mercoledì 2 novembre 2016

SHARING ECONOMY, JOBS ACT E LOTTA DI CLASSE di Gianni Giovannelli


[ 2 novembre ]
Riflessioni sul caso Foodora*


I think you will find
When your death takes its toll
All the money you made
Will never buy back your soul
Bob Dylan
Nei giorni scorsi (7-8 ottobre) quasi tutti i quotidiani italiani (cartacei e on line) hanno riportato la notizia di uno sciopero attuato dai fattorini torinesi per rivendicare, contro Foodora, un miglioramento delle loro condizioni lavorative. Evidentemente si trattava proprio di una notizia; e in effetti lo è, non solo per l’accaduto in sé stesso, ma soprattutto per le possibili conseguenze future di una protesta che presenta indubbi elementi di grande suggestione simbolica. Non sarà forse stato davvero il primo scontro di classe nell’ambito della sharing economy, e magari la partecipazione  attiva non avrà raggiunto percentuali altissime; ma questo non toglie che si tratti dell’esordio inatteso, nella scena della comunicazione, di una schiera del tutto nuova. Questa è la società dello spettacolo, e si è così rappresentata ad uso del pubblico una rivolta; questo allestimento virtuale è un fatto ulteriore che si affianca allo sciopero reale. La cronaca di un fatto ha per fine la costruzione di altri accadimenti.
Non deve stupire, dunque, la doppia coda, il doppio seguito. Anche a Milano lo sciame riderè sceso in agitazione, per mutuo soccorso e per identificazione; sull’altro versante stampa e televisione hanno subito trattato con grande clamore la vicenda dei precari in bicicletta introducendo un diverso angolo di visuale celato dietro la facciata di un’apparente oggettività. Perfino l’ineffabile ministro Poletti (ovvero colui che ha firmato le norme giuridiche applicate da Foodora) è intervenuto rendendo noto di aver mandato i suoi ispettori a verificare lo stato delle cose, guardandosi bene dal precisare il come e il dove. La sequenza complessiva merita una attenta riflessione, possibilmente liberandoci del nostro vecchio armamentario d’indagine e portando invece l’inchiesta nel vivo della condizione precaria e della finanza informatica.
Foodora è una società tedesca con sede a Berlino; si è insediata in dieci paesi fra cui l’Italia (a Milano e Torino). Nella piattaforma sono ormai acquisiti almeno settemila ristoranti (provider), il fatturato è in continuo aumento, a solo due anni dalla nascita (2014) la progressione è ancora geometrica. Vestiti con la divisa aziendale (colori vistosi e non confondibili) i lavoratori si spostano senza sosta a bordo di una bicicletta propria; ricevono mediante app l’ordine di servizio, ritirano la confezione con il cibo ordinato e lo recapitano al cliente (user).
Naturalmente i rider non sono assunti come dipendenti (costerebbero troppo) e perfino il voucher  (pezzatura minima dieci euro lordi, 7,5 al lavoratore) appare inadatto ai bisogni tecnico-organizzativi di Foodora. La scelta aziendale poggia invece sull’istituto giuridico del lavoro autonomo c.d. occasionale, curando di non superare la soglia dei cinquemila euro nel corso di un anno, così che non sia necessario aprire una posizione presso Inps e/o utilizzare la partita Iva. La normativa fiscale in vigore non contiene una definizione puntuale della prestazione autonoma occasionale rispetto a quella continuativa, vi è dunque ampio margine per le imprese nell’utilizzare questo strumento. Il lavoratore (sotto la sua responsabilità) autocertifica di non superare la soglia fissata dal legislatore, così che i compensi sfuggano anche alla gestione separata dell’Inps, sottoposti alla sola ritenuta del 20% senza altri oneri. Il rider è tenuto, per legge, ad avvisare l’azienda di aver superato il limite dei 5 mila euro (eventualmente anche con altre attività), esponendosi in caso contrario ad azioni di rivalsa da parte del suo datore di lavoro. La contribuzione previdenziale scatta solo dopo il superamento ed è comunque per un terzo a carico del nostro ciclista. In buona sostanza il meccanismo della prestazione autonoma occasionale costa meno del voucher e ha il vantaggio ulteriore di non fornire dati a Inps e Inail. Tutto rimane moonlighting. L’area di reddito inferiore a cinquemila euro è una riserva di libera utilizzazione della manodopera precaria disponibile.
Con i decreti attuativi del Jobs Act il governo Renzi ha abrogato l’intero impianto della riforma Biagi e la parte connessa di quella successiva Fornero, introducendo per il lavoro autonomo occasionale modifiche di notevole importanza che hanno peggiorato considerevolmente le condizioni dei lavoratori precari. Vediamo le due principali.
La legge precedente poneva a carico delle imprese l’obbligo di provare la natura effettivamente autonoma dell’attività lavorativa utilizzata, allegando anche un progetto al contratto di ingaggio; è vero che anche allora compariva il limite annuo di cinquemila euro, ma era accompagnato da un secondo requisito importante, ovvero il tetto temporale di trenta giorni complessivi superato il quale scattava comunque la presunzione di un rapporto subordinato. Contro la presunzione non era neppure ammessa prova contraria, secondo la giurisprudenza prevalente. Ora, al contrario, la prestazione autonoma viene ricondotta, come in passato, al vecchio codice del 1942 (articolo 2222 c.c.) ed è il lavoratore che ha il difficilissimo compito di provare la subordinazione in un processo, con il rischio (se non ci riesce) di essere condannato alle spese di giudizio.
Cambia anche il compenso. Nel sistema previgente, l’impresa era tenuta ad assicurare comunque al collaboratore autonomo una retribuzione non inferiore a quella prevista dai contratti collettivi di settore per mansioni analoghe; con l’abrogazione della Biagi-Fornero, senza garanzie sostitutive, il nostro rider si trova ora costretto a trattare la paga oraria come individuo, isolato e a petto nudo di fronte alla struttura complessiva sopranazionale dell’impresa. Il decreto attuativo del Jobs Act  lascia alla fluttuazione del libero mercato la determinazione del costo di ogni singolo collaboratore occasionale autonomo.
Non a caso dunque Foodora ha potuto imporre il cottimo pieno (ovvero un compenso legato al numero di consegne effettive), abbattendo il muro del salario prima legato al tempoinvece che al risultato. Il ministro Poletti ha introdotto a sua firma le modifiche che rendono lecita una simile opzione e non si comprende per quale ragione rivendichi adesso di avere inviato i suoi ispettori presso Foodora, come riportano i giornali. Non tutti sanno, inoltre, che per disposizione ministeriale le ispezioni possono essere effettuate solo in una fascia oraria che esclude la pausa pranzo e difficilmente supera le 16,30; trattandosi di recapito pasti il lavoro oggetto dell’ispezione si articola in forma incompatibile con l’attività ispettiva, presumibilmente da concentrare fra le 20 e le 22 per raccogliere dati reali. In concreto gli ispettori si recheranno negli uffici di Foodora a prendere atto di come la società abbia semplicemente utilizzato i meccanismi che il ministro Poletti ha messo a loro disposizione. Si tratta di una presa in giro che giornalisti conniventi provvedono a spacciare come segnale di operosa attenzione, con il preciso intento di tranquillizzare la platea della cosiddetta opinione pubblica e di convincere i precari ad avere fiducia nelle istituzioni.
Vediamo ora quale sia il quadro istituzionale in cui si colloca, sul piano delle prestazioni lavorative interne al capitalismo di piattaforma, dentro la sharing economy. Nell’unione europea esiste soltanto una comunicazione (di semplice indirizzo, non vincolante), la 356(2016), denominata european agenda for the collaboration economy. L’economia collaborativa (questo il termine utilizzato) viene così identificata nella comunicazione: con l’espressione economia collaborativa si fa riferimento a quei modelli di business in cui le attività sono agevolate dall’uso di piattaforme collaborative che producono mercato aperto per l’uso temporaneo di beni e servizi spesso forniti da privati. I due criteri di indirizzo fissati nella comunicazione sono l’obbligo per tutti di pagare le imposte sull’utile ricavato e la competenza nazionale per fissare la retribuzione del lavoro, tenendo conto tuttavia dello standard salariale europeo (e il punto riveste una qualche importanza). E’ un intervento timido, che lascia agli stati membri ampia libertà e che si colloca dunque in una logica soft law. Il salario standard danese o svedese è ben diverso da quello bulgaro o italiano; infatti la retribuzione del rider nella stessa Foodora mostra una forbice notevole fra quanto ricevono i ciclisti in Germania e il corrispettivo ricevuto dai loro omologhi italiani. E’ scontato, ma precisiamolo: i tedeschi prendono quasi il doppio! La scelta europea è coerente con la strategia complessiva, maggioritaria in Commissione, di erosione del salario e di allargamento della forbice fra ricchi e poveri mediante le manovre fiscali legate al pareggio di bilancio.
L’Italia si conferma un laboratorio sperimentale di attuazione delle direttive diffuse dalla Commissione Europea anche in tema di sharing economy. È attualmente all’esame della Camera la prima proposta di legge in materia all’interno dell’Unione Europea. Il testo porta come prima firma quella di una giovane deputata lombarda del PD, Veronica Tentori; ed è iniziativa intergruppi per l’innovazione tecnologica ovvero di uno schieramento trasversale che riunisce segmenti di maggioranza con segmenti di opposizione. Il progetto porta il numero 3564, con data 27 gennaio 2016. In luogo di economia collaborativa il testo usa il termine economia della condivisione. Nella relazione introduttiva si pone l’accento sul rapido diffondersi del fenomeno, sottolineando come sia ormai al 25% la platea dei sharing economy svolge una funzione di contenimento degli effetti della lunga crisi; al tempo stesso il capitale finanziario si appropria del circuito di resilienza costruito dallo sciame per sopravvivere e lo mette a valore. L’articolo 5 della proposta introduce una imposizione fiscale del 10% a forfait fino a diecimila euro annui; oltre la soglia si applica l’ordinaria aliquota Irpef. L’articolo 7.2 introduce un principio presuntivo di proprietà privata in capo alla piattaforma dei dati sensibili, che possono anche essere oggetto di cessione, di mercato (business data mining); la piattaforma è tenuta a comunicare la vendita, ma sono i soggetti – provider e user –  che si debbono attivare a rendere nota la loro opposizione, con diritto alla cancellazione ma in assenza di sanzioni concrete a carico di chi sceglie di non rispettare le regole. Sorprende in questa proposta pilota l’omissione nei 12 articoli di ogni accenno al lavoro erogato dentro la piattaforma dell’intermediario. L’articolo 2 si limita ad escludere per un eccesso di scrupolo che fra gestore e utente possa aversi un rapporto di subordinazione; per il resto vale il rinvio alle norme ordinarie. Non muta il quadro anche esaminando gli altri progetti in discussione, entrambi all’esame del Senato: quello n. 2229/2016 a firma Sacconi sul lavoro autonomo e quello n. 2233/2016 sul lavoro agile e flessibile. Dunque le prestazioni sotto la soglia dei 5 mila euro annui rimangono confinate in un recinto di totale deregulation in una sempre più vasta area della cosiddetta gig economy. In questo modello economico a diffusione crescente esiste la disponibilità dei soggetti 24 ore su 24, ma al tempo stesso manca qualsiasi certezza di reddito continuativo, si lavora solo on demand  per lo più mediante appe paga a cottimo. Nel mondo dei gigger esiste solo la legge del più forte, l’esercito di riserva del secolo scorso si è evoluto, si è trasformato in un pilastro dell’accumulazione.
cittadini in rapporto con questa forma di creazione della ricchezza e di accesso al reddito.

Riassume tecnicamente bene i nodi della vicenda, pur se collocato sull’altro lato della barricata, Pietro Ichino in un commento del 20 ottobre, dedicato a Foodora. Il senatore Ichino ci ricorda la vecchia sentenza sul pony express della Corte di Cassazione, che aveva escluso la subordinazione – ma prima della legge Biagi – riconducendo il contratto a chiamata nell’ambito del lavoro autonomo, per via della possibilità, almeno in astratto, di negare la disponibilità al servizio richiesto dall’impresa. Ichino ammette che senza abrogazione della legge Biagi (per come corretta dalla legge Fornero) questo contratto non sarebbe stato possibile; gli ispettori del ministro Poletti, ci anticipa, dovranno verificare se anche i gigger in bicicletta possano negarsi in occasione di un singolo incarico, magari semplicemente non rispondendo alla telefonata. Tenuto conto che l’ispezione ministeriale ha caratteristiche diverse da quelle di un’inchiesta secondo Romano Alquanti, possiamo star certi circa l’esito di un procedimento amministrativo basato solo su visite in ufficio ed esame delle carte fornite dall’impresa. La conseguenza probabile, spiega il senatore Ichino, è che secondo le norme vigenti (in Italia e in Europa) non possano essere imposti minimi retributivi di garanzia per i lavoratori ciclisti. Naturalmente il giuslavorista del PD, con grazia e uso sapiente degli artifizi retorici, evita il punto centrale: la modifica che legittima questa palese ingiustizia sociale è stata introdotta dal suo governo, a firma di Renzi e Poletti! Dura lex sed lex.
L’articolo 2222 del codice civile, utilizzato oggi contro i precari, risale al 1942, è sopravvissuto alla caduta del fascismo, vive nel terzo millennio una nuova esistenza grazie agli ordini della commissione europea. Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo  (che contiene sette articoli, fino a 2228). Bisogna prestare attenzione al contenuto della norma, al vocabolario: il lavoratore si obbliga ad eseguire il servizio e deve assicurare non il tempo ma il risultato, in cambio di un corrispettivo che può essere sia a tempo sia a cottimoDunque almeno non in modo gratuito, anche se, spiega la giurisprudenza, la gratuità, pur non essendo automatica, è tuttavia lecita, se concordata. L’articolo 2225 c.c. lascia libera la determinazione del quanto da versare in cambio del lavoro; solo se manca un accordo allora (ma solo allora) provvede il Giudice in relazione al risultato ottenuto e al tempo necessario per ottenerlo. In questa elaborazione tecnico giuridica è il rapporto di forza che decide la paga di fatto, che costituisce l’equilibrio; l’impresa prepara lo schema d’ingaggio e lo impone alla parte debole, lasciandole solo l’alternativa fra rimanere senza reddito o accettare le condizioni. Un rider affamato con le tasche vuote difficilmente rifiuta l’ingaggio che rappresenta l’unica possibile fonte di reddito. L’articolo 2227 consente al committente (la piattaforma) di risolvere il contratto anche senza dare preavviso, pagando solo il lavoro eseguito fino a quel momento; infatti Foodora, come riferiscono gli organi della comunicazione di massa, ha provveduto senza indugi a cancellare dalla rete di contatto i ribelli individuati. Quando invece è il lavoratore autonomo a non rendere la prestazione allora deve risarcire il danno. Non deve stupire, dunque, il comportamento feroce di Foodora verso i precari a chiamata; il management pensa, non senza ragione, di applicare la legge del massimo profitto senza violare quella dello Stato.
Vedremo più sotto le novità sociali legate all’azione sindacale di protesta messa in atto daigigger  piemontesi e andiamo invece ad esaminare quali potrebbero essere le possibili azioni giudiziarie da promuovere contro la piattaforma nemica.
L’art. 36 della Costituzione italiana è una norma tradizionalmente utilizzata in difesa della retribuzione: il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Nel corso degli anni la Cassazione, dapprima timidamente poi con crescente fermezza, ha ribadito che si tratta di una disposizione immediatamente applicabile (in gergo:di natura precettiva); e che, per questa sua natura, prevale sulla legge ordinaria in quanto fonte primaria di diritti costituzionalmente garantiti, inderogabili. La giurisprudenza ha poi individuato, come parametro di riferimento da utilizzare per l’adeguamento del compenso, il minimo salariale previsto dai contratti collettivi nazionali di settore. Nel caso dei nostri ciclisti il minimo costituzionale dovrebbe, in ipotesi, essere allora quello previsto per l’operaio del settore trasporto o, in alternativa, del settore terziario; in ogni caso, quale che sia il contratto nazionale di riferimento, non si dovrebbe scendere al di sotto di otto euro lordi orari, ben oltre quanto di fatto corrisposto da Foodora.
Ma la magistratura, ostile, tende a negare l’applicazione dell’art. 36 al lavoro autonomo. La Cassazione ha riconosciuto una somma ingente, in base all’art. 36, al già facoltoso dirigente RAI che aveva collaborato alla costruzione di Saxa Rubra, in quanto subordinato di alto grado; ma al tempo stesso molte decisioni negano il medesimo diritto al più scalcinato dei lavoratori autonomi, al rider o al pony. Negli anni ottanta il Tribunale di Milano e poi la Corte Suprema negarono ad una cameriera di tavola calda il requisito della subordinazione e il trattamento facoltativo di gravidanza proprio per l’autonomia del serbatoio di addetti nella scelta al loro interno di chi andasse a comporre la squadra secondo il numero indicato dal proprietario del locale. E qui sta il cuore del problema. Per la verità la fonte di questo orientamento, ovvero la sentenza 7 luglio 1964 n. 75 della Corte Costituzionale, lascia aperta la via alla rivendicazione. Quella vecchia pronunzia riguardava un notaio siciliano che voleva cancellare dall’ordinamento italiano la riduzione delle tariffe al 50% nel caso di certi adempimenti relativi ai fondi agricoli; la Consulta fece presente che si era ben al di sopra del minimo vitale e che non era dunque necessario affrontare il delicato tema del rapporto fra articolo 36 e lavoro autonomo. A leggerla con attenzione la sentenza non escludeva affatto l’applicazione, ove l’attività prestata, per la sua esecuzione, potesse essere una fonte primaria di sussistenza. Cinquant’anni dopo, dentro la sharing economy  e con la diffusione generalizzata della condizione precaria, riteniamo che la rivendicazione abbia un concreto fondamento ove si applicassero i principi esposti in quella decisione.
La recente legge sull’equo compenso del lavoro giornalistico (la legge 233/2012) rafforza la tesi dell’applicabilità dell’art. 36 della Costituzione al lavoro autonomo occasionale prestato dentro la sharing economy. L’articolo 1 della legge infatti precisa che la statuizione del compenso dovuto ai giornalisti autonomi avviene in attuazione dell’art. 36 primo comma della Costituzione. E dunque, per logica, si deve ritenere che il legislatore del 2012 consideri la norma estesa anche al lavoro autonomo, non subordinato, e legata (inderogabilmente) per proporzione alla quantità e qualità della prestazione, usando ancora una volta per riferimento i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva per il lavoro subordinato.
Questo possibile filtro interpretativo potrebbe modificare il quadro rivendicativo, aprendo la via all’azione giudiziaria di adeguamento salariale. L’applicazione dell’art. 36 travolgerebbe le pattuizioni individuali, nulle perché contrarie alla previsione costituzionale; e scatterebbe la norma grimaldello (articoli 2099 e 2233 c.c.) che consente di rimettere la Giudice la determinazione del compenso equo.
La Carta Sociale Europea (riveduta) di Strasburgo è stata ratificata in Italia con legge 9 febbraio 1999 n. 30 e ha aggiunto ai precedenti quelli che il preambolo non esita a qualificare come nuovi diritti. Il rango gerarchico di queste norme è parificato a quello costituzionale, dunque i principi della Carta si affiancano all’art. 36 rafforzando la disposizione precettiva. Deve essere allora resa  effettiva mediante tutti i mezzi utili (dunque e fin da subito con la pronunzia del Giudice) la possibilità di guadagnarsi la vita con eque condizioni di lavoro in condizioni oggettive di sicurezza e igiene. Il quarto principio della prima parte non lascia adito a dubbi: tutti i lavoratori hanno diritto ad un’equa retribuzione che assicuri a loro e alle loro famiglie un livello di vita soddisfacente. Il sesto principio (pure questo ha un riscontro nella Costituzione italiana) si pone in radicale contrasto con quanto affermato dai giovani funzionari Foodora, Gianluca Cocco e Matteo Lentini: loro dichiarano di voler trattare il tema salariale solo e soltanto con il singolo gigger mentre la Carta di Strasburgo afferma il diritto di negoziare collettivamente.
La definizione, nelle relazioni comunitarie, di lavoratore sottoposto dentro la sharing economy pone l’accento sulla direzione dell’attività da parte delle piattaforme collaborative, sulla determinazione delle scelte organizzative, delle condizioni di prestazione, della remunerazione. Su queste basi non vi è dubbio, dunque, della natura comunque subalterna del contratto di lavoro intervenuto fra rider e piattaforma; non ci sono ragioni, testuali e sostanziali, per non ricondurre questa figura fra i lavoratori, autonomi o subordinati che essi siano. Siamo allora pervenuti, mediante lo strumento tecnico del diritto del lavoro, nel pieno della moderna economia sovranazionale costruita secondo le scadenze dell’informatica e della finanza; i grandi intramontabili temi del salario, dello sciopero sociale o aziendale, della sicurezza e della rappresentanza trovano nello svolgersi degli avvenimenti la loro concreta articolazione.
Gli articoli 3 e 4, parte seconda, della Carta Sociale rendono più chiara la portata delle disposizioni, sia sul piano della retribuzione necessariamente equa sia sul piano parallelo della tutela della salute, del diritto alla sicurezza.
Non vi è dubbio che l’organizzazione del lavoro sia scelta e attuata dall’impresa, in questo caso da Foodora. Ma l’art. 2087 c.c. introduce dei limiti: l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. I ciclisti precari vivono una condizione non solo subalterna, ma anche oggettivamente pericolosa. Il taglio dei tempi e la paga a cottimo pieno spinge alla manovra incauta, favorisce i sinistri. Le numerose ricerche effettuate sulle strutture del call center  hanno consentito di accertare il rapporto oggettivo, conclamato, fra depressione e condizione precaria, fra ansia quotidiana e incertezza del futuro. Possiamo dare per acquisiti anche il calo di rendimento scolastico universitario e l’organizzazione dei turni mediante convocazione app all’ultimo istante, sia per lo stress connesso alla necessità del collegamento costante in rete sia per l’impossibilità di programmare ragionevolmente la preparazione degli esami o l’accesso ai corsi.
La questione salariale di unisce dunque alla rivendicazione di salvaguardia del corpo, della rifusione dei danni provocati dall’uso violento della condizione precaria. E neppure va tralasciata la questione fiscale: il limite dei cinquemila euro, oltre il quale scatta la mannaia delle trattenute e delle imposte, finisce con l’essere un recinto di contenimento nel lungo periodo dell’istanza volta ad ottenere maggior reddito. La scelta del governo e delle istituzioni non è casuale; è coerente con l’allargamento della forbice fra ricchi e poveri, con la riduzione del costo del lavoro quale strumento principe del cosiddetto pareggio di bilancio.
Il meccanismo di liberalizzazione selvaggia della contrattazione del costo delle prestazioni lavorative ha, dentro la sharing economy, un carattere sperimentale che prelude alla sua successiva applicazione nell’intera società. Il rapporto fra gigger e piattaforma si presenta quasi come futura dimensione istituzionale di quello complessivo fra governo finanziario e moltitudine governata, compresa l’espulsione dal circuito del reddito attuata mediante il taglio dell’accesso alla rete. La piattaforma si appropria del comune in tutte le sue articolazioni, estraendo ricchezza dalla generalizzata messa a valore dell’esistenza. Il nostro ciclista, grazie alla divisa, lavora mentre si muove per le consegne e perfino quando attende in sosta la chiamata via app. Il vecchio uomo uomo sandwich  svolgeva un compito retribuito offrendo il proprio corpo al pubblico, lavorava passeggiando con i cartelli che lanciavano un prodotto; nel tempo del logo è sufficiente il colore della divisa per creare l’immagine rivolta al possibile user  o al possibile provider. Il circuito mediatico di facebook o twitter o linkedin produce circolazione di testi e fotografie, trasforma l’esistenza privata delgigger in pubblicità gratuita per la piattaforma; il nostro fattorino, pagato solo per singola consegna, nulla riceve per la montagna di contatti che vivendo la propria esistenza sociale determina con la partecipazione alla rete. Eppure le immagini dei precari in divisa si trasformano in oro che affluisce nelle tasche di questi fantasiosi imprenditori; circola la divisa inconfondibile di Foodora ma non circolano la tossicodipendenza, la depressione, l’ansia, l’incertezza, la miseria, il disagio, la malattia, il senso di fallimento, il suicidio. Esiste lo spazio per una sorta di class action, ovvero di azione collettiva, a carattere retributivo e risarcitorio insieme, diretta contro il sistema complessivo organizzato per lo sfruttamento intensivo dei collaboratori autonomi con reddito sotto la soglia dei 5 mila euro annui. Questa azione non è affatto in contrapposizione con quella sindacale di conflitto attuato in forma di sciopero sociale o di rifiuto della prestazione intesa come arma di pressione per ottenere condizioni migliori.
E siamo così arrivati a conclusione. Sopra abbiamo descritto un’ipotesi di lavoro di rivendicazione tecnico giudiziaria, la possibile costruzione di un diritto del lavoro alternativo; ora torniamo all’evento che ha aperto queste riflessioni, lo sciopero dei fattorini torinesi. E dobbiamo distinguere, per capire davvero, lo sciopero dalla rappresentazione dello sciopero.
Nella sua immediatezza e semplicità la decisione dei ciclisti torinesi costituisce un fatto nuovo e inatteso, una aperta dichiarazione di ostilità nei confronti del processo di sussunzione della forza lavoro dentro la condizione precaria. È la prima ribellione al nuovo ordine costituito, alle imposizioni del potere finanziario e della commissione europea. Ed è una lotta nata senza alcun uso tattico della forma-sindacato, costruita direttamente dai soggetti protagonisti dentro  la loro stessa comunità operativa. Il meccanismo di comunicazione degli ordini elaborato da Foodora è stato momentaneamente espropriato per ricomporre la frammentazione e unire le forze, così da poter intraprendere azioni collettivedopo aver constatato l’esistenza di conflitti d’interesse (articolo 6, parte seconda, Carta Sociale Europea). Sappiamo bene che Foodora è assai potente e che gli scioperanti sono invece molto deboli, con scarse risorse, senza una forza materiale alle spalle che li sostenga. Siamo consapevoli che le possibilità di vittoria piena sono modeste, che la mannaia della repressione è pronta per essere calata sulle teste ribelli. Eppure quel che conta è altro, nessuno lo può negare. Nel momento stesso in cui l’azione collettiva si è realizzata un nuovo capitolo dello scontro di classe ha avuto il suo inizio: questo è un successo che nessuna normalizzazione a posteriori potrà mai cancellare. I ciclisti torinesi, a prescindere da quello che sarà il risultato della protesta, hanno dimostrato sul campo che la lotta è possibile e che dunque si tratta di studiare efficaci meccanismi di attuazione, compatibili con questo lavoro e con questa società di capitalismo telematico finanziarizzato. Mettendo in crisi l’organizzazione del profitto nella sharing economy  i ciclisti gigger hanno messo a nudo la frontiera contemporanea del licenziamento mediante esclusione dalla rete, togliendo accesso all’app  come un tempo si irrogava l’esilio dalla città. La rapidissima diffusione della notizia è la prova di un processo d’identificazione collettivo da parte dei precari che immediatamente si sono riconosciuti nei ciclisti torinesi in lotta, la potenziale contaminazione non ha necessità di argomentazioni a supporto, tanto appare evidente.
Accanto all’evento dello sciopero, alla protesta come fatto storico si affianca tuttavia la reazione del potere, mediante la rappresentazione mediatica dello sciopero. La comunicazione mediante stampa, televisione e rete si è immediatamente impadronita dell’evento, con il preciso intento di contrastare la contaminazione e disinnescare il congegno di potenziale esplosione del conflitto sociale. L’invio degli ispettori da parte del ministro Poletti (ovvero da parte di colui che ha firmato le norme contro il precariato) rinvia alle sedi istituzionali l’esito della vertenza in atto, mira alla divisione dei lavoratori in due tronconi, al tempo stesso costituisce una concreta rassicurazione circa il mantenimento della normativa varata per ordine della commissione europea al fine di abbattere il costo del lavoro ovunque. Dietro la critica ipocrita dei licenziamenti disposti mediante taglio della connessione si cela la minaccia di identica sorte verso chi insista ad esporsi, pubblicando anche i nomi dei lavoratori come una lettre de cachet  per condannare i ciclisti sovversivi alla perdita totale del reddito, senza processo e senza possibilità di difesa. Quale imprenditore sarà così imbecille da ingaggiare come lavoratore autonomo occasionale proprio un protagonista della rivolta contro Foodora? L’apparente sostegno è solo una trappola crudele, e i cronisti, precari mal pagati a loro volta, ne sono perfettamente consapevoli, svolgono in silenzio il compito assegnato. La rappresentazione spettacolare dello sciopero si articola in due atti. Nella prima parte ci si duole della paga troppo misera riservata ai ciclisti, ma  al tempo stesso si elogia la flessibilità. Il suggerimento occulto è che con qualche ritocco retributivo le cose si mettano a posto; lo scopo aggiunto è quello di convincere la fascia collocata intorno a 7/800 euro mensili a ritenersi privilegiata. Nella seconda parte lo scenario si fa più minaccioso: siamo nel pieno della crisi, bisogna rimboccarsi le maniche, questo è il futuro, non esistono alternative. La rappresentazione contiene naturalmente anche la pubblicità: a gruppi i ragazzi in maglietta Foodora si fanno ritrarre e i loro volti fanno il giro del mondo. Il messaggio che contiene l’immagine è quello di una sharing economy  in piena espansione, non di una lotta esemplare destinata a mettere in crisi il meccanismo di estrazione della ricchezza mediante l’esproprio dell’esistenza. Nuova la protesta, nuovo l’uso mediatico della notizia contro lo sciopero e contro i gigger.
Siamo ancora dentro la transizione, ma forse avremo fra non troppo tempo la possibilità di far sentire il nostro vecchio motto: ben scavato, vecchia talpa!

* NOTA

È opportuno precisare che sharing economy e, come vedremo d’appresso, gig economy non sono sinonimi. Con le parole di Valerio De Stefano, tratte da Il manifesto del 10/10/2016, “La Sharing e la Gig economy vengono confuse perché si basano sullo sfruttamento del mezzo tecnologico: smartphone o pc. La prima mette insieme persone per dividere costi per un viaggio in macchina. La seconda prevede il pagamento di una macchina con autista che porta il cliente dove vuole. Di sicuro in questo caso si parla di lavoro: una prestazione in cambio di un corrispettivo. Nel caso di Foodora non c’è nulla da condividere: c’è qualcuno che ha bisogno di un pasto e se lo fa portare da un’azienda che organizza una forza lavoro. Il riferimento all’economia della condivisione è fuori luogo”. 
Nella prospettiva giurica che orienta questo articolo, però, il punto di partenza è quello per cui non esiste attualmente una legislazione che individui e regoli la gig economy: per tale ragione Foodora appare sia sharing sia gig. Peraltro nella distinzione tra le due forme è implicito il rischio di una contrapposizione tra una sharing economy-buona e una gig economy-cattiva. Tuttavia, come vedremo meglio, la contaminazione è avvenuta, è inevitabile e non consente manicheismi di sorta. Inoltre, relativamente al problema degli anglismi e, dunque, della traduzione, vale la pena sottolineare che nel testo si farà ricorso all’espressione riders invece che fattorini proprio al fine di rimarcare come la condizione dei lavoratori impiegati da Foodora presenti scarse affinità con quella rinvenibile nel settore dei trasporti o della logistica (per esempio, DHL o TNT), all’interno dei quali i fattorini appaiono come figure contrattualizzate e persino sindacalizzate. Infine è utile notare come l’impiego di termini anglofoni nel dibattito italiano (ma anche in quello condotto in altre lingue) costituisce una forma di offuscamento: è il caso, per l’appunto, dell’espressione riders in luogo di fattorini, o del termine gig, che può significare lavoro temporaneo, ma anche poco impegnativo, desiderabile, conciliabile con altre attività, etc.

** Fonte: EFFIMERA

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Leggete un po' qui...

http://indiatoday.intoday.in/story/next-leak-to-ensure-hillary-clinton-arrest/1/800453.html

Anonimo ha detto...

http://www.inquisitr.com/3668257/steve-pieczenik-hilary-clinton-coup-clinton-takeover-former-deputy-assistant-secretary-of-state-julian-assange/

chiunque scriva ciò che vuole ha detto...

Il problema di fondo non è l'uso (abuso) di termini anglo-americani malamente tradotti ma nell'abuso del concetto fondamentale che ispira la demolizione dei diritti dei lavoratori, le conquiste di decenni se non di secoli: e qui basta comprendere bene il termine italianissimo di "flessibilità: che deriva dal verbo "flettere", che significa "piegare".
Tutti gli sconci governi socialdemocratici o sedicenti di sinistra degli ultimi decenni in Europa insieme ai loro servili intellettualoidi portatori d'acqua del sistema si sono piegati al diktat delle multinazionali e del neoliberismo più sfrenato nell'insensata idea che i problemi economici derivassero dalla "rigidità del mercato del lavoro". E dei diritti dei lavoratori ne hanno appunto fatto il più sconcio mercato che si poteva immaginare. Non si tratta quindi ormai di cercare correttivi o aggiustamenti ma di rimettere in piedi il sistema scioccamente capovolto: un capovolgimento che è la causa principale della altrimenti irrisolvibile crisi economica.

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