmente la libera circolazione delle merci americane o fabbricate da industrie che siano sotto il controllo del capitale americano.

(…)

I due termini, Unione europea e dominio del capitale americano, coincidono.

(…)


Un’Europa che cammina su questa strada, un’Europa che tende ad unificarsi in funzione del capitale americano, è un’Europa che tende a far sparire, che tende a distruggere le piccole e medie industrie; che tende a portare all’esasperazione i contrasti di classe, e a far sentire sempre più la pressione brutale del capitale finanziario monopolistico. La lotta di classe non può che venirne accresciuta, e non può che accrescersi la disoccupazione, che accompagna sempre i fenomeni di concentrazione e di cosiddetta razionalizzazione dell’industria. Ma la piccola e la media borghesia ne sarebbero anch’esse inesorabilmente schiacciate.

(…)

Ed anche quella decadenza del Parlamento, di cui si è parlato molto in questi ultimi tempi qui da noi, è in funzione di questi fenomeni. I grandi trusts e i grandi monopoli preferiscono risolvere i grossi problemi dell’economia, della finanza e della politica nel chiuso dei consigli d’amministrazione e dei gabinetti dei ministri. Che cosa sanno, per esempio, oggi, il proletariato inglese e americano, che cosa sa lo stesso parlamento inglese della reale portata degli enormi conflitti di interessi che si nascondono dietro la lotta fra sterlina e dollaro?
Abbandoniamo quindi questa illusione di una Unione europea in funzione di terza forza! Noi sappiamo che ogni passo avanti che si fa verso questa cosiddetta unione è un passo avanti sulla via dell’assoggettamento dell’Europa al dominio del capitale finanziario americano ed è altresì un passo avanti verso la formazione di una piattaforma europea in funzione antisovietica. Ridotta a questa espressione, l’Unione europea somiglia profondamente all’Europa di Hitler: anche allora «Europa in marcia», era una delle espressioni care alla dominazione nazista, così come oggi «Europa in marcia» è espressione cara alla dominazione americana.

So che a questa nostra impostazione si è fatta e si fa questa obiezione: ma allora, voi socialisti avete abbandonato 1’internazionalismo, siete diventati i difensori e custodi gelosi della sovranità dello Stato, che è una concezione ormai superata? Ebbene, no: noi siamo fermi più che mai nella nostra posizione internazionalistica: noi siamo sempre perfettamente coerenti con la nostra concezione. Noi sappiamo che Marx scrisse: «gli operai non hanno patria», ma Marx ci insegnò altresì che il proletariato deve acquistare la sua coscienza nazionale e che esso l’acquista a misura che esso si emancipa, a misura che esso strappa dalle mani della borghesia l’esercizio esclusivo del potere politico e si presenta sulla scena della storia come classe che esercita la pienezza dei suoi diritti. Perciò l’internazionalismo del proletariato si fonda sull’unità e sulla solidarietà di popoli in cui tutti i cittadini, attraverso l’abolizione dello sfruttamento di una società classista, conquistano la propria coscienza nazionale.

In questo senso, oggi, la lotta che combattiamo sul terreno della lotta di classe, la lotta per l’emancipazione del proletariato è un tutt’uno con la lotta per difendere il nostro paese dalla invadenza del capitalismo americano.

I lavoratori che lottano, lottano congiuntamente contro lo sfruttamento di classe e contro lo sfruttamento che di essi pretende fare il capitalismo americano, il quale vuole essere associato al capitalismo nostrano nella spartizione dei profitti ottenuti attraverso lo sfruttamento delle classi lavoratrici.

Noi sappiamo che in questa lotta il proletariato combatte insieme per due finalità e che in questa lotta esso acquista contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza nazionale ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi che non potrà essere che socialista! In altre parole, il movimento operaio si inizia in un’epoca in cui l’operaio è quasi posto al bando della società, in cui l’operaio è  sfruttato fino al punto di essere praticamente escluso da ogni diritto da una classe che in questo modo gli nega veramente l’appartenenza alla patria, in quanto fa dello Stato e della nazione uno strumento della sua politica e uno strumento del suo dominio e del suo sfruttamento, ma l’evoluzione del movimento operaio porta il proletariato ad inserirsi sempre più vivamente nel tessuto della vita nazionale per strapparne il monopolio alla borghesia, e fa coincidere sempre più la lotta per l’emancipazione, la lotta di classe con l’acquisto della coscienza nazionale, nel senso che toglie alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominante.

(…)

Ed ecco che noi assistiamo a questo punto al passaggio improvviso di quelle borghesie occidentali dal vecchio esasperato nazionalismo, ad un’ondata di cosmopolitismo. Ma così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla di comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale si giustificano e si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale.
L’internazionalismo proletario non rinnega il sentimento nazionale, non rinnega la storia, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni di vivere pacificamente insieme. Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie, nostrana e dell’Europa, affettano è tutt’altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera.


Non v’è oggi popolo al mondo che sia più nazionalista del popolo americano. Oggi negli Stati Uniti chi non crede che questo sia il secolo americano, chi non crede che il popolo americano sia il popolo destinato a dominare il mondo, è considerato un non americano ed è messo al bando della vita civile. Eppure questo popolo degli Stati Uniti, questo popolo che in casa sua è il più nazionalista dei popoli della terra, oggi, quando si rivolge ai popoli dell’Europa parlas con affettato dispregio dei pregiudizi nazionali, come di un elemento di arretratezza, e trova subito nei capitalisti europei dei loro servi che sono pronti ad applaudire al cosmopolitismo.

Le stesse borghesie italiane e francesi, che furono per molti anni accese scioviniste, e si trovarono poi con la massima indifferenza pronte a subire la dominazione hitleriana per difendere i propri interessi e privilegi, oggi con la stessa indifferenza e sfacciataggine proclamano il verbo del cosmopolitismo e dell’europeismo per servire gli interessi del capitalismo americano.
Esse cercano di pervertire con questo veleno il vero sentimento nazionale. Noi possiamo leggere, per esempio, sotto la penna di uno dei più smaccati servitori della borghesia francese di oggi, il Malraux, frasi di questo genere: «L’uomo diventa tanto più uomo quanto meno è unito al suo paese».
Anche la propaganda hitleriana era basata come quella americana di oggi, su questo stesso dualismo. Il popolo tedesco parlava di sè come di un popolo eletto, popolo destinato a dominare il mondo; quando si rivolgeva agli altri popoli, parlava viceversa di europeismo».





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