martedì 31 ottobre 2017

LA L€GGE DEL TAGLIONE di Luciano Barra Caracciolo

[ 1 novembre 2017 ]

L'ULTIMO INTERVENTO DI LUCIANO BARRA CARACCIOLO, CHE DEMOLISCE LA LEGGENDA DELLA "AUSTERITÀ ESPANSIVA" E SVELA IL GIOCO DELLE PARTI TRA ROMA E BRUXELLES SULLA "LEGGE DI BILANCIO"

Poi l'Italia brucia e i viadotti crollano? Accettate virilmente...


1. Tagliare la spesa pubblica, si sa, è segno di virile credibilità di fronte ai mercati e a l'€uropa. D'altra parte, invece, gli investimenti effettuati con spesa pubblica, spesso unificati nella categoria (sempre di spesa pubblica) "misure supply side", risultano virtuosi. E quando c'è la virtù, come ben sanno gli innamorati, "le dimensioni non contano".





2. Ma ecco infatti, nel disegno di legge di "stabilità" per il 2018, le rispettive dimensioni dellacr€dibilità rapportate a quelle della virtù:
La manovra —secondo il documento— avrà un impatto positivo sui tassi di crescita del pil in termini di differenziale tra lo scenario programmatico e quello tendenziale ammonta a "0,3 pp in ciascuno degli anni 2018 e 2019".
Nel dettaglio, ammontano a 3,5 miliardi i tagli della spesa pubblica per il 2018[n.b.: sono tagli strutturali, quindi, a differenza delle "decontribuzioni" e degli "investimenti pubblici" sono 3,5 miliardi trascinati nella loro intera misura per ogni futuro esercizio di bilancio] che andranno a copertura delle misure della Legge di Bilancio.
Altre coperture da 'entrate aggiuntive' allo studio nell'ambito della lotta all'evasione di alcune imposte vengono quantificate in 5,1 miliardi di euro.
Le risorse per la competitività e l'innovazione, che includono anche ledecontribuzioni per i giovani, nel 2018 ammontano a 338 milioni; 2,1 mld nel 2019 e quasi 4 miliardi nel 2020. Gli stanziamenti per lo sviluppo che comprendono le spese per gli investimenti pubblici saranno pari a 300 milioni nel 2018, che passeranno a 1,3 miliardi nel 2019 e a 1,9 miliardi nel 2020. I fondi per la lotta alla povertà, reddito di inclusione sociale incluso dunque, sono 600 milioni nel 2018, 900 milioni nel 2019, 1,2 nel 2020.
«La Commissione aveva risposto al ministro Padoan in modo interlocutorio. Evidentemente, la manovra 2018 non convince neppure se l’obiettivo concordato dovesse essere una riduzione del disavanzo strutturale dello 0,3% del Pil. L’esecutivo comunitario vorrebbe ricevere maggiori precisazioni dal governo entro martedì. La situazione è complicata dal fatto che Bruxelles prevede una significativa deviazione dei conti pubblici anche per quanto riguarda il 2017.In particolare, la Commissione fa notare che «l’aumento previsto della spesa pubblica primaria netta è superiore all’obiettivo di una riduzione di almeno l’1,4%» (stesso problema è notato per il 2017). La lettera di Bruxelles è per certi versi di maniera (una manciata di paesi, tra cui la Francia, ha ricevuto una richiesta di informazioni). Non c’è desiderio di mettere in difficoltà il governo Gentiloni a ridosso del votoInteressante è il riferimento alla spesa legata all’emergenza migranti. Nel chiedere dettagli, Bruxelles sembra pronta a tenerne conto nel calcolare l’obiettivo di riduzione del deficit. Ciò detto, la Commissione deve far rispettare il Patto; chiede manovre precise; e vuole coprirsi le spalle da eventuali critiche di paesi insoddisfatti da ciò che ritengono una eccessiva discrezionalità nell’analisi dei bilanci».

4. In questo simpatico e ormai consueto siparietto, ogni cosa è illuminata dalla condivisa fede incrollabile nell'austerità espansiva: teologia che Stiglitz, quando vuole, demolisce in modo esemplare...probabilmente contando sul fatto —rassicurante— di rimanere inascoltato.

Ciò che distingue il gioco delle parti annuale Italia vs Commissione UE, sono diversi gradi di separatezza dal modello teologico germanico: il fiscal compact che, se realmente non lo si volesse  incorporare nei trattati, tanto varrebbe recederne, come sarebbe possibile in ogni momento, indipentemente dalla perdurante vigenza del (pallido) art.81 Cost..
Tuttavia, quanto a teologia dell'austerità espansiva, le nostre tradizioni non sarebbero seconde a nessuno, come ci riporta Francesco Maimone con annessa analisi di Federico Caffè: Adoratori della deflazione selvaggia e del taglio alla spesa pubblica, da sempre.

5. Ne emerge, da "tempi non sospetti", una teorizzazione morale, virile e credibile, di rara chiarezza:
Nel III Rapporto della Commissione Economica presentato all’Assemblea Costituente del 18 ottobre 1946 (Problemi monetari e commercio estero - Interrogatori, questionari, monografie), veniva interrogato l’allora ragioniere generale dello Stato, Gaetano Balducci, per chiarire la situazione della tesoreria onde trarre prospettive per il futuro. Anche allora bisognava “sanare” il bilancio dello Stato! 
Baffi chiese a Balducci: “Si potrebbe fare economia in qualche settore? ”. 

La risposta di Balducci fu la seguente:
… Su questo sono un po’ pessimista, perché purtroppo non si riesce a far comprendere tale verità nemmeno agli uomini politici responsabili. Quando un paese si trova nella situazione economica in cui si trova il nostro, tante spese bisogna assolutamente abbandonarle, anche se sono un prodotto della civiltà. Bisogna avere il coraggio di scendere dal livello di civiltà in cui si era. Per esempio (è doloroso dirlo), le spese di assistenza sociale, le spese di istruzione, ecc. non solo vengono tenute al livello di prima, ma anzi si vogliono aumentare, mentre, viceversa, ciò non è possibile…” [Rapporto cit., 108].

Per tale ragione nel 1949 – a Costituzione in vigore – Federico Caffè non poteva che stigmatizzare il mito della “deflazione benefica e risanatrice” che affermava essere alimentato “… dalla corrente più autorevole (o comunque più influente) dei nostri economisti, e pedissequamente ripetuto dai politici, sia pure con la consueta riserva, di carattere del tutto retorico, che esclude una loro adesione «a una politica di deliberata deflazione». In realtà non occorre che uno stato di deflazione si manifesti in quanto deliberatamente voluto dalle autorità politiche; se esso, comunque, si manifesta, una eventuale inazione delle autorità di governo implica una loro grave responsabilità, in quanto la deflazione, non meno e forse ancor più della inflazione, è uno stato patologico che non si sana attraverso l’azione spontanea delle forze di mercato”.
Egli si rendeva conto che in Italia non fossero possibili allora “… alcune forme di manovra del debito pubblico del genere di quelle seguite negli Stati Uniti e nell’Inghilterra in base alla tecnica della finanza funzionale e ai canoni della politica economica «compensatoria». Ma anche gli obiettivi più modesti di una spesa pubblica in funzione anticiclica e di interventi stimolatori molto più blandi… sembrano irraggiungibili di fronte alla visione strettamente contabile e computistica degli organi in parola, ai quali pare ben improbabile fare accogliere un giorno l’idea che possa essere utile talvolta non già far quadrare i bilanci, ma tenerli in squilibrio. Alla fine gli organi agiscono con la testa degli uomini che li dirigono…”.


5.1. E ricordando con “sgomento” le citate parole di Balducci, Caffè proseguiva:
“…Quando si aggiunge che, parlando di spese di istruzione, egli precisa che intende riferirsiaddirittura ai maestri elementari, si può comprendere quale irrimediabile sconforto debba arrecare la consapevolezza che idee simili prevalgano in organi pubblici in posizione strategica agli effetti della manovra della politica economica…  
CHE SENSIBILITÀ DI FRONTE AI PROBLEMI DELLA DISOCCUPAZIONE potrà avere chi ritiene eccessiva la spesa per l’istruzione o per i servizi sociali in Italia? 

Non si tratta di necessaria impopolarità che qualcuno deve anche assumersi. Si può essere impopolari dicendo che certe spese non debbono essere fatte, ma si può esserlo dicendo, invece, che devono essere trovati i mezzi per poter sostenere le spese stesse, ad esempio con una tassazione più incisiva o più perequata.
Nella preferenza accordata a una alternativa anziché all’altra vi è già un concetto di scelta che implica preoccupazioni per certi interessi di gruppo anziché per altri … Alla deflazione pretesa «risanatrice», non meno che all’inflazione, SONO LEGATI INTERESSI PARTICOLARI CHE SI AVVANTAGGIANO DELLA SITUAZIONE CHE NE RISULTA, A DANNO DELLA PARTE PIÙ ESTESA DELLA COLLETTIVITÀ…” [F. CAFFE’, Il mito della deflazione, Cronache sociali, n. 13, 15 luglio 1949].
Quindi, tenetelo a mente: “bisogna avere il coraggio di scendere dal livello di civiltà” in cui eravamo, altro che concorsone con l€uro ed il fiscal compact..."

5.2. Sulla tomba dell'Italia, nella prospettiva dell'imminente decesso voluto (a grandi intese) per la prossima legislatura, scriveranno il seguente epitaffio (e il senso è ovviamente invertito): 
Hic man€bimus optim€

* Fonte: Orizzonte 48

CATALOGNA: PAREVA UNA TRAGEDIA, É FINITA IN FARSA

[ 31 ottobre 2017 ]

Pareva una tragedia, è finita in una farsa. Il condottiero dell’indipendentismo catalano, Puigdemont —per sfuggire al giudizio della Audencia Nacional, un tribunale speciale erede di quello franchista—, è scappato in Belgio con mezzo suo governo. E’ stato accolto dai sodali dell’Alleanza neo-fiamminga (N-va), partito ultra-liberista, secessionista ed europeista. Una vecchia amicizia quella tra Junts pel Sì, il partito di Puigdemont e N-va, visto che nel Parlamento di Strasburgo fan parte dello stesso gruppo liberista, l’Alde. Il Belgio, poi, è il Paese dove risiedono le massime autorità della Ue. Il segnale è chiaro, mentre vuole secedere da Madrid Puigdemont implora che la Catalogna sia annessa dall’Euro-Germana.

La marcia indietro dei secessionisti catalani è talmente clamorosa che hanno accettato —lasciando quindi sola la C.U.P.— di partecipare alle elezioni del 21 dicembre indette da Rajoy. Che in soldoni significa che hanno capitolato su quasi tutta la linea, di fatto accettando le clausole dell’Art. 155. E’ comprensibile che molti catalani indipendentisti che per settimane si sono mobilitati illudendosi che la secessione fosse cosa fatta, si sentano smarriti, altri traditi.

Alla fine della fiera, chi più ha guadagnato dalla politica squinternata di Puigdemont, è il fronte spagnolista, con in testa il Partito popolare di Rajoy, erede diretto del regime franchista. Questo, almeno, confermano i sondaggi pubblicati questa mattina a Madrid, mentre annaspano le forze d’opposizione, anzitutto Podemos e Izquierda Unida.

Podemos in particolare ha subito un forte contraccolpo dalla vicenda catalana. E’ notizia di ieri sera che l’ala catalana di Podemos (Podem), schierata su posizioni indipendentiste, ha abbandonato il movimento guidato da Pablo Iglesias.

Non si pensi ad una scissione su linee etno-linguistiche o nazionalitarie.

Il problema per Iglesias è più serio, si chiama Izquierda Anticapitalista, la corrente dei trotskysti che fa entrismo in Podemos. Il fatto è che l’ala catalana di Podemos è appunto capeggiata dai trotskysti, convinti assertori della secessione catalana, vicini alla C.U.P e decisi a presentarsi alle prossime elezioni in un blocco elettorale con i seguaci di Puigdemont.
Ada Colau e Pablo Inglesias


La direzione di Podemos è di diverso avviso: nessuna coalizione con gli indipendentisti in vista delle prossime elezioni di dicembre, alleanza invece con Catalunya en Comù della sindaca di Barcellona Ad Colau, la quale, ricordiamo, si oppose alla dichiarazione unilaterale d’indipendenza.

Ma la questione catalana spacca anche gli stessi trotskysti. La loro principale dirigente, l’andalusa Teresa Rodriguez, assieme al popolare sindaco di Cadice Josè Maria Gonzales, sostengono la posizione di Pablo Inglesias e hanno condannato quella della loro corrente.
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Insomma, l'avventurismo secessionista di Puigdemont, mentre ha portato alla fine della stessa autonomia catalana, ha rafforzato le destre spagnoliste, causando gravi fratture nei parti della sinistra popolare.

Niente male Puigdemont! Invece di un mandato di cattura Rajoy dovrebbe darti un premio.

lunedì 30 ottobre 2017

BREXIT (ONE YEAR LATER) di Alberto Bagnai

[ 31 ottobre 2017]

(...Marta: "Professore, ma che significa in agenda verificare il tweet di Myrta Merlino?" Io: "Questo...")








CONCLUSIONI

Di conclusioni ne possiamo trarre almeno tre. La prima, è che la dottoressa Merlino è una persona molto sensibile, il che la porta a preoccuparsi molto, qualche volta forse troppo, dell'altrui sorte. La seconda è che Gianni Chiodi è una persona saggia. La terza è che, che tu sia Hollande o Tsipras, che tu sia Monti o Macron, se la dottoressa Merlino te la tira, devi preoccuparti molto meno di quando te la tiro io (nei quattro grafici precedenti il puntino rosso indica la data in cui la dottoressa Merlino emise la sua infausta profezia: ricorre oggi giusto un anno...).

(...peraltro, vedo che qui, come altrove, sfugge che nell'abbandono dell'Eurozona, o dell'Unione Europea, quello economico è l'ultimo dei problemi e l'ultima delle motivazioni. I problemi sono democrazia e libertà: la necessità di abbandonare un sistema incarnazione di un nazionalismo malato perché privo per costruzione di tutti gli elementi positivi - il senso di identità e di solidarietà, la visione comune - e infestato da quelli negativi - la volontà di potenza (sconfiggere la Cina), la tensione totalitaria e repressiva; il sottrarsi a una caricatura di sistema politico nazionale pesantemente viziata da una costante, sistematica violazione del principio della separazione dei poteri, vulnerabile all'azione delle lobby, infiltrato dagli emissari di potenze a noi ostili. Poi, se volete, possiamo anche parlare di macroeconomia, e allora vedrete che a distanza di un anno il disastro ancora non c'è... e quando ci sarà, nel Regno Unito, è abbastanza probabile che intorno non sarà rimasto nessuno per goderne!...)


da Goofynomics

ETRURIA RIBELLE E SOVRANA di Luca Massimo Climati

[ 30 0ttobre 2017]

Sabato scorso, a Cerveteri (Lazio), vincendo il boicottaggio dei piddini locali, si è svolta una importante manifestazione di popolo. Volentieri pubblichiamo la notizia.

«Sul territorio cerite e braccianese incombe costante la minaccia della riapertura dell'ecomostro di Cupinoro, chiuso dal 2014, una montagna di rifiuti alta circa ottanta metri dal livello originario.

Ora col profitto sui rifiuti vorrebbe creare una impiantistica TMB ed una biogas, con la scusa della emergenza costante romana. La regione Lazio rimpalla un serio piano dall'amministrazione all'altra, con un occhio agli interessi ed alla vulgata liberista nazionale al governo ed uno alla determinazione di cittadini
Noi come Comitati Uniti facciamo da sei anni, riusciamo a resistere ad una forza di interessi e politica subalterna, Davide contro Golia. I Comitati Uniti, che si sono mossi anche contro il TTIP, fanno della difesa territoriale "indipendente politicamente" il proprio cavallo di battaglia vincente, distinguendosi dai comitati addomesticati e subalterni alle maggioranze esistenti. Questo ci procura credibilità riconosciuta e diffusa, ma anche tanti nemici, specialmente tra i "sinistrati" e quella rete di piccoli interessi locali, anche a danno dei precari pubblici erari, per inutili eventi, che noi coraggiosamente non approviamo.

Questa indipendenza e "indole sovranista popolare" (alcuni di noi dettero vita alla lotta del NO al referendum del 4 dicembre scorso, per poi fondare Cerveteri Libera!), è stata causa di un tentativo di accerchiamento-annientamento sottile e manifesto, che abbiamo sconfitto e superato con l'ultima manifestazione del 28 ottobre scorso.


In 250, cittadini ed amministratori e sindaci, abbiamo ribadito il NO "preventivo" a future manovre speculative con Cupinoro, non fidandoci delle rassicurazoni interlocutorie dell'attuale giunta regionale Zingaretti (PD).

Una manifestazione resistente e ampiamente in avanguardia davanti al rischio oggettivo: ma partire anticipati vuole dire prepararsi ed attrezzarsi al peggio in modo costruttivo. 
Il nostro lungo lavoro e la lotta di sei anni, ha determinato la posizione compatta dei sindaci del comprensorio, rappresentante oltre 200mila abitanti (Ladispoli-Cerveteri-Bracciano-Anguillara-Santa Marinella e Manziana ). I risultati, per venire, hanno bisogno di tempo.
Abbiamo in questa ultima occasione pagato il boicottaggio, riuscito solo parzialmente, delle componenti compromesse e di tante primedonne (problema nazionale e della fase storica) e protagonismi isolati, ma avevamo una nutrita rappresentanza istituzionale, impensabile solo pochi anni fa. 

Preferiamo avere solide basi per un nuovo rilancio popolare e radicato e di partecipazione, non contare sulla testimonianza ambigua di certi ambientalisti. Bisogna dire con chiarezza che il pareggio in bilancio e le politiche euriste-liberiste affogano le amministrazioni comunali e subordinano l'agricoltura alle logiche multinazionali; bisogna rendere popolare tale ragionamento incisivo.

Per questo, l'atto più sentito e punto di nuovo inizio è stato il Giuramento degli Etruschi fieri.

Ci siamo impegnati a difendere ed amare e sviluppare il nostro territorio, in un percorso di liberazione per la nostra Italia... Ribelle...e Sovrana.

per i Comitati Uniti
il portavoce Luca Massimo Climati

LO STATO COME DATORE DI LAVORO di Guglielmo Forges Davanzati

[ 30 ottobre 2017 ]

Di fronte al fallimento conclamato delle misure di austerità e precarizzazione del lavoro nel fronteggiare la crisi economica, occorre una decisiva inversione di rotta. A partire da un radicale ripensamento del ruolo che lo Stato può esercitare nella creazione di posti di lavoro.


Il combinato di misure di consolidamento fiscale e precarizzazione del lavoro, secondo la Commissione europea e i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni, dovrebbe garantire la ripresa della crescita economica attraverso l’aumento delle esportazioni. Il consolidamento fiscale viene perseguito con l’obiettivo dichiarato di ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, mentre la precarizzazione del lavoro viene attuata con l’obiettivo dichiarato di accrescere l’occupazione. Le due misure – ci si aspetta – dovrebbero inoltre migliorare il saldo delle partite correnti, mediante maggiore competitività delle esportazioni italiane.

Si ipotizza, cioè, che la moderazione salariale, derivante da minore spesa pubblica e maggiore precarietà del lavoro, riducendo i costi di produzione, ponga le imprese italiane nella condizione di essere più competitive (ovvero di poter vendere a prezzi più bassi) nei mercati internazionali. Anche le misure di defiscalizzazione rientrano in questa logica, dal momento che ci si attende che minori tasse sui profitti implichino minori costi per le imprese e, dunque, maggiore competitività nei mercati internazionali. 

Si tratta di un’impostazione che si è rivelata del tutto fallimentare e che, a meno di non pensare che dia i suoi risultati nel lunghissimo periodo, andrebbe completamente ribaltata. Le basi teoriche sulle quali poggiano queste politiche sono estremamente fragili, per i seguenti motivi.

1) Le politiche di austerità, soprattutto se attuate in fasi recessive, determinano un aumento, non una riduzione, del rapporto debito pubblico/Pil, che è infatti costantemente aumentato (dal 120% del 2010 al 133% del 2016). Ciò a ragione del fatto che la riduzione della spesa pubblica riduce il tasso di crescita, riducendo il denominatore di quel rapporto più di quanto ne riduca il numeratore. Questo effetto è tanto maggiore quanto maggiore è il valore del moltiplicatore fiscale. Stando alla quantificazione degli effetti moltiplicativi del Fondo Monetario Internazionale, il consolidamento fiscale è prima ancora che un errore di politica economica un errore propriamente un errore tecnico, basato su una stima sbagliata degli effetti moltiplicativi di variazioni della spesa pubblica.
  
2) Le politiche di precarizzazione del lavoro non accrescono l’occupazione, anzi tendono a generare aumenti del tasso di disoccupazione. Ciò fondamentalmente per due ragioni. In primo luogo, la precarizzazione del lavoro accrescere l’incertezza dei lavoratori in ordine al rinnovo del contratto e, dunque, incentiva risparmi precauzionali deprimendo consumi e domanda interna. In secondo luogo, la precarizzazione del lavoro, in quanto consente alle imprese di recuperare competitività attraverso misure di moderazione salariale, disincentiva le innovazioni, dunque il tasso di crescita della produttività del lavoro e, per conseguenza, dell’occupazione. 


3) La detassazione degli utili d’impresa non ha effetti significativi sugli investimenti, dal momento che questi dipendono fondamentalmente dalle aspettative imprenditoriali, le quali, a loro volta, sono fortemente condizionate dalle aspettative di crescita (e dunque, da ciò che ci si attende di poter vendere). Manovre fiscali restrittive, comprimendo i mercati di sbocco interni (quelli rilevanti per la gran parte delle imprese italiane), possono semmai peggiorare le aspettative e, dunque, generare riduzione degli investimenti. Peraltro, la detassazione degli utili d’impresa – in una condizione nella quale occorre generare avanzi primari – implica aumenti di tassazione sui redditi dei lavoratori, ovvero sui redditi di quei soggetti che esprimono la più alta propensione al consumo. Anche per questa ragione, detassare le imprese significa ridurne i mercati di sbocco, almeno quelli interni, con conseguente riduzione dei profitti e aumento delle insolvenze. 

4) La moderazione salariale non accresce le esportazioni. L’ultimo Rapporto ISTAT certifica che il saldo delle partite correnti italiano è migliorato solo perché si sono ridotte le importazioni, a seguito della caduta della domanda interna, e che l’economia italiana è, ad oggi, una delle meno internazionalizzate fra le economie europee. Si registra anche che nonostante un seppur leggero aumento dei margini di profitto delle nostre imprese a partire dal 2015, verosimilmente imputabile alle misure di detassazione degli utili, gli investimenti privati continuano a essere in costante riduzione.

Si tratta, peraltro, di politiche attuate ormai da quasi un decennio, sempre con risultati fallimentari. Il fondamentale errore degli ultimi Governi sta appunto nell’aver usato le (poche) risorse disponibili nel peggiore dei modi possibili: decontribuzioni alle imprese e trasferimenti monetari alle famiglie. Misure che non impattano né sugli investimenti privati né sui consumi. Ma che, verosimilmente, e in una logica di brevissimo periodo, accrescono il consenso, salvo poi tornare al punto di partenza ma con meno risorse. 

Occorrerebbe, per contro, una radicale correzione di rotta, a partire da un radicale ripensamento del ruolo che lo Stato può esercitare nella creazione di posti di lavoro. Un numero rilevante e crescente di studi mostra come lo Stato possa svolgere la funzione di datore di lavoro di ultima istanza (Employer of Last Resort - ELR) senza generare significativi effetti collaterali, in particolare senza attivare pressioni inflazionistiche – peraltro, in una fase di deflazione, semmai desiderabili. 
Ovviamente, affinché questa proposta possa avere senso occorre che, sul piano politico, i lavoratori acquisiscano un potere contrattuale sufficiente da spingere il Governo all’attuazione di una politica per il pieno impiego, e il suo mantenimento, finanziata attraverso un consistente aumento dell’imposizione fiscale sui redditi più alti. In altri termini, la proposta è realizzabile a condizione di non assumere la congettura di Kalecki[1], ovvero che:  

“Il mantenimento del pieno impiego causerebbe cambiamenti sociali e politici che darebbero un nuovo impulso all’opposizione degli uomini d’affari. Certamente, in un regime di permanente pieno impiego, il licenziamento cesserebbe di giocare il suo ruolo come strumento di disciplina [disciplinary measure]. La posizione sociale del capo sarebbe minata e la fiducia in se stessa e la coscienza di classe della classe operaia aumenterebbero. Scioperi per ottenere incrementi salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro creerebbero tensioni politiche. E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego di quanto sono in media in una condizione di laisser-faire; e anche l’incremento dei salari risultante da un più forte potere contrattuale dei lavoratori è più probabile che incrementi i prezzi anziché ridurre i profitti, e danneggi così solo gli interessi dei rentier. Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più apprezzate dagli uomini d’affari dei profitti. Il loro istinto di classe gli dice che un durevole pieno impiego non è sano dal loro punto di vista e che la disoccupazione è una parte integrante di un normale sistema capitalista”. 

giacché, se la questione del pieno impiego si pone in questi termini, non vi è spazio – in un’economia capitalistica – per misure che vadano in quella direzione.  

Va innanzitutto ricordato che, contrariamente alla vulgata mediatica, l’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa. L’ultima rilevazione OCSE ci informa che, mentre nel nostro Paese la pubblica amministrazione assorbe circa 3.400 lavoratori, in Francia e nel Regno Unito, Paesi con una popolazione e un Pil pro-capite di entità simile alla nostra, se ne contano rispettivamente 6.200 e 5800. Negli Stati Uniti – Paese tradizionalmente guardato come una vera economia di mercato – il numero di dipendenti pubblici è di circa il 25% superiore al nostro. Si può aggiungere che, in Italia, l’occupazione nel settore pubblico riguarda prevalentemente individui con elevata scolarizzazione. 

Si può anche rilevare che una condizione di piena occupazione favorisce la crescita della produttività del lavoro. Ciò a ragione del fatto che le imprese non sono messe nella condizione di competere comprimendo i salari e sono, per contro, ‘forzate’ a competere innovando. In tal senso, lo schema ELR potrebbe essere anche – e forse più utilmente – pensato per generare crescita economica anche dal lato dell’offerta, non solo quindi come programma finalizzato al pieno impiego. A ciò si può aggiungere che, seguendo la linea teorica dei proponenti lo schema ELR, la spesa pubblica è complementare alla spesa privata per investimenti, dal momento che l’aumento della spesa pubblica accresce i mercati di sbocco e rende conveniente l’attuazione di nuovi flussi di investimenti privati [2]. 

Conseguentemente, uno schema ELR potrebbe agire positivamente sul tasso di crescita della produttività del lavoro, sia per l’aumento degli investimenti pubblici che farebbe seguito a un aumento della spesa pubblica, sia a seguito del contenimento di fenomeni di obsolescenza intellettuale che si determinerebbero nel caso alternativo di disoccupazione, a maggior ragione se di lungo periodo. Un ulteriore vantaggio derivante dall’attuazione di uno schema ELR conseguirebbe dal fatto che, in condizioni di piena occupazione, sarebbe estremamente difficile reclutare lavoratori nell’economia sommersa o, ancor più, nell’economia criminale. Questo argomento è particolarmente rilevante nel caso italiano, e ancor più meridionale, dal momento che la presenza del lavoro nero e dell’attività criminale è molto più diffusa rispetto agli altri Paesi dell’eurozona. 

In più, come mostrato in particolare da Massimo Florio, lo schema ELR potrebbe utilmente ribaltare la linea di policy seguita in Italia – con la massima intensità fra i Paesi dell’Eurozona – finalizzata ad accentuare le privatizzazioni. Le privatizzazioni, come mostra un’inequivocabile evidenza empirica, generano effetti redistributivi soprattutto a ragione dell’aumento delle tariffe – e della conseguente caduta dei salari reali – e dell’eccezionale aumento degli stipendi dei manager nel passaggio dalla proprietà pubblica alla proprietà privata. Generano anche minore crescita dal momento che, in moltissimi casi, Italia non esclusa, le imprese privatizzate sono imprese orientate alla speculazione finanziaria che, come da più parti documentato, è un rilevante freno agli investimenti reali. 

Le inefficienze del settore pubblico, come gli sprechi nel settore privato, sono ovunque. La retorica del dipendente pubblico fannullone resta tale, fa danni al Paese, impedisce un dibattito aperto su come l’intervento pubblico in economia può contribuire alla crescita economica e all’aumento dell’occupazione, soprattutto giovanile e soprattutto di alta qualità. Nel confronto internazionale, l’Italia è uno dei paesi caratterizzati dai più bassi livelli di assenza per malattia, ma con minore incidenza nel settore pubblico. La bassa efficienza del settore pubblico italiano non sembra essere quindi dovuta alla scarsa motivazione al lavoro dei suoi dipendenti, ma piuttosto alla bassissima dotazione di capitale che ne caratterizza i processi di produzione di beni e servizi. 


NOTE

[1] KALECKI, M. (1943). Political aspects of full employment, “Political Quarterly” 14(4), pp.322-330.

[2] Se si accoglie l’ipotesi per la quale la spesa pubblica agisce da àncora agli investimenti privati, l’aumento della spesa pubblica – in quanto accresce i fondi interni delle imprese e, dunque, il loro potere contrattuale nei confronti delle banche, tende ad associarsi a una riduzione del tasso di interesse, che potrebbe stimolare ulteriori investimenti privati.


* FONTE: MICROMEGA

domenica 29 ottobre 2017

ELEZIONI IN AUSTRIA: SETTE PUNTI PER CAPIRE di Wilhelm Langthaler

[ 29 0ttobre 2017]

1. La mobilitazione identitaria contro gli immigrati quale leva principale per poter garantire una maggioranza al regime neoliberale
2. Il declino del Partito Sociademocratico in quanto partito dei lavoratori è stato bloccato grazie ai voti dei Verdi
3. Un FPÖ moderato come appendice (quasi) dell’ÖVP
4. Il fenomeno Kurz come bolla mediatica
5. Il sistema politico resta sostanzialmente stabile
6. Pilz nel ruolo di opposizione sociale?
7. I falliti: Düringer e il KPÖ

La mobilitazione sciovinista-identitaria


Lo sciovinismo contro gli immigrati poveri, i culturalmente diversi e soprattutto quelli con marcate caratteristiche esteriori è diventato una costante. Il fatto che parti del sistema lo usino politicamente a loro favore anche. Con queste elezioni è stato tuttavia raggiunto un nuovo livello. Da un lato, l’accoglienza in un anno di circa un 1% di rifugiati (in rapporto alla popolazione totale) ha rappresentato un cambiamento effettivo del regime migratorio a lungo termine. Dall’altro, l’ÖVP (Partito Popolare Austriaco, ndr), e fino ad un certo punto anche Pilz, hanno preso parte alla campagna sciovinista identitaria, fatto che fino ad ora era riservato essenzialmente all’FPÖ (Partito della Libertà Austriaco, ndr).

Questo cambiamento ha portato i media di sistema, uno dei principali strumenti di potere, a muoversi sulla stessa lunghezza d’onda. In precedenza i media si erano auto-incensati con la cultura dell’accoglienza. Ma ecco improvvisamente sparire le immagini dei bambini siriani annegati e le notizie sulle capacità d’integrazione dell’educata classe media araba, e riapparire le immagini del vecchio nemico, il violentatore dalla pelle scura e il terrorista islamico.

Kurz ha riconosciuto in questo cambiamento la sua opportunità ed è saltato sul carro dell’FPÖ. I resti della caritas, dell’amore cristiano per il prossimo sono stati abortiti e sostituiti dall’odio identitario contro l’islam. In un certo senso è il ritorno alle radici antisemite dei Cristiano Sociali, almeno per quanto concerne la sua struttura. La classe media piagata da paure esistenziali richiede un nemico e questi sono ora i musulmani. Kurz ha reso questa posizione accettabile anche agli strati superiori della società.

Su questo tema l’SPÖ (Partito Socialdemocratico d'Austria, ndr) non ha una posizione chiara. Da un lato, la corrente della classe media viennese (erroneamente definita dai media di sinistra in quanto è disposta ad una coalizione solo con l’ÖVP e non con l’FPÖ) non è pronta cedere; dall’altro, scalpitano soprattutto quelle parti dell’SPÖ che sono vicine agli apparati repressivi e che desiderano una nuova partecipazione al governo. Preso tra queste due posizioni l’SPÖ era come paralizzato. Ha cercato vergognosamente di mantenere le misure sociali per assicurare l’immigrazione, pur senza difenderla in modo attivo. E molte volte ha ceduto, come sulla legge che ridefinisce per l’Islam le regole per l’esercizio del diritto di professione religiosa, il divieto di indossare una copertura totale del viso (legge nota come “legge anti-Burka”) o l’appello in favore di uno stato di polizia contro una presunta minaccia rappresentata dai migranti.

Il cuore del problema, cioè il fatto che il regime del libero mercato lascia il movimento dei fattori produttivi unicamente in mano al mercato (cioè ai proprietari), non è stato ovviamente affrontato da nessuno. Una posizione d’opposizione può solo essere quella di richiedere la fine del libero mercato e della globalizzazione. Di ridare al sud globale le sue possibilità di sviluppo. Di regolare l’economia attraverso lo stato nell’interesse della maggioranza. Ciò vuol dire anche limitare la migrazione economica in modo da impedire che i salari scendano ancora. Contemporaneamente è però anche necessario adottare misure per far risalire socialmente coloro che già si trovano qui e consentirne l’integrazione nell’opposizione socio-democratica attraverso l’autodeterminazione culturale.

Il collasso dell’SPÖ è stato evitato?

Molti pensavano che l’SPÖ, seguendo il trend europeo, avrebbe subito un sostanziale collasso. Considerando che la sua clientela storica è tra quelle maggiormente colpite dalla contro riforma in atto, sarebbe anche stato logico. La dismissione graduale del compromesso sociale viene moderato e amministrato dall’SPÖ. Ciò ovviamente logora la base.

Ed effettivamente l’SPÖ ha perso consensi nei distretti operai. Secondo il giornale Der Standard, l’FPÖ ha tra i lavoratori una maggioranza assoluta ed è passata da un terzo dei voti dell’ultima volta ai due terzi attuali. Tuttavia, l’SPÖ ha potuto compensare tale perdita cannibalizzando i voti dei Verdi della classe media liberale cittadina. Nelle fortezze radical chic viennesi ha addirittura registrato una crescita a due cifre.

La classe media cittadina è affetta da un’incontrollabile paura socio-culturale nei confronti di un governo Nero-Blu [ÖVP-FPÖ]. Essa è convinta che soltanto l’SPÖ possa porre un freno all’ascesa dei Blu. Si tratta di un’illusione della classe media, un’illusione dai tratti reazionari in quanto lega l’SPÖ ad una grande coalizione con l’ÖVP. Questa posizione, che di fatto rappresenta la sola moderazione della controriforma, è tra l’altro proprio il motivo che ha permesso all’FPÖ di ottenere l’aggancio con gli strati subalterni della popolazione.

In base a queste considerazioni è da temere che l’SPÖ non sia né pronto né capace di svolgere un ruolo di opposizione, così come non lo fu un decennio fa sotto il precedente governo Nero-Blu. Se Kurz e Strache, contrariamente a quanto preannunciato, lasceranno intatti i benefici del partenariato sociale dell’apparato dell’SPÖ e continueranno con uno smantellamento lento, non ci sarà alcuna resistenza sociale. Non è tuttavia da escludere che i Nero-Blu nell’euforia della vittoria decidano di ignorare la consolidata prassi politica austriaca e di aggredire l’apparato dell’SPÖ ed è possibile che questo provochi una certa resistenza. Non è tuttavia certo che l’SPÖ sappia come fronteggiare l’attacco.

L’FPÖ come apportatore di maggioranza per l’ÖVP?

Rispetto agli anni precedenti, l’FPÖ ha ammorbidito in questa campagna elettorale l’elemento sociale che aveva ripetutamente usato soprattutto a Vienna. Simbolicamente questo cambiamento è rappresentato dal rifiuto di una tassa sull’eredità. Va inoltre considerata la coalizione Nero-Blu nell’Alta Austria che governa con un programma completamente neoliberale. Tutto ciò è un chiaro segnale all’ÖVP che si è pronti a sottomettersi.

Strache deve avere tuttavia ancora in mente il disastro della prima coalizione nero-blu che portò ad una divisione e al declino dell’FPÖ. Allora, come ricompensa per aver dato la maggioranza all’ÖVP, i Blu poterono servirsi a piene mani (vedi l’affare Grasser). Stavolta Strache vuole però aumentare il prezzo politico in modo da non apparire come il burattino della Raiffeisen & Co. E il modo più semplice è sul piano della simbologia politica identitaria contro i mussulmani e i migranti. Per quanto tempo potrà andare avanti così?

A parte un certo effetto frenante le classi subalterne cittadine hanno sicuramente anche delle aspettative sociali nei confronti dell’FPÖ. In pochi anni, le aspettative deluse potrebbero portare alla perdita del sostegno plebiscitario. Strache non è Grasser né Riess-Passer. Egli s’inventerà una qualche bolla di sapone in modo da distanziarsi da Kurz e in ultima istanza potrebbe anche tirare il freno.

Il fenomeno Kurz

Il successo elettorale di Kurz con un netto 7,5% in più è effettivamente stupefacente. Non soltanto perché da decenni l’ÖVP è partito di governo, ma anche perché ormai mostrava evidenti segni di usura. Una prima interpretazione del fenomeno Kurz è certamente l’ininterrotto potere mediatico con il quale è stato messo in scena come se si trattasse di un vento fresco di rinnovamento. Questa spiegazione non è però sufficiente.
Una seconda spiegazione è la già accennata campagna identitaria anti-islamica, che ha trovato terreno fertile nelle classi medie cittadine e soprattutto in quelle della provincia.
Terzo, Kurz non è particolarmente conservatore. Il vecchio ÖVP era per la società austriaca troppo reazionario. Anche per questo motivo è stato possibile riguadagnare consensi nelle città.
A parte questo non c’è molta nuova sostanza per il vecchio regime neoliberale. Se Kurz dovesse incontrare difficoltà o addirittura resistenza, potrebbe addirittura perdere il sostegno all’interno del proprio partito. Egli ha infatti scavalcato il tradizionale sistema dell’equilibrio di potere legato ai reciproci ricatti e ha imposto il suo dominio personale. Alcuni vorranno vendicarsi quando il tempo sarà maturo.

Stabilità

Nonostante tutte le apparenze di crisi dobbiamo tuttavia riconoscere che i risultati elettorali documentano in ultima istanza la stabilità del sistema. Non soltanto è aumentata la partecipazione elettorale, ma addirittura i due terzi dei votanti hanno sostenuto i partiti del sistema neoliberale. Se consideriamo l’FPÖ anch’esso come un partito di regime, anche se in modo indiretto, i consensi totali raggiungo oltre il 90%. Con un po’ d’indulgenza si può considerare Pilz come il salvatore dell’onore socialdemocratico. Tuttavia anche lui è un fervente sostenitore dell’Unione Europea. Di fatto da eleggere non c’era nessuna opposizione al regime.

Pilz

Pilz merita comunque uno sguardo più attento. Egli ha avuto il ruolo del secondo becchino dei Verdi. Il primo è stato l’SPÖ.

Egli aveva concepito per i verdi una via d’uscita di tipo populista di sinistra dal ghetto del benessere urbano della sinistra liberale. Questa via d’uscita aveva due componenti. Primo: richieste socialdemocratiche simili a quelle dell’SPÖ, assolutamente compatibili per lui, come anche per l’SPÖ, con l’Unione Europea. Secondo: attacchi continui a Erdogan e all’islam politico. Questo secondo aspetto raccoglie in modo raffinato, senza essere apertamente sciovinista, un effettivo malumore di base anti-islamico e antiturco. Lo sciovinismo culturale di destra ha così trovato un suo corrispettivo secolare, liberale di sinistra. Nelle città l’esperimento ha ben funzionato.

Poiché l’SPÖ e l’ambito liberale di sinistra urbano (quello che si identifica nello slogan “Contro i fascisti dell’FPÖ”) non sono capaci di fare una resistenza sociale, questo ruolo poté essere impersonato da Pilz. Non che questo possa avere un influsso significativo sugli apparati del movimento operaio istituzionalizzato o che abbia un radicamento organico negli strati sociali subalterni. Tuttavia Pilz ha buon naso nel captare gli umori popolari. Se si dovesse sviluppare una latente prontezza alla resistenza, egli potrebbe allora tentare di riempire questo vuoto. Pilz ha accesso ai media e un discreto apparato organizzativo. Non bisogna aspettarsi troppo, ma potrebbe essere più che niente.

Düringer e il KPÖ

In generale i piccoli partiti e altri vari tentativi organizzativi rappresentano un importante metro di misura della situazione politica.

La lista elettorale di Düriger, la GILT [“Meine Stimme GILT” – Il mio voto conta] è stato un interessante esperimento che è possibile definire, in senso largo, populista di sinistra. Düringer si è però rifiutato di presentare una vera alternativa politica. Il rifiuto dei partiti e della politica in generale è stato preso alla lettera e non interpretato come espressione del rifiuto dei partiti di regime tipico degli ambienti di opposizione. La lista non ha perciò presentato alcun programma politico, ma ha tenuto un atteggiamento neutrale per non spaventare potenziali elettori. Alla fine non è stato altro che un calcio in culo cabarettistico al liberismo di sinistra. Decisamente troppo poco. Con un programma politico socialdemocratico elaborato in un processo costitutivo il risultato sarebbe stato migliore, anche se Pilz gli avrebbe comunque rubato la scena.

Considerando la totale mancanza di una sinistra d’opposizione e una situazione sociale che gli stessi media hanno tematizzato e descritto come incrinata, sarebbe stato logico aspettarsi una avanzata del KPÖ (Partito Comunista d'Austria, ndr). È successo il contrario. Condividendo lo stesso tipo di ambito dei Verdi, ne ha subito lo stesso effetto frenante. Meglio sostenere l’SPÖ o Pilz per non disperdere i voti. A parte il nome, il KPÖ non si differenzia in alcun modo dal liberismo di sinistra. La sua sopravvivenza è dovuta unicamente al mantenimento del nome, una sorta di imbroglio di marca.

sabato 28 ottobre 2017

CONTRO SPECISMO, OLTRE LA METAFISICA OCCIDENTALE di Mauro Pasquinelli

[ 27 ottobre 2017 ]

«Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore, de te, Altissimo, porta significatione.

Laudato si', mi' Signore, per sora luna e le stelle, in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si', mi' Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento.

Laudato si', mi' Signore, per sor'aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si', mi' Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba».

San Francesco, Cantico delle creature

A proposito di metafisica e nichilismo

Un interrogativo metafisico si agita nella mia mente: per quale motivo l’homo sapiens non si è fatto “corrompere” dall’idea comunista, che è una traduzione secolare del millenario escatologismo cristiano-ereticale, mentre quella capitalista e suprematista ha avuto e continua ad avere facile presa su di lui nel corso dei secoli? 
Mi sovviene una risposta altrettanto metafisica: perché è stato più facile fare dell’uomo un sub animale che un soggetto libero! Una materia prima piuttosto che un ente proiettato alla realizzazione del bene comune! Ma la risposta è insoddisfacente perché non scava in profondità nel significato di essere umano e di umanismo! 

Il primo interrogativo rimanda quindi ad un altro che ha attraversato la storia del pensiero occidentale: cosa si intende per natura umana e per essenza umana? La scienza ci può fornire una risposta sull’essenza dell’uomo? Io credo di no perché la scienza è logica  e fenomenologica ma non assiologica. Essa non si interroga sui concetti di bene, di giustizia, di libertà, sul fine delle azioni umane, ma solo sulla costituzione fisica e biologica dell’uomo che non ci descrive però la sua apertura al possibile, la sua capacità di dare forma all’esistente.  
Scrive Heidegger “la pietra è senza mondo, l’animale è povero di mondo, l’uomo è formatore di mondo”. 
Quindi bisogna ricorrere alla filosofia che è interrogazione sul senso dell’essere e va al di là dei limiti fenomenologici della scienza e dello scientismo, pilastri costitutivi del post-moderno. Oggi in piena era scientista-nichilista non ci si interroga più sul perché e sul senso dell’essere al mondo ma al massimo su come siamo costituiti e su come bisogna essere per conformarsi al pensiero e agli stili di vita dominanti. La filosofia è morta viva la filosofia!

Pensiero filosofico e natura umana 

Per chiarire il modo in cui la filosofia ha approcciato al concetto di natura umana facciamo un breve excursus.

Aristotele ci da una prima risposta: l’uomo è un politikon zoon, un animale politico razionale. Sottolineo animale perché dopo Aristotele si è fatto di tutto per dissimulare la natura animale dell’uomo. 

Per la religione giudaico cristiana, che ha dato forma e sostanza alla cultura occidentale,  l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio per esercitare il suo dominio incontrastato su tutte le cose e gli animali.  Solo l’uomo ha una anima, solo lui  beneficia della resurrezione e della vita eterna mentre tutti gli animali sono condannati alla decomposizione.

Per Cartesio, il capostipite del pensiero moderno, solo l’uomo ha la prerogativa della res cogitans ed è in virtu di essa che può esercitare una sovranità illimitata sulla res extensa (animali e natura).  L’animale per Cartesio è assimilabile ad un oggetto meccanico senza coscienza e senza sensibilità. Di lui l’uomo può fare ciò che vuole. L’uomo si farà padrone della natura attraverso la scienza.

Per Hobbes l’uomo è lupo dell’altro uomo, homo homini lupus, figuriamoci se non lo sia per gli animali e la natura.

Marx a sua volta, ripercorrendo le orme di Hegel, non riesce a smarcarsi dalle illusioni dell’umano-centrismo. E’ vero, egli ci dice  che l’uomo è un animale che fabbrica strumenti, ma la sua essenza va ricercata nella sua  capacità di trasformare la natura, che dipende a sua volta dai mutevoli rapporti sociali, espressione di un determinato stadio di sviluppo delle forze produttive.   L’uomo incarna una differenza ontologica con l’animale ma la sua essenza non è mai stabilmente determinata e va colta nel suo divenire.  L’essenza dell’uomo si concilierà con la sua esistenza solo nel comunismo.   
Per Nietzsche, plagiatore di Schopenauer, l’essenza dell’uomo è vita intesa come volontà, che mira ad accrescere la propria potenza, che a sua volta si traduce in volontà di dominio e di calcolo. Nietzsche è la massima espressione della metafisica occidentale come dominio dell’ente uomo  sull’ente natura. 

Heidegger invece ha lanciato i suoi strali contro tutto il pensiero occidentale, apostrofandolo come metafisico in quanto ha obliato l’essere confondendolo con l’ente (uomo e natura). Riposizionando l’essere al centro, senza mai definirlo compiutamente, ha tuttavia relegato l’ente uomo-natura in posizione subordinata. Alla fine anche Heidegger come Nietzsche non è fuoriuscito dal recinto del paradigma  dominante.

Un primo bilancio

Quindi un primo bilancio analitico possiamo tirarlo: la teologia, come pure la filosofia occidentale, è sorretta da un assioma: l’antropocentrismo, che è l’atmosfera cognitiva, il campo visivo di tutto il pensiero occidentale di cui esso non è stato capace di scoprire il limite. La metafisica occidentale è immersa nel campo visivo dell’antropocentrismo e non riesce a guardare se stessa e oltre se stessa.  Ma la metafisica è servita a fondare una etica, l'etica superomista occidentale.  Che a sua volta ha giustificato l’abuso dell’uomo contro la natura e gli animali presentandolo come  uso, come diritto, conferitogli da un volontà divina o dalla ragione! Quando invece è solo un privilegio immorale!!!

La scienza di Galileo, l’evoluzionismo di Darwin e la psicoanalisi di Freud hanno inflitto un duro colpo alla metafisica umanista. Il primo ha destituito la terra dal centro dell’universo, infrangendo il geocentrismo si cui poggiava l’antropocentrismo.  Il secondo ha sottratto l’uomo  dalla creazione della mano divina, il terzo infine ha dimostrato che nessuno è padrone a casa del proprio io la cui condotta è pilotata più dall’inconscio che dalla ragione. Si tratta ora di dargli il colpo finale demolendo lo specismo che è l’ultima bandiera dell’antropocentrismo e della metafisica!!

Nel pianeta terra per usare le parole di Edgar Morin:
«Le interazioni fra i vegetali, gli animali, il clima, la geografia, la geologia creano un’organizzazione spontanea autoregolata. L’insieme degli ecosistemi sul nostro pianeta costituisce ciò che chiamiamo biosfera. Biosfera che ci avvolge e che noi abbiamo creduto di poter dominare e manipolare. Ma più la dominiamo più la degradiamo e più degradiamo le nostre condizioni di vita. In questa relazione, più crediamo di possedere la natura, più siamo posseduti da una forza che ci conduce al punto estremo: l’autodistruzione». Edgar Morin, Sette lezioni sul pensiero globale. Pag 9. Cortina editore
A questa logica autodistruttiva incoraggiata dalla metafisica non è sfuggito né il sistema capitalista né quello del socialismo reale. I due sistemi, entrambi guidati dal mito progressista ed industrialista e da una idea unidirezionale della storia, hanno simboleggiato due facce della stessa medaglia crescitista, due varianti della realizzazione dell’utopia tecno-scientista, a spese dell’uomo e della natura.

Nichilismo comunismo e nuova speciazione

Dopo questo pellegrinaggio filosofico tento una risposta all’interrogativo di partenza. L’antropocentrismo come compiuto umanismo, non poteva preludere al comunismo che per sua essenza è superamento del rapporto di predazione, è realizzazione del bene sociale nella casa comune di madre terra.  
Il comunismo, professando l’uguaglianza tra gli uomini, doveva purificarsi da ogni specismo ed antropocentrismo ed accogliere finalmente l’idea che il pianeta terra è un unico immenso essere vivente dove noi non siamo i sovrani dispotici ma degli abitatori in condominio paritario con tutte le altre forme di vita. Gaia è un organismo vivente di cui noi non possiamo continuarci a pensare come cervello che divora i propri organi ma come cellule che sopravvivono se il tutto si mantiene in salute ed armonia. L’uomo non sarà mai libero finché tiene in schiavitù la natura e gli animali.

L’antropocentrismo poteva concludere la sua traiettoria evolutiva solo nel capitalismo e questo a sua volta nel nichilismo che ne rappresenta l'epifania terminale. Nichilismo, scriveva Nietzsche, è assenza di un perché e di uno scopo dell’esserci.  Un sistema che ha messo il denaro al posto di comando, detronizzando Dio, chiede all’uomo solo di eseguire con efficienza le proprie mansioni senza interrogarsi sulla responsabilità sociale, sul  perché e sullo scopo di quello che fa.  Agli operai che fabbricano bombe, ai piloti che guidano i cacciabombardieri o ai macellai che massacrano animali in serie, come ai capò di Auschwitz, non si chiede di essere responsabili dell’effetto finale del loro lavoro ma di essere solo efficienti. La tecnica non ha scopi, chiede solo la perfetta esecuzione dei compiti nel minor tempo possibile. E chi lavora è giudicato solo se valorizza il capitale non se quello che produce è nocivo o dannoso per la società, come invece richiesto dall'etica aristotelica del bene comune o dalla morale cristiana dell’intenzione o dalla teleologia umana comunista.

La grande epoca della metafisica che io faccio coincidere con la storia dell’antropocentrismo non poteva che concludersi con l’esaltazione nichilistica e superominica della volontà di potenza dell’umanoide il quale, deponendo tutti i valori e assegnando a quello dell’efficentismo tecnologico il trono supremo, giunge alla fine ad identificarsi con la brutalità nuda e cruda del calcolo economico, che fa dell’homo sapiens un demens,  un oltre-uomo abbrutito ed involuto ad un livello sub animale.  Oramai la realtà sta superando la fantasia distopica di Orwell e Huxley: la suprema razionalità calcolistica e gli istinti più bestiali di predazione si vanno fondendo insieme in un cyborg umanoide, metà umano e metà protesi artificiale, che non avrà più bisogno di ideali perché le armi della tecnica, unite forse al contentino di un reddito della gleba,  basteranno a sedurlo, a persuaderlo, e infine a dissuaderlo, senza bisogno del manganello e dell’olio di ricino. L’oltre-uomo cyborg è lo spettro che si aggira nel paesaggio meccanico-macchinico dell’ultimo Homo sapiens, costitutivamente incapace di
emancipazione e di autodeterminazione.

L’homo sapiens è giunto al termine della sua parabola involutiva. La natura sta suonando la campana a morto per lui e il suo sistema di rapina e di predazione. Essi si estingueranno insieme perché sia l’homo sapiens, sia il capitalismo, non potranno adattarsi ad un nuovo scenario catastrofico di sovraffollamento e di scarsità di risorse, con relativa desertificazione, siccità apocalittica e migrazioni bibliche. Sarà la sesta estinzione di massa come preannunciato da molti antropologi. Fin qui niente di male perché si estinguono decine e decine di specie animali e vegetali ogni giorno e forse quella dell’homo sapiens-demens è la più meritevole di attuarsi.

Abbiamo un filo di speranza prima della catastrofe, spes contra spem: che  le menti migliori dell’homo sapiens diano corso a un nuovo inizio, ad una nuova speciazione post-umana nelle nicchie lasciate vuote dalla distruzione. Sarà suo compito salvare il pianeta ed instaurare un nuovo rapporto con la natura basato sul superamento dello specismo, sulla fratellanza tra tutti gli organismi viventi (dall’uomo alla pietra), su una alimentazione vegetale e non specista, su una nuova etica eco-sostenibile della produzione e del consumo, sull’abbandono del mito crescitista dell’abbondanza nel paese della cuccagna, per una vita frugale. Per il bien vivir.







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