giovedì 7 dicembre 2017

IL POPULISMO SECONDO LACLAU di Michela Russo

[ 7 dicembre 2017 ]

Negli ultimi anni il populismo, vuoi come anatema lanciato dalle élite dominanti, vuoi come alibi da parte di movimenti che si pretendono antisistemici, è al centro dell'agone politico occidentale. Accade tuttavia spesso che proprio ciò viene gettato al centro dello scontro di dissolva nel chiacchiericcio e nell'indeterminato.
Si può affermare che fu il teorico marxista di origine argentina Ernesto Laclau, già negli anni '80 del secolo scorso, ad attualizzare ed a mettere la questione populista al centro del dibattito di una sinistra in crisi d'identità. 
Pensiero complesso quello di Laclau, investigato criticamente nel saggio della Russo. Lo presentiamo ai lettori ritenendolo il più serio studio sul pensiero del teorico argentino. 
Esso apparve il 6 maggio 2011 sulla rivista CONSECUTIO RERUM .

[Nella foto Ernesto Laclu e Chantale Mouffe]

L’ora solitaria dell’«ultima istanza» non suona mai,
né al primo momento né all’ultimo.
L. Althusser

Premessa

Il termine populismo, afferma Laclau, non possiede alcuna «unità referenziale proprio perché non designa un fenomeno circoscrivibile, ma una logica sociale, i cui effetti coprono una varietà di fenomeni. Il populismo è, se vogliamo dirla nel modo più semplice, un modo di costruire il politico»1. O, rovesciando i termini, il momento politico par excellence viene a coincidere, per Ernesto Laclau, con la costruzione del popolo.

Ernesto Laclau, teorico di origine argentina, è noto in Italia grazie alla recente traduzione di On Populist Reason (2005)2 e Contingency, Hegemony, Universality (2000)3, e pur tuttavia calca le scene del dibattito filosofico-politico anglosassone sin dalla seconda metà degli anni Ottanta, in particolare a partire dal volume Hegemony and Socialist Strategy (1985)4, scritto a quattro mani con Chantal Mouffe. Molte le parole spese sulla parabola intellettuale di questi due autori, in particolare per quel che riguarda la rielaborazione da loro operata della teoria gramsciana dell’egemonia nei termini di una Discourse Theory. Non intendiamo, qui, aggiungere l’ennesima parola in un dibattito che, giocato esclusivamente sul dettaglio, finirebbe nel dominio inaccessibile degli specialisti. Tantomeno intendiamo restituire una summa della produzione laclauiana. In questo spazio di riflessione dedicato al lessico della postmodernità cercheremo, per quanto possibile, di comprendere le “ragioni” di questo percorso intellettuale che, a partire dall’imprescindibile sodalizio intellettuale con Chantal Mouffe, raggiunge il suo culmine nell’analisi del concetto di populismo, al fine di affrontarne criticamente la posta in gioco, sia da un punto di vista teorico che politico.

Quella di Laclau è, infatti, una duplice ambizione. Da un lato si propone di analizzare la natura e le logiche di formazione delle identità collettive; dall’altro – e al tempo stesso – di gettare le basi per una concreta proposta politica in seno al dibattito “democratico” mondiale. Nell’intreccio di alcuni dei punti di riferimento fondamentali per il pensiero post-strutturalista – in particolare psicoanalisi lacaniana, linguistica saussuriana e marxismo prevalentemente di matrice gramsciana ed althusseriana – prende così forma l’idea di democrazia radicale e plurale.

La ragione populista articola esattamente questi due momenti. Viene data alle stampe nel 2005, nel pieno di una ben determinata congiuntura storica che interessa a tutt’oggi l’America Latina: il cosiddetto “turn to the left”, o “pink tide”. Il riferimento concreto è alla tornata di cambi presidenziali a maggioranza di centro-sinistra, in più o meno aperta rottura con il modello statunitense del “Washington Consensus”, sull’onda di ciò che è stato definito il Socialismo del Siglo XXI. In questo contesto, per molti governi sudamericani la posta in gioco è quella di avviare un riordinamento politico-economico e culturale in cui parole d’ordine come “autonomia territoriale”, “sviluppo endogeno”, “plurinazionalità”, “decolonizzazione”, “rivoluzione epistemica”, “modernizzazioni alternative” sono dirette allo smantellamento dell’ideologia neo-liberale violentemente imposta dalla “Modernità Europea” prima, dall’imperialismo statunitense poi. Senza schiacciare o relativizzare il discorso di Laclau, possiamo dire che questa sia una tra le congiunture storiche cui indirettamente La ragione populista guarda, nonostante sia pensata per un pubblico ben più vasto. Per un altro verso, essa affonda le sue “ragioni” politico-intellettuali nel solco di un dibattito di lunga data che interessa Laclau a partire dagli anni Sessanta, sin dai tempi della militanza nel Partido Socialista Argentino (PSA) e nel Partido Socialista de la Izquierda Nacional (PSIN). Ovvero la parabola marxista nella sua recezione latino americana alla luce del fallimento del comunismo internazionale e della conseguente difficoltà a fronteggiare un nuovo ordine di problemi centrati sul moltiplicarsi di movimenti sociali, su fenomeni come multiculturalismo, globalizzazione e deterritorializzazione. Negli anni Sessanta, le vicende storico-politiche del Sudamerica – l’indipendenza e la sua ricostruzione, nel quadro di politiche di “buon vicinato”, le rivoluzioni anti-imperialiste e le violente repressioni militari – trovavano eco e risonanza intellettuale già da più di un decennio nei cosiddetti Studi Postcoloniali, intenti a fornire supporto teorico e concettuale al lento e turbolento processo di emancipazione delle realtà coloniali e subalterne. Dopo la militanza giovanile, negli anni in cui Laclau affronta tra Europa e Stati Uniti la sua formazione teorica, la parabola “eurocentrica” sembra muovere verso il suo rapido declino. In un doppio movimento di presa di coscienza della realtà coloniale, l’Europa si scopre dominatrice, denunciando le proprie pretese universalistiche nel momento stesso in cui le realtà appena decolonizzate inaugurano un percorso di dura denuncia e d’emancipazione, la cui parabola teorica culmina nella rapida diffusione del post-strutturalismo e decostruzionismo francesi, coeva all’ingresso della cosiddetta French Theory nel generoso bacino del Postmoderno statunitense. Tra decostruzione, flussi nomadici e pensieri rizomatici, l’elogio del frammento assurge a strumento teorico capace di veicolare, per quegli studiosi che dal “tricontinente” raggiungono le università del “primo mondo”, le lotte di indipendenza e liberazione, di dare “voce ai senza voce”.


Sebbene Ernesto Laclau non si sia mai definito uno studioso postcoloniale o della subalternità, è in questa “congiuntura”, a cavallo tra postmodernismo e post-marxismo, e soprattutto all’ombra delle vicende politiche sudamericane, che proponiamo di “posizionare” il suo “gesto teorico”, nel tentativo di comprendere il senso e la posta in gioco dell’utilizzo di un termine tra i più controversi e dibattuti nella teoria politica, quello di populismo, di fronte al quale non possiamo dirci completamente a nostro agio.

I. I “limiti” della modernità 


Siamo sul finire degli anni Settanta quando Laclau pubblica il primo libro, Politics and Ideology in Marxist Theory. Lo strutturalismo francese e i Cultural Studies in area anglosassone già avevano preso parte al dibattito accademico occidentale da ben più di un ventennio. Due risposte teoriche apparentemente agli antipodi, ma situate nella medesima congiuntura storica: il processo mondiale di decolonizzazione e il conseguente sviluppo degli studi postcoloniali e della subalternità, a sua volta preludio della cosiddetta fine delle grandi narrazioni della modernità occidentale, di cui si scopriranno i limiti (perlopiù da un punto di vista marcatamente pluralistico, che la identifica come una narrazione tra tante), e della nascita della cosiddetta postmodernità. In entrambi i contesti, si avverte sempre più pressante la necessità di una messa in discussione del ruolo giocato dall’Occidente. In una sorta di doppio movimento di presa di coscienza, l’Occidente comincia col denunciare il proprio centramento, mentre il “resto del mondo”, nel riflesso del proprio decentramento, lotta per l’emancipazione. Un doppio processo di scoperta dei limiti della modernità che investe tanto il piano politico ed economico quanto le sue forme di “autonarrazione”. Una “decolonizzazione dell’immaginario” che trova la sua più propria formulazione nel progetto di decostruzione della filosofia occidentale, facendo tremare le grandi narrazioni universalistiche della modernità, l’“astuzia” della ragione illuministica e l’immagine positivistica del progresso, e levando di pari passo un attacco feroce al braccio tentacolare del capitalismo e all’ideologia liberale. Un processo di portata mondiale le cui lontane origini vanno ricercate da un lato, parafrasando Althusser, nella scoperta marxiana del continente storia, ossia di una struttura decentrata rispetto all’ homo Œconomicus, soggetto dei bisogni. Dall’altro lato di quella freudiana del continente inconscio, vale a dire del decentramento del soggetto umano, e del carattere periferico della coscienza. “Rivoluzione copernicana”, “scoperta” della differenza, dell’alterità, dell’eterogeneità, ma soprattutto del frammento.


In altre parole, siamo nel pieno delle premesse teoriche di ciò che verrà genericamente chiamata postmodernità. Postmodernismo, come sostiene Stuart Hall, è il nome che diamo alle molteplici dimensioni teorico critiche che, nel corso del Novecento, fan vacillare tutte le certezze del moderno5. Paradossalmente, tuttavia, gli strumenti teorici per affrontare la crisi generale dei vecchi paradigmi, non possono che provenire da quello stesso vecchio mondo che si intende demolire, ed in particolar modo dalla filosofia occidentale. Tre elementi in particolare arricchiscono la cassetta degli attrezzi della critica. Innanzitutto la diffusione del così detto “paradigma linguistico” di matrice saussuriana, per mano dello strutturalismo e del post-strutturalismo. Poi ancora, la riflessione marxista, che le nuove esigenze rimodellano al punto da renderla quasi irriconoscibile, tanto da imporre il conio del neologismo “post-marxismo” per identificare i contorni della nuova teoria. Parola chiave del discorso di Laclau e Mouffe, con Post-marxismo s’identifica tanto un processo di lettura di Marx e di riappropriazione della tradizione intellettuale da lui inaugurata, quanto il suo oltrepassamento, nella convinzione che lo sforzo di rilettura della teoria marxista alla luce delle questioni contemporanee implichi necessariamente la decostruzione delle sue categorie centrali6. Etichetta ai cui sfumati contorni non fa riferimento alcuna “corrente” specifica, il post-marxismo implica generalmente una fiducia più o meno accesa in un anch’esso generico socialismo, contrassegnato da progetti emancipatori non necessariamente rivoluzionari, dall’abbandono della concettualità di classe e di quella legata al gioco struttura/sovrastruttura, dalla critica al primato dell’economico e ad ogni residuo di ordine teleologico e “deterministico”.


Infine l’ultimo strumento teorico, dominante soprattutto in periodi più recenti, è costituito dalla concettualità psicoanalitica di matrice freudo-lacaniana, intesa quale una tra le più importanti risorse per il ri-orientamento delle teoria politica contemporanea.
È questa la post-modernità con cui Laclau entra più o meno esplicitamente in dialogo sin dagli esordi delle sue vicende intellettuali. Alla luce di questo variegato panorama, infatti, è possibile affrontare il lavoro teorico di Ernesto Laclau a partire da innumerevoli angolature. Può essere letto, per l’appunto, secondo una prospettiva post-Marxista, o post-fondazionalista7, come una Discourse Theory, oppure come una modalità di analisi teorica a cavallo tra psicoanalisi e teoria politica: ciò che è stato definito Lacanian Left8. O, infine, semplicemente intersecando, come egli fa, tutti questi piani, nell’articolazione di un’ontologia retorica. Senza paura di forzar troppo la mano, possiamo rinvenire in questa formula il tentativo di Laclau di rapportarsi alla “condizione postmoderna”, riassumendo, decostruendo e ricostruendo i tre momenti teorici sopra citati, in altrettante declinazioni strettamente intersecate, attraverso le quali il discorso postmoderno ha storicamente invaso il dibattito mondiale: Linguistic turnCultural turn e Political turn.


È proprio sull’onda del Linguistic turn che nel volume Hegemony and Socialist Strategy, Laclau e Chantal Mouffe introducono nel campo dell’analisi politica l’idea di Discourse Theory, a cavallo tra egemonia, antagonismo sociale e psicoanalisi. La Teoria del discorso si fonda sulla convinzione che esista un’analogia tra struttura linguistica in senso stretto e struttura sociale. All’ombra di Lacan possiamo dire che lo spazio sociale è strutturato come un linguaggio. O meglio, à la Saussure, come una langue. Il presupposto teorico per sostenere una simile analogia è dato dalla considerazione che ogni oggetto o azione, quindi anche ogni configurazione o pratica sociale, sia significativo (meaningful) e che tale significatività sia il prodotto di uno specifico sistema di regole, ossia dal particolare sistema di significanti in cui ogni elemento si trova articolato. Ma è proprio Saussure, sviluppando l’idea del segno come fatto sociale, a costituire un importante antecedente teorico. A partire da questa intuizione Saussure sosteneva la necessità di dare forma ad una scienza, la semiologia, in grado di studiare la vita dei segni in seno alla vita sociale, quale parte di una teoria più generale che sarebbe dovuta essere la psicologia sociale. Il problema di una “gerarchia” delle “scienze”, della necessità di individuare e differenziare una teoria generale rispetto a una molteplicità di teorie regionali, sembra essere una costante tra le “fonti” intellettuali di Laclau e Mouffe. Si ricorderà che al termine degli anni Sessanta, le Trois notes sur la théorie des discours di Althusser rappresentano proprio il primo passo di un progetto collettivo per la formulazione di una teoria generale, cui le varie teorie regionali, trattate alla stregua di unità discorsive, si sarebbero dovute rapportare. Una teoria generale del significante, per l’appunto, che, tutt’uno con la teoria generale del materialismo storico, fosse in grado di rendere conto di ogni effetto di soggettività prodotto dalle diverse teorie regionali. Secondo Althusser «Freud aveva già detto che tutto dipendeva dal linguaggio»9. Similmente, la teoria del discorso di Mouffe e Laclau sembra essere proprio la formulazione di una teoria generale che sia in grado di analizzare la costruzione e relazione di una molteplicità di differenti formazioni discorsive di natura contingente, in quanto dipendenti dalla particolare congiuntura storica. Qui, l’influenza di Saussure, Gramsci, Althusser, in parte Foucault, e, in questa fase in misura ancora ridotta, Lacan, è tanto evidente quanto difficile da districare. Ciò che di Saussure ritroviamo rielaborato nella teoria di Laclau e Mouffe è proprio la struttura della langue quale sistema di rapporti oppositivi di natura differenziale e arbitraria, vale a dire, socialmente istituiti ed immotivati dal punto di vista della necessità. Rispetto all’eterogeneità della linguistica, per Saussure la langue rappresenta un’unità articolata (gegliederte Sprache), da un lato la suddivisione della catena parlata in sillabe, dall’altro la suddivisione della catena delle significazioni in unità significative, in cui ogni elemento è costituito in negativo, per opposizione, escludendo o venendo escluso dagli elementi circostanti. Se ogni valore è una unità oppositiva e differenziale, identità e differenza non sono che l’una la controparte dell’altra. Alla stessa maniera, per Laclau e Mouffe sono da intendersi le identità sociali, relazionali e differenziali. Non esistono “positività” sul piano sociale, ma ogni identità, ogni unità è il risultato “in negativo” di una pratica articolatoria, e ogni pratica articolatoria coincide con una formazione discorsiva che costituisce ed organizza le differenti relazioni sociali. Se articolazione, specificano, è il nome di una pratica e non di una totalità data in anticipo, gli elementi che tale pratica organizza sono da considerarsi quali frammenti di una totalità organica o strutturata già sempre perduta. Questa idea di una origine già sempre differita alla derridiana maniera, è l’assunto fondamentale che consente di chiamare un simile approccio post-fondazionale. Dire che lo spazio sociale è strutturato come un linguaggio, quale delimitazione arbitraria in un continuum eterogeneo soggetta alle leggi della sincronia e della diacronia, secondo l’intuizione saussuriana, equivale a dire che esso è strutturato come un tutto. Ossia, come la possibilità della pratica articolatoria dimostra, equivale a sostenere la contingenza di ogni totalità. Allo stesso modo funziona la struttura sociale ed in essa ogni formazione discorsiva: si tratta di una chiusura temporanea, perché suscettibile di cambiamento, in tal modo il sociale non ha essenza, è una forma, un significante vuoto che ne fa la sua apertura costitutiva (openness). Similmente, sosteneva Saussure: la langue, è una forma e non una sostanza10.


Per Laclau e Mouffe diviene centrale la rielaborazione althusseriana della teoria dell’articolazione di Saussure, la quale rappresenta allo stesso tempo la chiave di volta attraverso cui poter ripensare la teoria gramsciana dell’egemonia, incorporando un nuovo elemento preso, questa volta, dalla psicoanalisi freudiana: il concetto di surdeterminazione. Laclau affronta la lettura di Althusser del concetto di articolazione sin da Politics and Ideology in Marxist Theory (1977)11, il cui capitolo conclusivo, significativamente intitolato Towards a Theory of Populism, prefigura la necessità di una teorizzazione adeguata del populismo. Nell’introduzione a questo volume Laclau scrive che il mito della caverna di Platone contiene per la prima volta nella storia una teoria dell’articolazione. Sebbene tale riferimento sembri coinvolgere un piano strettamente epistemologico, si rivela in realtà funzionale, per Laclau, alla critica di alcune questioni marxiste. La conoscenza secondo il mito della caverna appare immediatamente come un’operazione di rottura, di disarticolazione e riarticolazione degli elementi del discorso del senso comune (o, in termini “contemporanei”, del discorso ideologico) stabiliti da costumi ed opinioni. Tali elementi sono articolati, agli occhi della “ragione”, in maniera “fuorviante”, vale a dire secondo una logica di tipo connotativo evocativo, che non possiede la necessità del concetto. È necessario dunque avviare un processo di riarticolazione secondo il piano delle articolazioni “paradigmatiche”, ossia dei concetti, i cui legami, poiché razionali, si basano su di un ordine necessario. Lungi dall’abbracciare il sistema veritativo platonico, ciò che interessa a Laclau in questo contesto è proprio il potenziale di un tale gioco di rottura e riarticolazione, o riposizionamento, soprattutto quando traslato dal piano meramente epistemologico a quello della teoria sociale. Nella misura in cui la rottura è al tempo stesso creazione di un nuovo ordine, ossia la rottura muta l’“identità” stessa degli elementi in gioco, tale movimento consente, sempre più in linea con il decostruzionismo derridiano, di ripensare criticamente l’idea di differenza. Il privilegio assegnato al polo paradigmatico-razionalista che emerge dal mito platonico legittima, infatti, una trattazione della differenza (che qui appare nella forma della varietà connotativa) che attraverserà, pressoché immutata, l’intero corso della modernità europea, e che, per Laclau, è da rigettare nella sua interezza. Il mito platonico avalla, per Laclau, tutta una tradizione di pensiero che considera molteplicità e differenza in termini di variazioni accidentali o quale espressione di distinti livelli di sviluppo sullo sfondo di una medesima ed unica essenza. È lo stesso paradigma nel quale, sostiene Laclau, sarebbe rimasto incagliato il dibattito marxista dell’epoca, soprattutto in merito al “riduzionismo di classe” e alla modalità di considerare il rapporto tra “modo di produzione” e variazione storica. Se trasferiamo questo discorso sul piano dei mutamenti storico-politici in corso in quegli anni possiamo ben comprendere l’urgenza di rifiutare una trattazione della differenza, di quelle differenze messe in capo dal movimento di decolonizzazione su scala mondiale, in senso essenzialista. È sostanzialmente la critica all’argomento dello “sviluppo” o della “completezza” (in ottica teleologica o darwinista che dir si voglia) secondo il quale, sullo sfondo di un’unica e medesima natura umana o di un unico e medesimo processo storico, viene a legittimarsi la gerarchia delle fasi tra le polarità sottosviluppo-sviluppo, primitivo-civilizzato, centro-periferia etc. Per Laclau, e questo sarà il leitmotiv di tutta la sua riflessione, si tratta implicitamente di denunciare l’illusorietà di un razionalismo di tipo essenzialista e al tempo stesso di prevenire il rischio che un abbandono definitivo del “piano paradigmatico” conduca ad un proliferare relativista, appannaggio delle posizioni culturaliste più estreme ed irriflesse. L’universale contingente sarà quel concetto-ponte in grado, per Laclau, di uscire da tale impasse. Il potenziale di una “teoria dell’articolazione” è dunque duplice. Da un lato in quanto rottura “creativa” costituisce la possibilità del momento “critico” in seno alla teoria così come alla pratica sociale e al tempo stesso, ed è quanto viene sviluppato in Hegemony and Socialist Strategy a partire dalla teorizzazione saussuriana, è il solo modello in grado di rappresentare la complessità delle “causalità multiple”, in alternativa a quella causalità uni-direzionale rappresentata dal modello base-struttura. È proprio in questo senso che Laclau, in Politics and Ideology in Marxist Theory, richiama l’attenzione sulla necessità di riconsiderare l’articolazione tra “determinazione in ultima istanza”, la struttura economica, e gli elementi sovrastrutturali quali Stato, forme giuridiche, politiche ed ideologiche e, di conseguenza, alla necessità di affrontare la questione del relativismo strutturale. Per quanto qui l’occasione teorica sia offerta dal celebre dibattito apparso su New Left Review tra Poulantzas e Miliband a seguito della pubblicazione di Miliband The State in Capitalist Society (1969), è più che mai evidente che il riferimento centrale, non è tanto, o non solo, l’Althusser degli Apparati Ideologici di Stato (1970) cui esplicitamente dedica un’ampia parte, quanto più profondamente e silenziosamente, quello di Per Marx (1965). In particolare gli scritti su Contraddizione e Surdeterminazione rappresentano l’implicito riferimento teorico fondamentale attorno al quale Laclau articolerà progressivamente, fino a La ragione populista, i concetti di egemoniauniversale contingentepoint de capitonobjet petit a, metafora e metonimia, etc.


In Per Marx Althusser scrive: «l’economia determina, ma in ultima istanza (…), il corso della storia. Questo corso però, si “afferma” attraverso il mondo delle forme multiple della sovrastruttura, delle tradizioni locali»12. La surdeterminazione della struttura non dipende per Althusser da fattori accidentali o condizioni straordinarie bensì inerisce essenzialmente la struttura: «la sovrastruttura non è il puro fenomeno della struttura, ne è anche la condizione di esistenza»13. In altre parole, l’unità marxiana non è semplice, ma è già sempre un’“unità complessa” poiché la complessità, come surdeterminazione, è già sempre inscritta nella sua struttura. E «affermare che l’unità non è e non può essere, unità dell’essenza semplice (…) non è dunque (…) sacrificare l’unità sull’altare del “pluralismo”, è invece affermare (…) che l’unità di cui parla il marxismo è l’unità della complessità stessa, che il modo d’organizzarsi e di articolarsi della complessità costituisce precisamente la sua unità»14. L’“unità complessa” marxiana è da intendersi, così, anche per Althusser, sul terreno dell’articolazione delle diverse contraddizioni, ciò che in Leggere il Capitale viene indicato con il termine Gliederung (letteralmente struttura o articolazione per l’appunto): connessione organica (già gramsciana), ovvero totalità-articolata15. E non è un caso che proprio Saussure con gegliederte Sprache definiva l’unità della langue come articolazione differenziale. Parallelamente Althusser sostiene che l’articolazione di ogni formazione sociale è retta dalla grande legge della disuguaglianza, intendendo con ciò la struttura fondamentalmente ineguale del tutto complesso. La contraddizione (che in Laclau e Mouffe verrà sostituita dalla nozione di antagonismo sociale) «cessa di essere univoca (…) e quindi determinata una volta per tutte, irrigidita nella sua funzione e nella sua essenza, si rivela determinata dalla complessità strutturata che le assegna la sua funzione, cioè come – se mi si vuole passare questa parola spaventosa! – complessamente-strutturalemente-inegualitariamente-determinata…ho preferito, lo confesso, una parola più corta: surdeterminata»16. È un passaggio, questo, che contiene implicitamente la necessità di ripensare il rapporto tra ontico ed ontologico alla luce della “complessità”. Vale a dire, come sostengono Mouffe e Laclau in Hegemony and Socialist Strategy, è necessario invertire la rotta e considerare che ogni cambiamento sul piano ontico corrisponde ad un cambiamento sul piano ontologico17. Una considerazione, questa, che Laclau riformulerà nei termini di ontologia retorica, vale a dire: la logica che governa il rapporto tra i piani ontico ed ontologico è proprio la logica della surdeterminazione.


La nozione di Gliederung, così come affrontata da Althusser, aggiunge a questo contesto un elemento fondamentale. Rappresenta la premessa teorica per quella compenetrazione tra teoria dell’articolazione ed egemonia gramsciana che vediamo centrale non solo in Laclau e Mouffe ma, negli stessi anni, anche nella seconda ondata nei cosiddetti “Marxist Cultural Studies” britannici sotto l’egida di Stuart Hall. In Leggere il Capitale, Gliederung fa riferimento ad una totalità che non solo è organizzata ma anche “gerarchizzata”. In Per Marx questo punto può essere fatto corrispondere alla constatazione che «la totalità complessa possiede l’unità d’una struttura articolata a dominante»18. In altre parole: se all’interno della totalità complessa le contraddizioni si articolano in forma “gerarchica”, ciò significa che una contraddizione principale è “investita” di funzione dirigente e diventa “decisiva” (“spostamento di dominanza”), per “condensazione” o “fusione” delle diverse contraddizioni secondarie, quello che è per Althusser e per Laclau, ma già per Freud, il lavoro della metafora. L’egemonia gramsciana, ridotta alla sua formulazione più scarna, non è altro che la capacità di una determinata formazione di intervenire sul piano della “dominance”. Essa inerisce profondamente il piano strutturale, è l’espressione della grande legge della disuguaglianza che sola fa l’unità del tutto complesso. Scrive Althusser: «“i diversi elementi della sovrastruttura” agendo e reagendo gli uni sugli altri, producono un’infinità di effetti», «gli elementi della sovrastruttura hanno si una efficacia ma questa efficacia si disperde in qualche modo all’infinito, nell’infinità degli effetti»19. Ecco nuovamente la breccia nella struttura e l’openness dello spazio sociale.


Per Laclau, la teoria dell’articolazione così intesa mette definitivamente fuori gioco la questione della “determinazione in ultima istanza”, nella misura in cui i vari piani strutturali mutualmente implicati, producono “effetti” gli uni sugli altri e allo stesso tempo la rottura con la lettura riduzionista ed essenzialista delle connessioni sociali, prefigura la possibilità di un abbandono del riduzionismo di classe. Per Laclau si tratta di iniziare ad intendere i rapporti sociali non più in termini di classe ma quale articolazione di differenti formazioni sociali in rapporto antagonistico. Non è più possibile intendere le identità sociali come legate indissolubilmente ed essenzialisticamente ad un terreno privilegiato (ad esempio il modo di produzione per il marxismo, la democrazia rappresentativa per il liberalismo, o ad una particolare ideologia di classe), ma, così come lo spazio sociale, sono da intendersi quali unità “fluttuanti” soggette a rotture e riarticolazioni.
Secondo un tale ordine di idee in Politics and Ideology in Marxist Theory, Laclau manifesta la necessità di ripensare, sulla scorta degli studi althusseriani sugli AIS, anche la connessione tra fattore ideologico e pratiche sociali nei termini, che diverranno ben presto centrali, di contingenza. Laclau scrive che gli “elementi” ideologici presi isolatamente non hanno necessariamente una connotazione di classe e questa connotazione è solo il risultato dell’articolazione di quegli elementi in un discorso ideologico concreto20.


Può sembrare, oggi, quanto mai desueto riportare la questione in termini di ideologia, eppure nel nostro contesto rappresenta l’entrata in scena del paradigma culturale nel quadro degli studi generalmente detti “marxisti”, quale seconda importante “tornata” paradigmatica della postmodernità. Sin dalla fine degli anni Cinquanta, sotto l’influenza dello strutturalismo, Williams, Hoggart e Thompson, fondatori del Birmingham Centre, sostennero per circa un ventennio lo strettissimo legame tra marxismo e studi culturali. Dopo questa prima fase di “marxismo strutturale” il paradigma culturale, come processo sociale totale di natura trasformativa (“a whole way of life” nelle parole di Raymond Williams), prende il posto di quest’ideologico ormai definitivamente svincolato da una base economica, tanto quanto da una specifica connotazione politica. È proprio il processo di relativizzazione della struttura economica a consentire l’autonomizzazione dei momenti sovrastrutturali, strutture come frammenti, per cui talora si dirà che il paradigma fondamentale è quello culturale (come “processo sociale totale” e versione rabbonita dell’ideologico che recluta i soggetti), talaltra quello politico.
Consideriamo brevemente una tra le definizioni del concetto di “cultura” che maggiormente rende conto delle innumerevoli riconfigurazioni di un’eredità marxista ormai perduta nella notte dei tempi, in cui riecheggiano le formulazioni althusseriane. Nel saggio collettivo Subcultures, Cultures and Class di Clarke, Hall, Jefferson e Roberts, il termine ‘cultura’ fa riferimento a quel livello dell’esistenza sociale e materiale in cui i gruppi sociali sviluppano differenti forme o stili di vita, dando forma espressiva a quel materiale grezzo che sono le esperienze di vita sociali e materiali. Reinterpretando un passaggio de l’Ideologia tedesca in cui Marx scrive che come gli individui esprimono la propria vita così essi sono (intendendo, Marx, che ciò che essi sono coincide con la loro produzione, ossia con ciò che produconoe con il modo con cui producono), gli autori affermano che la cultura è quella pratica che oggettivizza la vita di un gruppo in una forma significante (meaningful). Ogni cultura è una forma di vita che comprende valori ed idee incarnati in istituzioni, relazioni sociali, credenze, costumi e usanze, incluse “mappe di significato” (maps of meaning), ossia tutta quella serie di modalità di comprensione ed interpretazione delle forme stesse cui l’«individuo diventa un individuo ‘sociale’». La cultura dunque, in una sorta di circolo vizioso senza fine, è anche la maniera attraverso cui le forme possono essere esperite, comprese, interpretate. «Un individuo sociale, nasce in un particolare insieme di istituzioni e relazioni e al tempo stesso in una particolare configurazione di significato, che gli consente di accedere e localizzarsi all’interno di “una cultura”. “La legge della società”e “la legge della cultura” (l’ordinamento simbolico della vita sociale) sono un’unica cosa, queste strutture – le relazioni sociali e i significati – danno forma all’andamento collettivo dei gruppi». E, ovviamente, in tale ordinamento simbolico i rapporti tra le strutture delle diverse forme, nella misura in cui differiscono in termini di relazioni produttive (potere e ricchezza) sono rapporti di tipo egemonico. In tal modo, citando ancora l’Ideologia tedesca, la classe o il gruppo che ha a sua disposizione i mezzi di produzione materiale, ha al tempo stesso il controllo sui mezzi di produzione intellettuale21.


Il ripensamento, totalmente svincolato dal terreno strettamente marxista, del rapporto base-sovrastruttura, consente in questo contesto una trattazione sistematica di transdisciplinarietà e multiculturalismo. La crisi della narrazione della modernità, delle sue rivendicazioni epiche ed universali sembra lasciare il posto ad un altro orizzonte dalle pretese universali “mondiali”: il proliferare delle narrazioni, degli ibridismi o, scrive Laclau, la guerra delle interpretazioni (war of interpretations)22. Il rischio sempre presente è l’essenzialismo “rovesciato” del relativismo, un cattivo universale come direbbe Adorno dopo Hegel, ovvero un particolare che si universalizza. Come scrive Amselle: l’«approccio postmoderno, tendenzialmente culturalista e volto alla ricerca del frammento, (…) conduce inevitabilmente a una interpretazione etnico-razziale delle categorie sociali»23. Vale a dire la rivendicazione del particolarismo delle culture trasforma la “cultura” in una seconda natura, nel senso di una identità pura e inalterabile, e la “natura” in una cultura (come i miti indigenisti, l’originarietà dei popoli e delle “forme di vita” locali, etc.), la critica ad un paradigma universalista costituisce il rifugio in un altro universalismo monolitico: l’universalismo del particolare. Prendendo le distanze da entrambe le posizioni, quella fondazionalista (o universalista che sempre comporta il rischio “totalitario”) e quella particolarista tipica del paradigma culturalista (il che è il rovescio della stessa medaglia) Laclau e Mouffe, attraverso la teoria del discorso come teoria dell’articolazione egemonica intendono mostrare la fallacia di una tale concezione dell’universale.


Esplicitamente in contrasto con il fondamentale descrittivismo di quegli approcci che, come quello sopra sintetizzato, identificano con il termine cultura nient’altro che l’insieme delle manifestazioni e delle forme di vita caratteristiche di un gruppo o di una classe, in Hegemony and Socialist Strategy Lacalu e Mouffe riformulano la questione dell’ideologico alla luce della teoria dell’articolazione.
L’ideologico, quando identificato con il culturale come carattere o stile di vita (lifestyle), deve essere inteso alla stregua di un processo di creazione di un immaginario comune in grado di dare forma universale, e quindi identità sociale e politica, ad una serie di credenze, idee, immagini. In altre parole l’ideologico viene ad essere una delle maniere per nominare il movimento di «creazione dell’illusione della chiusura indispensabile alla costruzione del legame sociale»24. Ideologie, stili di vita, così come ogni forma di identità, non hanno a che vedere con un’universalità data una volta per tutte, ma con una struttura contingente, storica e costruita discorsivamente, che proprio in quanto soggetta a continue trasformazioni necessita di colmare la frattura esistente tra singolarità e universalità, descrittivismo e normativismo, imponendo l’illusorietà della propria naturalezza, verità, unicità e universalità. Alla maniera post-strutturalista, e secondo una possibilità già prefigurata dalla “totalità complessa” althusseriana, Laclau e Mouffe mostrano pertanto come il sociale sia un insieme relato di “effetti di totalità” (Hegemony p.103), di pratiche di costruzione di tali “effetti di totalità” e, in quanto tale, sia un complesso relazionale aperto, una configurazione, citando Foucault, come “regolarità in dispersione”, che può significare come totalità (Hegemony, p.106). Allo stesso modo il carattere di ogni identità deve essere inteso come aperto e politicamente negoziabile, nella misura in cui risponde alla logica dell’articolazione. «Chiameremo articolazione ogni pratica che stabilisca una relazione tra elementi in modo tale che la loro identità sia modificata come risultato della pratica articolatoria. Chiameremo discorso la totalità strutturata risultante dalla pratica articolatoria»25, e formazione discorsiva l’insieme parzialmente unitario risultante dall’articolazione, per mezzo di “pratiche egemoniche”, di differenti discorsi. Criticando la distinzione foucaultiana tra pratiche discorsive e non-discorsive (Hegemony, p. 107), per Laclau e Mouffe, infatti, non vi è un “fuori dal discorso”. Identificando il “discorsivo” con la “significazione” tout court, ciò non equivale a dire, per i due autori, che non esista nulla al di fuori del discorso, ma che, per quanto le “condizioni di emergenza” di un fenomeno possano essere esterne al registro discorsivo, la “significatività”, la sua “necessità”, la sua costruzione secondo le dinamiche “soggetto-oggetto” dipende esclusivamente dall’appartenenza allo spazio delle pratiche discorsive. E tuttavia un surplus, un “resto non assimilabile”, che resiste simbolizzazione ed addomesticamento, impedisce di pensare il campo discorsivo come un sistema chiuso e centrato, impedisce la piena strutturazione della struttura. Il discorso è una struttura aperta e decentrata i cui significati sono incessantemente costruiti e negoziati. Il superamento della dicotomia ancora foucaultiana equivale, per Laclau e Mouffe, al superare la dicotomia pensiero/realtà e al tempo stesso pensare il discorso nella sua “materialità”, ossia nel suo essere incarnato in istituzioni, rituali, “apparati” così come avevano già notato Gramsci e Althusser a proposito dell’ideologia. Non è più, quindi, l’ideologico che “recluta i soggetti”, ma il “discorso” nella sua materialità che costituisce i soggetti, come posizioni, come “effetti di soggettività, come identità relative, ossia relative le une alle altre nella sincronia di un sistema. «Siamo nel campo della surdeterminazione di alcune entità da parte di altre»26


La centralità accordata alla nozione di “discorso”, deriva per Mouffe e Laclau dalla necessità di enfatizzare il carattere storico e contingente degli oggetti sociali. Che cos’è, quindi, un discorso? È «un sistema di entità differenziali (…) [che] esiste solo come limitazione parziale di un “surplus di significato”»27. E cos’è questo “surplus di significato”? È un genericamente inteso “campo della discorsività” (field of discursivity), ossia il «terreno necessario per la costituzione di ogni pratica sociale»28. O potremmo dire, come la facoltà del linguaggio saussuriana, quale facoltà multiforme ed eteroclita di articolare parole, anche questo “campo” di un irriducibile surplus di significato sia una sorta di “facoltà” discorsiva a partire dalla quale ogni discorso viene a costituirsi come fissazione di un significato particolare. Le “pratiche egemoniche” sono proprio la fissazione parziale di una catena significante a partire da un particolare punto discorsivo, il “punto nodale” (nodal point) o, intermini lacaniani, “le point de capiton”.
E tuttavia, questa enfasi sul discorsivo come campo di emergenza, produzione e delimitazione di quelle totalità parziali che sono i discorsi, co-estensivo al sociale, non conduce forse ad un nuovo riduzionismo teorico, tanto quanto era l’economicismo? E di conseguenza, interpretare lo spazio sociale in termini discorsivi non significa nuovamente, così come faceva il paradigma interpretativo-culturalista, intendere lo spazio sociale come un testo, una sorta di processo sociale totale, suscettibile di molteplici e differenti interpretazioni tanti quanti i possibili differenti contenuti, ricadendo nuovamente in quella war of interpretations che si intendeva denunciare? A chi, a quale “scienza particolare” e con quali modalità, metodologie teoriche, spetta il compito di analizzare la “particolarità” di tali possibili contenuti? I due autori non ci offrono una risposta a questa domanda. La teoria del discorso sembra così essere una teoria metadiscorsiva che ha per effetto l’esatto contrario dell’intento di partenza: l’omogeneizzazione degli “oggetti” d’analisi nel suo proprio discorso mancando la possibilità di un analisi del discorso effettivamente enunciato. Ossia seppur introducendo l’idea di “universale contingente” come storicamente dato, la “differenza” viene ad essere comunque ri-sussunta ad un “metadiscorso” strutturale. L’analisi discorsiva di Laclau e Mouffe, difatti, seppur movendo da contingenze storiche ben determinate e dall’incapacità teorica del marxismo classico di fare fronte ai mutamenti sociali del cosiddetto “tardo capitalismo”, si rivela essere un modello teorico fondamentalmente astratto. Individuando le “leggi” che sul piano sincronico e diacronico governano un’idealtipo di struttura sociale, potenzialmente universalmente riconoscibile ma in realtà sostanzialmente svincolata dalle particolari condizioni di esistenza, si espone al rischio costante di mancare il momento critico con riferimento alle pratiche materiali e alle condizioni storiche di cui tali formazioni discorsive sarebbero costituite. Ricadiamo nuovamente nell’impasse strutturalista, nella pretesa di individuare una serie di “regole del gioco” che, per quanto garanzia di mobilità, pre-esistono la contingenza e la storicità stessa. La cosiddetta “breccia nella struttura”, l’apertura dello spazio grazie all’introduzione di un residuo non masterizzabile e l’infinità del gioco stesso risulta essere un ulteriore elemento funzionale al gioco di una struttura aprioristicamente data. Come sfuggire, allora, dall’impressione, giustamente ribadita da Jameson29, di avere a che fare con uno scheletro cui manca la possibilità della critica? Il risultato è, in effetti, da una parte una considerazione limitata delle forze storicamente in gioco nella costruzione del presente, d’altra parte l’equivalenza i di tutti i possibili “contenuti” cui la struttura sociale, o le formazioni discorsive, possono di volta in volta esser riempite. La risposta degli autori è naturalmente nell’ordine dell’analisi teorica della formazione delle identità sociali, si tratta di una “teoria generale” non di una “teoria particolare”. Ma verrebbe da chiedersi: che fine fanno, in questo modello teorico, il piano economico e quello giuridico-statuale – di cui pur veniva lamentata l’assenza o l’insufficiente teorizzazione nel marxismo classico – nella teoria dell’articolazione politico-discorsiva di Laclau e Mouffe? Se l’economico si riduce ad un generalissimo principio produttivo (la produzione delle identità sociali) che viene a fondersi col politico stesso (conflitto e produzione già diceva Althusser), lo Stato scompare definitivamente, o, il che risulta ugualmente insufficiente, si trova ad essere implicitamente dato per assunto. Eliminando i piani infra- o sovra-strutturali Stato, economia, società civile sono trattati alla stregua di “formazioni discorsive”, la cui articolazione specifica dipende esclusivamente dalle pratiche storico-discorsive di una particolare congiuntura; sarebbe un riduttivismo teorico quello di partire da una singola realtà storica per articolare, sulla base di un modello particolare, una teoria generale, dello Stato o economica. Come passare dunque da una Teoria del discorso alla pratica teorica, alla necessaria, nelle intenzioni di Laclau e Mouffe, riorganizzazione degli obiettivi della sinistra, di una sinistra generale, forse mondiale, al fine di pensare e realizzare una “democrazia radicale e plurale”?

II. Political turn: Verso una democrazia radicale e plurale


Nel tentativo di non perdere di vista la ricaduta “politica” della loro formulazione teorica, Laclau e Mouffe, similmente a come fece a suo tempo Althusser, introducono il “conflitto” nella teoria. Per Althusser infatti, secondo la lettura di Pardi, i concetti “funzionano” alla stessa maniera di quello “scenario bellico” che è il campo “politico-sociale”. Essi «sono organizzati in “modi di produzione di conoscenza” strutture conflittuali che si assestano in relazione a rapporti di forza» per cui «la costituzione di un oggetto sancisce la formazione di un certo regime di prevalenza intorno a cui i “fatti” scientifici si organizzano in struttura»30. Similmente, per Mouffe e Laclau, se nel campo “discorsivo” non vi sono che differenze ed ogni “identità” emerge in negativo; se la Teoria del discorso è la teoria dell’articolazione di un tale proliferare di differenze quale rapporto fondamentalmente asimmetrico, essa può ben essere interpretata in termini “agonistici”. “Antagonismo” è così, per i due autori, il concetto specifico in grado di mantenere aperto il conflitto, ossia l’eterogeneità nel rapporto tra differenze offrendo al contempo una via d’uscita al dibattito, così come appariva nel celebre saggio di Colletti Marxismo e Dialettica31, circa la distinzione kantiana tra contraddizione logica e opposizione reale (Realrepugnanz) da una parte, e la contraddizione dialettica da Hegel a Marx dall’altra. Ciò che emerge da un rapporto di tipo “antagonistico” sono “identità” il cui significato non è altro che la risultante surdeterminata (ciò che viene indicato come “surplus di significato”) di tutti i rapporti in cui si trovano prese e di cui sono intessute. Ciò significa, quindi, che ogni identità può essere rappresentata solo indirettamente, come pura negatività, attraverso, spiegano Laclau e Mouffe, l’equivalenza dei suoi momenti differenziali, e che tale equivalenza non è altro che un movimento, mai completo, di condensazione delle differenze stesse. La logica che segue la teoria dell’articolazione come teoria antagonistica è una logica di tipo egemonicoEgemonia è pertanto il nome di questo rapporto tra differenze secondo l’incrocio di due piani detti, ancora una volta attingendo dalla linguistica, catena differenziale e catena equivalenziale, per cui un significante particolare (un “significante vuoto”, empty signifier) è in grado di rappresentare, attraverso l’equivalenza di alcuni tratti comuni, una molteplicità di elementi eterogenei. Né sussunzione, né sintesi, egemonia è un tipo di relazione sostanzialmente metonimica. Espandendo la formulazione gramsciana (fino a farla coincidere con la nozione lacaniana di objet petit a), il concetto di egemonia indica ora più genericamente un tale processo di produzione contingente delle identità che implica sempre allo stesso tempo delimitazioni, creazione di frontiere, pertanto negazione ed esclusione. Non tutte le articolazioni sono egemoniche, specificano i due autori, ma è più che evidente il portato “politico” della relazione di tipo egemonico, ed è ciò che consente la possibilità di traslare la teoria dell’articolazione da un’analisi diremmo più strettamente ontologica (l’ontologia retorica, nei termini di Laclau) a quella della struttura sociale, quale teoria dell’antagonismo sociale.


L’antagonismo sociale permea e struttura il sociale, è al tempo stesso ciò che consente di stabilire i confini di una società come formazione discorsiva, e ciò che già sempre li rimette in causa, impedendone la piena, razionale, oggettiva chiusura. L’antagonismo sociale, affermano Mouffe e Laclau, è insieme la condizione di possibilità e di impossibilità della società, è l’esperienza del limite del sociale (Hegemony, p. 125).
Per meglio comprendere la relazione tra egemonia e antagonismo vale la pena di riportare un passaggio tratto da The Return of the Political. Scrive Mouffe: «Se accettiamo che ogni identità è relazionale e che la condizione di esistenza di ciascuna è l’affermazione di una differenza, la determinazione di un “altro” che gioca il ruolo di un “fuori costitutivo”, è possibile comprendere come sorge l’antagonismo. Sul piano delle identificazioni collettive, dove è in questione la creazione di un “noi” attraverso la delimitazione di un “loro”, esiste sempre la possibilità che tale relazione noi/loro divenga una relazione del tipo amico/nemico. In altre parole può sempre divenire [una relazione] politica nella maniera in cui Schmitt intende questo termine»32. Sebbene Schmitt sia un riferimento centrale più nel lavoro di Mouffe che di Laclau, il politico, fino a La ragione populista, è per entrambi fondamentalmente creazione di frontiere, costruzione di identità nei termini di “noi” e “loro”, di “amici/nemici”, di formazioni egemoniche. Gli “effetti di frontiera” sono la risultante di pratiche articolatorie di tipo antagonistico, vale a dire relazioni politiche di tipo egemonico. «Ciò avviene quando l’altro, che fino ad un dato momento veniva considerato semplicemente nei termini di differenza, inizia ad essere percepito come negazione della propria identità, quale messa in causa della propria esistenza. Da questo momento in poi, ogni forma di relazione noi/loro, che sia religiosa, etnica, nazionale, economica, diviene il luogo dell’antagonismo politico». «Di conseguenza, il politico non può essere ristretto ad un certo tipo di istituzione o considerato quale costitutivo di una specifica sfera o livello della società»33. Vale a dire, ed ecco la ragione della “sparizione” dello Stato insieme all’economico dalla teoria di Laclau e Mouffe, non si tratta più, come abbiamo visto, di piani infra- o sovra-strutturali, di “politica”, ma di una concezione “allargata” del politico. Il politico deve essere concepito come una dimensione inerente ogni società in quanto determina la nostra condizione ontologica.


Cavalcando, così, la “terza tornata” postmoderna, la Teoria del discorso diviene teoria dell’antagonismo sociale ed il politico viene a ricoprire un ruolo primario nel suo incessante modellare e rimodellare le relazioni sociali, scivolando così progressivamente, dal privilegio del paradigma linguistico al privilegio di quello politico. Il discorso è ora da intendersi nei termini di un’ontologia politica. È il politico (e non più l’economico, un modo di produzione specifico), proprio in quanto antagonismo sociale, che produce e costituisce le differenti modalità di articolazione delle soggettività sociali, non più “posizioni”, ma “posizionamenti”. Per certi versi molto simile al processo senza soggetto althusseriano, il discorso così inteso possiede, più di quanto gli stessi Laclau e Mouffe vogliano ammettere, un “potere costituente”. Il discorso come struttura simbolica in cui le soggettività si trovano gettate, costituisce, interpellandole, le identità sociali tanto che, sostiene Laclau, dovremmo piuttosto parlare in termini di agencies (agenti), per indicarne il carattere preterintenzionale.


Dunque tutto è politico? No, sebbene l’antagonismo permei la struttura sociale, tanto che il politico può essere considerato come “l’anatomia del mondo sociale”34, Laclau distingue, riproponendo implicitamente la distinzione già gramsciana tra società civile e società politica o Stato, il regno delle pratiche antagonistiche o politiche e quello delle relazioni sociali quali ripetizioni di “pratiche sedimentate”, sottolineando quanto, tuttavia, i confini tra “politico” e “sociale” siano costantemente dislocati. «Non tutto in una società è politico perché esistono forme sociali sedimentate che hanno cancellato le tracce della loro originaria istituzione politica; ma se l’eterogeneità è costitutiva del legame sociale, avremo comunque sempre una dimensione politica mediante la quale la società – e il “popolo” – è di continuo reinventata»35. E tuttavia è proprio dall’idea gramsciana di “Stato integrale” che i due autori individuano la possibilità di estendere la concezione del politico nel suo potenziale creativo come costitutivo dello spazio sociale, inteso come il terreno delle lotte egemoniche. Se il “sociale” diviene il campo specifico delle “istituzioni”, il politico non è più considerabile quale aspetto sovrastrutturale, bensì coincide con ciò che Laclau chiama l’ontologia del sociale. Il sociale è il luogo di una tensione antagonistica irriducibile tra logica differenziale e logica equivalenziale, da qui la sua infinitezza, il gioco infinito delle possibilità che rende la società una totalità impossibile. La società non esiste. Ma ciò significa che, scrive Tarizzo, «la società non è una realtà solida e compatta che si raggrumi in un Tutto ma è attraversata da faglie di antagonismo, o di lotta sociale, che ne scompongono l’unità, che ne impediscono la totalizzazione in una silhouette coerente e pacifica»36.


Se la società non esiste, e non esiste come essenza, come un contenuto già dato in anticipo, essa però continua ad esistere, malgrado gli intenti di Mouffe e Laclau, come “struttura”. È una struttura vuota e pertanto mobile, ma pur sempre una struttura, retta da regole ben precise che si dipanano nell’intreccio degli assi sintagmatico e paradigmatico: spostamento metaforico e condensazione metonimica. Per sfuggire all’obiezione secondo cui in tal maniera si stia re-introducendo il famoso determinismo strutturale, Laclau e Mouffe spiegano la teoria dell’articolazione come una tensione tra due momenti: fissazione e dislocamento. Se con fissazione si intende la pretesa chiusura di una struttura o di una identità, il termine dislocazione concettualizza il suo momento “traumatico”, di crisi, di mancanza (lack), ma già sempre costitutivo di una qualsivoglia struttura. Esso rappresenta l’intersezione di tre dimensioni che Laclau chiama “radicali”, perché “radicalmente esterne” alla struttura, quali temporalità, possibilità libertà, che ne impediscono la chiusura, ossia la “piena strutturazione”. Temporalità come condizione dell’evento, possibilità come condizione della ri-articolazione e del movimento della struttura, libertà come fallimento, come fallimento della struttura nel costituire pienamente le identità. Ciò di cui ci sta parlando Laclau è una sorta di “indeterminazione strutturale”, di “indecidibile” strutturale, secondo un’espressione derridiana, che consente di indicare le identità come posizioni contingenti in un processo di identificazione infinito perché sempre soggetto a negoziazioni37. L’antecedente teorico del movimento di dislocazione come infinito processo di identificazione secondo Laclau è da ritrovarsi già all’interno della tradizione marxista nella nozione di “rivoluzione permanente”. Ma anche Gramsci, uno degli interlocutori privilegiati di questo “political turn”, si domandava se la “realtà effettuale” fosse qualcosa di statico ed immobile e non piuttosto un rapporto di forze in continuo mutamento ed equilibrio, riflettendo sulla relazione tra i “fenomeni organici” ed i “fenomeni di congiuntura”. Qui si tratta tuttavia ancora, più di quanto Laclau voglia affermare esplicitamente, di una sorta di determinismo seppur “relativo”: l’identità del soggetto non pre-esiste alla struttura ma è interna ad essa, quindi determinato da essa, ma al contempo il fatto che la struttura stessa sia soggetta a continue “dislocazioni” fa sì che l’agente non sia da essa completamente determinato. È alla luce di questo processo di identificazione che, retroattivamente, deve essere inteso il soggetto, per Laclau, come lacanianamente barrato, mancante, una sorta di casella vuota in questa scacchiera discorsiva, sempre alla ricerca di possibili “punti di identificazione”. In virtù dell’“indecidibile strutturale”, la “dislocazione” rappresenta la garanzia dell’azione quanto della decisione politica, la quale appare essere ontologicamente prioritaria rispetto alla struttura, ed è in questo senso che deve essere intesa l’espressione un po’ enigmatica “soggetto prima della sua soggettiviazione”38.


Antagonismo, come impossibilità di una sutura definitiva dei limiti del sociale, creazione di frontiere e decisionismo (dove per Laclau decisione ed egemonia sembrano coincidere, la decisione politica èuna decisione egemonica), sono dunque gli elementi fondamentali che per Laclau e Mouffe caratterizzano il primato ontologico del politico sul sociale. Quest’ultimo inteso allora come il campo sempre instabile delle «forme sedimentate dell’‘oggettività’»39, nella misura in cui la pretesa oggettività della struttura sociale, tanto quanto quella delle soggettività che in essa si muovono, è una costruzione contingente (arbitraria nel senso saussuriano), frutto della sedimentazione nel tempo di una serie di credenze, pratiche, costumi. Di per sé stessa la società è una totalità vuota, una cornice simbolica, cui non fa riferimento alcun significato, realtà o essenza positiva esterna e pre-esistente alle sue proprie dinamiche storiche. «‘Politica’» dunque «è una categoria ontologica: c’è politica perché c’è sovversione e dislocazione del sociale». Se «il soggetto è semplicemente la distanza tra la struttura indecidibile e la decisione», se «il soggetto esiste per via delle dislocazioni nella struttura», se esso «equivale alla forma pura della dislocazione della struttura», «ciò significa che ogni soggetto è, per definizione, politico. Oltre al soggetto, inteso in questo senso radicale, ci sono solo posizioni soggettive nel campo generale dell’oggettività. Ma il soggetto (…) non può essere oggettivo». Vale a dire non possiede un’essenza oggettiva e omogenea data una volta per tutte. «Esso è costituito unicamente nei limiti discontinui della struttura. In tal modo, esplorare il campo d’emergenza del soggetto nelle società contemporanee equivale ad esaminare il segno che la contingenza ha inscritto nella struttura apparentemente oggettiva delle società in cui viviamo»40.


Ma quali sono le “società contemporanee” cui guardano Mouffe e Laclau? E in quale maniera intendono rispondere concretamente all’urgenza postmoderna di considerare l’emergenza di nuovi attori sociali, sul teatro di questa totalità sociale aperta, incompleta e decentrata? La dispersione e la frammentazione delle diverse posizioni soggettive, l’emergenza di nuove forme sociali e di aggregazione politica a livello internazionale, ri-echeggiando nozioni quali “volontà collettiva”, “masse” e “azioni popolari”, mostra, secondo i due autori, l’incapacità della “struttura di classe” di rendere conto per sé sola della complessità del sociale e di conseguenza l’impossibilità di considerare ancora la classe lavoratrice quale unico soggetto privilegiato del mutamento sociale41. Rispetto al susseguirsi dei rapidi mutamenti sul nuovo scenario politico mondiale il marxismo classico, sostengono i due autori, ha storicamente mostrato la sua incapacità nel rispondervi adeguatamente. E pur tuttavia, come abbiamo visto, entrambi si situano nel solco dell’eredità marxista. Autodefinendosi “post-marxisti”, entrambi intrattengano con il marxismo classico un rapporto discontinuo e multiforme, fortemente mediato dalle letture principalmente di Lenin, Sorel, Gramsci e Althusser, e teatro di continue incursioni linguistiche e psicoanalitiche. Collocarsi nel terreno post-marxista, sostengono i due autori, significa, oltre che offrire un contributo alla comprensione dei conflitti sociali contemporanei, accordare al marxismo la sua dignità teorica, che consiste nel riconoscimento dei suoi limiti e della sua storicità. «Il più grande merito della teoria marxista è stato quello di illuminare le tendenze fondamentali dell’auto-movimento del capitalismo e degli antagonismi da esso generati. Tuttavia anche qui l’analisi si rivela incompleta e in un certo senso limitata in larga misura all’esperienza Europea del XIX secolo. Oggi sappiamo che gli effetti di dislocazione generati dal capitalismo a livello internazionale sono molto più profondi di quelli immaginati da Marx. Questo ci impone di radicalizzare e trasformare in varie direzioni la concezione marxiana degli agenti e degli antagonismi sociali»42. Le trasformazioni storiche del capitalismo oramai avanzato, cui Laclau e Mouffe si riferiscono, sono sostanzialmente «il declino della classe lavoratrice classica nei paesi post-industriali; il sempre più profondo penetrare delle relazioni capitalistiche di produzione in aree della vita sociale, i cui effetti dislocatori – insieme a quelli derivanti dalle forme di burocratizzazione che hanno caratterizzato il Welfare State – hanno generato nuove forme di protesta sociale; l’emergenza delle mobilitazioni di massa nei paesi del Terzo Mondo differenti dal modello classico della lotta di classe»43, infine la crisi ed il discredito del modello di società presentata dal “socialismo reale”. Rispetto a queste che rappresentano le nuove sfide per il pensiero politico, si tratta per Laclau e Mouffe di ripensare il socialismo sul piano della rivoluzione democratica costruendo nuovi discorsi emancipatori, diversificati e democratici che tengano conto dell’estensione del conflitto sociale e della radicale eterogeneità degli “agenti” coinvolti.
In seguito ad eventi come il massacro di Tienanmen, il collasso del comunismo dell’Europa orientale, la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania, la fine della guerra fredda, l’inizio della riforma del socialismo sovietico e la guerra del Golfo, in ambiente accademico si è iniziato col lamentare, infatti, una certa carenza di strumenti concettuali adatti ad affrontare in maniera critica il radicale ri-ordinamento dell’assetto mondiale. Le grandi metanarrazioni del pensiero politico occidentale sono oramai votate al tramonto. L’ideologia Liberale e il Marxismo, come si è accennato, non sono più ritenuti in grado di rappresentare il gioco politico, tantomeno fungono da sprone per quello che era il progetto razionalistico emancipatorio dell’illuminismo. Il proletariato non è più in grado di rappresentare in uno scenario “mondializzato” la forza in grado di assumere il momento rivoluzionario. Le lotte sociali diventano sempre più locali (razziali, etniche, sessuali), incapaci di gestire e articolare “grandi narrazioni” perché troppo particolari ed eterogenee o perché semplicemente ri-sussunte all’ordine stabilito. Il riconoscimento della contingenza, l’insistenza sull’incompleto rispetto al pensiero del continuum, la natura intermittente di ogni determinata congiuntura storica o epistemologica, la lettura di ogni gesto politico come uno sforzo di suturare le aperture degli spazi sociali (la cui possibilità è proprio sintomo di una “originarietà” dell’apertura rispetto alla chiusura totalizzante), le identità intese come “costruzioni” sociali, rappresentano il punto di partenza per una nuova politica “postmoderna”. Una politica decentrata, transnazionale e pluralistica. Già da tempo si guardava a Gramsci quale pietra miliare di questo urgente e necessario mutamento di prospettiva, esaltandone gli aspetti emancipatori a carattere nazional-popolare e il privilegio del momento politico rispetto all’economico. Il nuovo progetto politico da perseguire su scala mondiale è, infatti, un progetto di emancipazione e liberazione, e mentre Gramsci diviene il pensatore del folklore e della subalternità, concetti quali egemoniablocco storicoguerra di posizione, volontà collettiva, del tutto decontestualizzati e autonomizzati rispetto al contesto gramsciano, diventano alcune tra le parole chiave della “svolta politica” nella parabola postmoderna. Non fanno eccezione Laclau e Mouffe, i quali stringono egemonia e decostruzione in un’unica logica. In questo senso Laclau può ben essere considerato una tra le figure più esemplari della parabola postmoderna nel suo dialogo con gli studi subalterni e postcoloniali.


Secondo la maggior parte dei detrattori del pensiero postmoderno, sostiene Laclau nel saggio Power and Representation 44, esso si ridurrebbe ad una nichilistica, quanto fallace, negazione o inversione dei principi della modernità poiché rimarrebbe intrappolato entro gli stessi confini che intenderebbe superare. Si tratta ora di pensare il “post” moderno come un’attitudine verso la modernità non più in termini oppositivi bensì decostruttivi, mostrando come essa non costituisca un blocco essenzialmente unificato, ma piuttosto il risultato di una serie di articolazioni contingenti sedimentate 45.
In tal maniera l’orizzonte della modernità, quale progetto oramai votato al tramonto, dismette la veste di “necessario requisito della ragione” ed è restituito alla sua contingenza storica come una tra le possibili “costruzioni” sociali ed intellettuali. Pensare in termini “postmoderni” significa, per Laclau, non tanto rinunciare in blocco ad una eredità con cui dobbiamo comunque ancora fare i conti, bensì pensare ad una modernità alternativa in grado di portare avanti su altri terreni il progetto emancipatorio dell’Illuminismo. Rispetto alla condizione postmoderna, scrive infatti Laclau, «c’è oggi il sentimento diffuso che l’esaurimento delle grandi narrazioni della modernità, i confini indistinti dello spazio pubblico, il funzionamento delle logiche dell’indecidibile, che sembrano sottrarre ogni significato all’azione politica, conducono ad un generalizzato ritiro dal politico»46. Si tratta al contrario di estendere al tempo stesso l’indecidibilità strutturale dello spazio socio-politico e di conseguenza il campo della decisione politica.


Come è noto, per Derrida l’indecidibile scardina e decostruisce il pensiero binario-oppositivo. L’atto del decidere non è equiparabile alla scelta tra due opposti, ma coinvolge quel supplemento/disseminazione che è ricchezza di possibilità, che confonde i confini, che fa di ogni “senso” un luogo di tensione nei termini di apertura, perdita, contaminazione. La dissoluzione del discorso unitario, del “mito fondazionale”, della modernità consente così, per Laclau e Mouffe, di pensare un nuovo discorso politico su scala globale nel senso di una proliferazione di interventi discorsivi. È in questa direzione che deve essere intesa la necessità di riformulare il progetto democratico nei termini di una “democrazia radicale plurale”, abbandonando l’universalismo astratto di una presupposta indifferenziata natura umana postulato dall’Illuminismo. Ma ciò non significa, per Mouffe e Laclau, un abbandono dell’universalismo tout court. «La democrazia radicale esige il riconoscimento della differenza – del particolare, del molteplice, dell’eterogeneo – vale a dire tutto ciò che è stato escluso dal concetto di Uomo in astratto. L’universalismo non è rigettato ma particolarizzato; ciò di cui abbiamo bisogno è un nuovo tipo di articolazione tra universale e particolare»47. Come abbiamo visto finora, ciò che è in gioco qui è quanto Laclau e Mouffe chiamano «logica della contingenza». La paradossalità di una totalità aperta come è la struttura della società non è altro che la tensione insita nella struttura dell’universale, quell’“essenza negativa” dell’esistente per cui i “diversi ordini sociali” non sono altro che precari tentativi di addomesticare il campo delle differenze, e l’universale stesso è già sempre un «universale contaminato» (contaminated universality). E in quanto tale è un universale vuoto, un significante vuoto. Per comprendere come, secondo i due autori, l’idea di significante vuoto sia in grado di supportare un progetto veramente democratico possiamo pensare alla nozione di democrazia come spazio vuoto sviluppata da Lefort. Secondo Lefort nella democrazia il luogo del potere è uno spazio vuoto, in un senso molto vicino a Derrida esso è il luogo del differire (differend), che al tempo stesso limita l’appropriazione del potere e ne consente la redistribuzione. Ciò la rende estremamente ambigua ed irrequieta, costitutivamente e radicalmente aperta e plurale, proprio nei termini di Laclau. Allo stesso modo sono da intendersi le soggettività politiche: una “politica radicale”, scrive Laclau, non deriva da un «soggetto che incarna l’universale, ma dall’espansione e dalla moltiplicazione di soggetti frammentari, parziali e limitati che prendono parte al processo decisionale collettivo», questo implica l’idea di «dispersione e dislocazione del potere»48. La teoria dell’antagonismo sociale ci dice così che le relazioni sociali sono sempre relazioni di potere e che «lo studio delle condizioni di esistenza di una data identità sociale, equivale a studiare i meccanismi che la rendono possibile». «Ma se il potere è il prerequisito di ogni identità, la scomparsa radicale del potere equivarrebbe alla disintegrazione della fabbrica sociale». Questa la grande contraddizione di un qualsivoglia progetto emancipatorio che si voglia “globale”. «Una società armoniosa è impossibile nella misura in cui il potere è la condizione che la rende possibile (e impossibile allo stesso tempo[…]). Persino nei progetti più radicali e democratici, la trasformazione sociale significa costruzione di un nuovo potere e non la sua radicale eliminazione. La distruzione delle gerarchie sulle quali si basano le discriminazioni sessuali o razziali richiederebbe sempre, ad un certo punto, la costruzione dell’esclusione dell’altro affinché le identità collettive possano emergere»49.


Una volta riconosciuta la complessità del politico così come intesa da Laclau e Mouffe, l’ineliminabilità del conflitto e della creazione di frontiere tra “noi” e “loro”, l’impossibilità di pensare una realtà priva di antagonismo, come pensare e come organizzare allora una frontiera politica in grado di farsi carico di un progetto emancipatorio globale in direzione di una democrazia radicale plurale, come creare o mantenere un simile ordine democratico pluralisitco? Per Mouffe è necessario innanzitutto abbandonare la concezione schmittiana del “nemico da distruggere” e considerare il gioco egemonico amico/nemico nei termini di differenze legittime. Il “pluralismo agonistico” è un elemento costitutivo delle democrazie moderne e anziché considerarlo una minaccia alla stabilità sociale è necessario farsene carico e considerarlo quale condizione d’esistenza stessa della democrazia liberale. Dinnanzi al proliferare di innumerevoli conflitti a base nazionalista, etnica, religiosa il compito della sinistra allora, di una nuova sinistra “internazionale”, una volta crollata la fede nelle grandi narrazioni teleologiche ed escatologiche (in primis quella marxista), non è quella di “ricostruire” tutti i frammenti del mosaico, tantomeno cedere alle lusinghe isolazioniste postmoderne. Bensì farsi carico dell’ineguaglianza sociale articolando gli obiettivi socialisti ai principi costitutivi delle democrazie liberali, estendendo l’ideologia liberal-democratica nella forma di un socialismo liberale (cfr. Hegemony p. 176) in grado di coniugare le libertà individuali con una uguaglianza sostanziale. Rispetto ai vecchi ideali moderni di libertà ed uguaglianza le nuove parole chiave per la promozione di una democrazia veramente radicale e plurale sarebbero allora conflitto e divisione, redistribuzione e riconoscimento. Ne La ragione populista, citando un passaggio da The Democratic Paradox di Mouffe, Lalcau sottolinea che «“la novità della democrazia moderna, ciò che la rende propriamente ‘moderna’, è che con l’avvento della ‘rivoluzione democratica’, il vecchio principio democratico in base al quale ‘il potere deve essere esercitato dal popolo’ riemerge d’accapo, ma questa volta all’interno di una cornice simbolica permeata dal discorso liberale, con la sua forte enfasi sul valore delle libertà individuali e sui diritti umani». «“Da un lato abbiamo la tradizione liberale, basata sul governo della legge, sulla protezione dei diritti umani e sul rispetto delle libertà individuali; dall’altro abbiamo la tradizione democratica, le cui idee principali sono quelle di uguaglianza, di identità tra governanti e governati, di sovranità popolare”» e, ancora una volta, «“non c’è un rapporto necessario tra queste due tradizioni, ma solo un’articolazione storica contingente”»50. Se quindi, come suggeriva Lefort (pur con le debite distinzioni dalla teoria di Laclau e Mouffe) la democrazia è una nozione “vuota”, ossia priva di un contenuto stabilito in anticipo, e tenuto conto del principio generalissimo che sin dalla Grecia intende la democrazia come sovranità del démos, ossia del popolo, ciò non significa altro che, come abbiamo già accennato, per Laclau e Mouffe l’articolazione tra liberalismo e democrazia è una delle tante “cornici simboliche” che «rendono possibile l’emergenza del “popolo”». Se, pertanto, non è più possibile intendere tale emergenza come «l’effetto diretto di una cornice particolare », il problema generale che concerne la democrazia viene a coincidere con quello che coinvolge l’analisi delle molteplici “cornici” «che rendono possibile l’emergenza del “popolo”». Infine, se «la nozione di identità democratica diventa pressoché indistinguibile da quella che noi abbiamo chiamato identità popolare» e «la costruzione di un “popolo” si rivela conditio sine qua non del funzionamento democratico» allora «il problema della costituzione di una soggettività popolare diventa parte integrante del problema della democrazia»51. Ne segue che, se la “costruzione” del popolo non pertiene ad alcuna costruzione democratica particolare, tale “costruzione” è di per se stessa ambigua, storicamente molteplice, differenziata, di difficile “apprensione” teorica. Ecco come nasce La ragione populista.

III. Populist o Popular?


Sulla scorta delle osservazioni appena richiamate appare evidente che se il compito della sinistra (supponiamo una sinistra internazionale) deve essere la formulazione di un nuovo programma democratico di carattere “radicale e plurale” quale progetto emancipatorio globale, se “democrazia” è costruzione del popolo, ne consegue che debba esserci una qualche connessione per Laclau tra progetto emancipatorio e costruzione del popolo. Abbiamo già visto come la Teoria del discorso intendeva spiegare il funzionamento generale della produzione di identità ad un livello “ontologico” (vedi teoria dell’articolazione in generale), poi della costruzione delle identità sociali come teoria dell’antagonismo sociale, da cui emergeva l’imprescindibile necessità di un’adeguata riformulazione dell’idea di “politico”; si tratta ora per Laclau, data la necessità di fornire un supporto teorico al raggiungimento di questo nuovo orizzonte democratico e data l’equivalenza democrazia-costruzione del popolo, di procedere all’analisi delle dinamiche di costruzione del popolo. Questo è il punto in cui maggiormente divergono le strade tra Mouffe e Laclau: mentre Mouffe insiste sull’analisi del concetto di “politico”, Laclau, continuando un discorso già in iniziato in Politics and Ideology in Marxist Theory, enfatizza sulla necessità di ritornare alla categoria politica di “popolo” come potenziale attore storico, “allargando gli orizzonti” rispetto al riduzionismo di classe per ripensare la partecipazione politica in un’epoca segnata dal capitalismo globalizzato. Ma, come titola un saggio di Laclau pubblicato su Critical Inquiry52, ci domandiamo: perché costruire il popolo è il compito principale di una politica radicale? Perché proprio il popolo e non, ad esempio, i cittadiniCome, all’atto pratico (le passage á l’acte,direbbe Lacan), può il “popolo” farsi carico di un progetto di emancipazione (mondiale)? E qual è la relazione tra popolo, politico, democrazia e populismo?


Riprendiamo rapidamente l’idea di politico sommariamente esposta in precedenza. Abbiamo visto come per Mouffe e Laclau il politico sia da intendersi in un senso “allargato” rispetto all’insieme di specifiche istituzioni e politiche di governo, fondamentalmente come antagonismo sociale e allo stesso tempo come produzione o, meglio, costruzione delle identità sociali. In maniera simile Laclau affronta teoricamente la questione della democrazia, ossia non nei termini di uno specifico “regime” o modalità di governo (governo del popolo), bensì prima di tutto (ed è evidentemente un “prima di tutto” ontologico) come una delle tante possibili logiche politiche di costruzione delle identità, cui segue una specifica modalità di “governo” e i relativi apparati istituzionali.
Ne La ragione populista la definizione di politico si radicalizza maggiormente, ma al tempo stesso possiamo dire che forse si “particolarizza” eccessivamente. Per Laclau il compito del politico non è più semplicemente un generico processo creativo, quale costruzione delle identità sociali, bensì l’operazione politica par excellence è la costruzione di quell’identità specifica che è il popolo. Questa, ci dice, è l’essenza stessa del politico.


Tuttavia la conclusione logica del ragionamento di Laclau contiene un’amenità. Come risultante della coincidenza di “cornice” democratica ed emergenza, ossia “costruzione”, del popolo, Laclau conclude, forse un po’ frettolosamente, che essendo anche il populismo una modalità di costruzione del popolo, l’analisi della democrazia viene in tal modo a sovrapporsi e a coincidere con l’analisi del populismo53. Se possiamo dire che il populismo sia un modo, o una “necessità” (p.110), di costruire il popolo, esso è anche, secondo Laclau «un modo di costruire il politico» (p. xxxiii, corsivo mio). Se seguissimo fino in fondo le equazioni teoriche di Laclau arriveremmo a dire che, se democrazia è costruzione del popolo, politico è costruzione del popolo, populismo è costruzione del popolo, allora, in una alquanto radicale sovrapposizione, democrazia e populismo, politico e populismo verrebbero in qualche maniera a coincidere. Si domanda, infatti, Laclau: è il politico sinonimo di populismo? (p.146) In un forse troppo semplicistico parallelismo tra il politico come momento creativo di gramsciana memoria, ossia come momento di costruzione delle identità sociali nella delimitazione di frontiere antagonistiche, e il populismo come logica di creazione delle identità sociali, la cui “necessità” specifica è proprio quella di costruire il popolo (p. 110), Laclau risponde affermativamente, o perlomeno affermativamente alla luce del “suo” modo di intendere il populismo. Infatti, Laclau conclude: «la ragione populista (…) equivale alla ragione politica tout court» (p.212). Ma, storicamente portati ad intendere il populismo nei termini di pericolosa deriva demagogica e totalitaria, al nostro orecchio qualcosa potrebbe suonare storto. Ricominciamo, dunque, col chiederci: in quali termini dobbiamo intendere il populismo per ricontestualizzare questa serie di secche uguaglianze laclauiane? In quali punti, per Laclau, l’analisi della democrazia e l’analisi del populismo vengono a convergere?
Quella di Laclau è una risposta “interna” al suo stesso sistema, che prende la forma di un assunto di principio. Nel corso del libro Laclau mostra progressivamente la coincidenza tra la logica generica (che è evidentemente una logica politica) di costruzione delle identità democratiche e delle identità popolari. Il soggetto democratico (che non è da intendersi nei termini di un soggetto “individuale”, bensì, come già accennato, di agency) emerge sostanzialmente dall’articolazione “orizzontale” (equivalenziale) di diverse domande sociali in un significante vuoto che ne consente il meccanismo rappresentativo. Alla stessa logica, ci dice Laclau, risponde una generica operazione di “creazione del popolo”: basti pensare al funzionamento della logica di incorporazione della volontà popolare nel “corpo immortale del re”. «La costruzione di un “popolo” (…) non è semplicemente l’applicazione di un caso particolare di una teoria generale (…) viceversa è un caso paradigmatico giacché è l’unico che ci riveli la rappresentazione per ciò che essa è: il terreno primario di costituzione dell’oggettività sociale» (p. 155). Per meglio spiegarne il movimento, Laclau richiama la distinzione tra le nozioni di plebs e populussottolineando come nella costruzione del popolo abbiamo a che vedere con un movimento di tensione tra questi due “poli”. Plebs è la massa eterogenea, multiforme e disorganizzata, gli esclusi dal corpo politico-sociale, mentre populus è il corpo di tutti i cittadini, la comunità vista come un intero, nel senso, per Laclau, di una forma di universalità astratta. Questo il motivo sostanziale per cui Laclau parla in termini di “popolo” e non di “cittadini”. Secondo Laclau il problema circa il concetto di “cittadinanza” risiede nel fatto che, come scrive Mouffe, la teoria democratica vi si riferisce in generale secondo «“una concezione del soggetto che vede gli individui come precedenti la società, portatori di diritti naturali, soggetti razionali o agenti in vista della massimizzazione dell’utile (…) astratti dai rapporti sociali e di potere, dal linguaggio, dalla cultura e dall’intero insieme di pratiche che rendono possibile l’azione”», trascurando l’analisi «delle condizioni d’esistenza di un soggetto democratico» e del «ruolo cruciale svolto da passioni ed affetti»54. Il “popolo” al contrario racchiude la tensione sempre costante tra particolarismo della plebs e universalità del populus attraverso una logica che abbiamo già incontrato, la logica di articolazione egemonica. Il popolo, scrive Laclau, «non è l’effetto di una latente logica infrastrutturale, ma il terreno primario di costruzione della soggettività politica» (p.213). La plebs è quindi il concetto che indica quello strato di emarginazione sociale, dunque una sfera “parziale” del sociale, che lotta per l’emancipazione, per divenire populus. Potremmo dire, in altri termini, che lotta per raggiungere il riconoscimento istituzionale di una serie di diritti, come risposta istituzionale a ciò che Laclau indica come una serie di domande sociali (demands). La plebs in questa maniera, continua il ragionamento di Laclau, ambisce a divenire l’unico populus legittimo, nei termini di una parzialità (di un elemento parziale nella struttura sociale) che pretende di fungere da totalità della comunità stessa. Questo è il funzionamento della logica dell’articolazione egemonica, dell’investimento del lacaniano objet petit a. «Il popolo in questo caso è qualcosa di meno di tutti i membri di una comunità: è una componente parziale, che ciononostante aspira a essere considerata l’unica totalità legittima» (p.77). In questo stesso modo funziona il “popolo” del populismo. «La logica della sua costituzione è ciò che ho chiamato ragione populista» (p.213).


Dunque cos’è il populismo secondo Laclau? La questione del populismo viene affrontata sin da Politics and Ideology in Marxist Theory, il cui capitolo conclusivo, come abbiamo già accennato s’intitola Verso una teoria del populismo (Towards a theory of Populism). Qui la questione centrale era già quella di individuare teoricamente la specificità del populismo. In questa sede passando in rassegna diverse realtà storiche tra cui i narodniki russi e le politiche sudamericane di integrazione delle masse, l’analisi ruotava attorno alla necessità di pensare, sulla scorta degli studi althusseriani sugli Apparati Ideologici di Stato, una forma di interpellanza “non di classe” (non-class interpellation) a carattere democratico-popolare. È questo il nocciolo iniziale che consentirà a Laclau di focalizzare sempre più l’attenzione sulla questione di come trattare teoricamente la realtà delle masse, che dal cosiddetto neomarxismo della scuola di Francoforte diventa centrale negli Studi Culturali, intesa ora nei termini di una irriducibile eterogeneità sociale.


Non potendo ripercorrere esaustivamente in questa sede la complessità dei passaggi teorici attraverso cui Laclau ne La ragione populista spiega il funzionamento del populismo, richiamiamo brevemente alla mente alcuni momenti essenziali. Il volume si compone sostanzialmente di due parti, la prima è una sorta di “pars destruens” in cui Laclau passa in rassegna i principali approcci teorici al fenomeno del populismo lamentandone il fondamentale descrittivismo, data l’incapacità di concettualizzare in maniera esaustiva quella estrema molteplicità di fenomeni, spesso completamente differenti l’uno dall’altro, che si suole indicare col termine populismo. Laclau affronta subito dopo i principali studi sulle masse da Sigmund Freud, a Gustave Le Bon e Gabriel Tarde, mostrandone per un verso le insufficienze ma al tempo stesso lasciando intuire la possibile continuità con gli studi sul “popolo”. Dunque dalle masse eterogenee, volente e irrazionali, alla creazione del popolo. Il problema riportato dagli studiosi del populismo è proprio l’impossibilità di individuare un “nocciolo duro” in grado di accomunare l’estrema varietà di fenomeni che va dai totalitarismi europei al populismo russo, da quello nordamericano, all’America Latina etc., ed è a questa insufficienza teorica cui Laclau intende rispondere nella seconda parte del volume, la “pars construens”. Laclau sviluppa, così, i nuclei teorici dell’analisi della specificità della pratica articolatoria populista solamente abbozzata trent’anni prima. Da quel testo molte cose sono cambiante, la progressiva contaminazione tra concettualità psicoanalitica e linguistica ha dato origine, sulla base della tensione teorica tra equivalenza e differenza, universale e particolare, ad un’intricata architettonica. Come scrive Jon Beasley-Murray, Laclau è un theoretical systems builder55, un “costruttore di sistemi teorici”.


Secondo Laclau sono tre gli aspetti che caratterizzano il populismo: innanzitutto non è una tipologia specifica di movimento sociale ma una logica politica; in secondo luogo si tratta di una tipologia di identità (popolare) precaria perché unifica un’eterogeneità di domande sociali di per sé irriducibile; infine è una logica duplice: rappresenta da un lato il momento di rottura con l’ordine esistente (possiede pertanto una dimensione anti-istituzionale quale una sfida alla normalizzazione politica) dall’altro il momento di “ordinamento”, ovvero rappresenta la creazione di un ordine nuovo. Su queste premesse «l’emergenza del “popolo”» dipende da tre variabili: «rapporti equivalenziali rappresentati egemonicamente da significanti vuoti; spostamenti delle frontiere interne tramite la produzione di significanti fluttuanti e un’eterogeneità costitutiva che rende impossibile qualsiasi ricucitura dialettica, conferendo un’autentica centralità all’articolazione politica»56. «Siccome la costruzione del “popolo” è l’atto politico per antonomasia, un atto opposto alla pura amministrazione entro una stabile cornice istituzionale, le condizioni sine qua non del politico sono la costituzione di frontiere antagonistiche all’interno del sociale e l’appello a nuovi soggetti di cambiamento sociale – tutto ciò implica come sappiamo, la produzione di significanti vuoti per unificare una molteplicità di domande eterogenee in catene equivalenziali. Ma queste condizioni sine qua non sono anche le caratteristiche definitorie del populismo. Non c’è intervento politico che non sia in qualche misura populista». Ecco che al contempo si intravedono le ragioni “logiche” dell’affrettata equivalenza tra politico e populismo, cui segue la precisazione: «Naturalmente, non tutti i progetti politici sono populisti nella stessa misura; ciò dipende dall’ampiezza della catena equivalenziale che unifica le domande sociali»57. Se il populismo coincide fondamentalmente con la costruzione di un fronte antagonistico nello spazio sociale, di conseguenza esso coincide, per Laclau, con il “modus operandi” del politico in generale. 


In quanto tale è semplicemente una logica sociale, e, potremmo dire, al variare dell’“intensità”, al variare della capacità di “risoluzione” della domanda sociale, e dunque di costruzione di questo popolo, variano i “gradi” di populismo. Questa la ragione “formale” delle cosiddette “variazioni populiste”, dell’estrema varietà delle sue forme e di conseguenza, per Laclau, dell’imprecisione delle concettualizzazioni finora tentate.
Ma le tre “variabili” che consento la costruzione-emergenza del popolo, alla cui pienezza euristica Laclau giunge dopo pagine analiticamente densissime, in realtà semplicemente descrivono, seppure in maniera molto precisa e puntuale, quella che è secondo Laclau la logica formale (e universale) del populismo, e sembrano offuscare o lasciare in secondo piano quello che è a nostro avviso l’implicito assunto di partenza e al tempo stesso il principale fraintendimento di questo libro. In altre parole il termine populismo sembra coincidere, in una maniera un po’ troppo semplicistica con un generico processo di “emergenza del popolo”, identificato con un’altrettanta generica “volontà collettiva” dal vago sapore gramsciano. Populismo non sembra essere altro che il nome della “logica politica” di costruzione del popolo tout court. Il populismo viene analizzato da un ipotetico quanto utopistico punto di vista neutrale, strutturale diremmo, astrazion fatta dai possibili contenuti, storicamente e geopoliticamente situati (ridotti, quali contingenze, ad una semplice casistica esemplificatoria), da eventuali giudizi di valore, prescindendo da quegli approcci, secondo Laclau, particolaristici e circostanziali che considerano il populismo semplicemente come «un eccesso pericoloso, capace di mettere a repentaglio le nitide forme di una comunità razionale»58. Ma ridurre il “populismo” all’emergenza del popolo, a partire da una definizione della sua “forma” (seppure nella veste di una “logica” formale) piuttosto che dal suo contenuto, dalla descrizione di un vuoto significante o “dispositivo teorico”, è possibile a nostro avviso solo sulla base di una capitale confusione di fondo: quella che stempera i confini tra le nozioni di “populismo” e “popolare”. Ciò che implicitamente Laclau sta riproponendo qui, citando gli studi di Mény e Surel sul populismo, è l’argomento secondo il quale l’“appello al popolo” sia un elemento ineliminabile della struttura democratica generalmente intesa e che pertanto il populismo non sia semplicemente una minaccia alla forma democratica, una sua corruzione o anomalia, bensì uno dei suoi elementi costitutivi. Ma se Surel scrive che «il populismo non corrisponde ad una famiglia politica, ma corrisponde semmai ad una dimensione del registro discorsivo e normativo adottato dagli attori politici»59, ne segue piuttosto la considerazione che, come gli autori sostengono in Populismo e democrazia, il germe populista quanto totalitario sia già sempre presente nell’ambiguità costitutiva della struttura democratica e in alcun modo che, come invece sostiene Laclau, «il populismo sia l’elemento democratico nei sistemi rappresentativi contemporanei»60. Per Mény e Surel la pretesa dei populisti è proprio quella «di incarnare la democrazia, sviata secondo loro dai suoi obiettivi fondamentali e cioè dalla creazione di un governo “del popolo, da parte del popolo e per il popolo»61. Continuano Mény e Surel che «il populismo può essere compreso solo nell’ambito delle strutture democratiche o con riferimento ad esse. (…) il punto fondamentale – e al tempo stesso il malinteso principale – che collega la democrazia al populismo è il riferimento al popolo»62. È forse proprio questo il “malinteso” principale di cui è vittima La ragione populista.


Il fatto che i “differenti gradi di populismo” e quindi i differenti gradi di democratizzazione di una società siano la risultante quasi “aritmetica” di una maggiore o minore estensione delle “catene equivalenziali” rende pericolosamente labile il confine tra demagogia e democrazia e demanda ad un altrove teorico, non meglio specificato, la capacità di giudizio. Ridurre l’analisi ad una questione di “logica”, così come fa Laclau, significa allo stesso tempo eludere nel dominio teorico la possibilità della critica. Se da un lato risolve il problema della sterilità degli approcci meramente descrittivi, dall’altro però, le premesse poste da una Teoria del discorso così come proposta da Laclau e Mouffe, finiscono per ridurre ed omogeneizzare le differenze, ricadendo nello stesso discorso universalista (e al suo contraltare relativistico-isolazionista) che si intende criticare. Il fatto che l’eguaglianza formale delle contingenze sia all’atto pratico una premessa incapace di offrire gli strumenti teorici per una presa di posizione critica, allo stesso tempo presta silenziosamente il fianco ad una quanto mai rischiosa, perché asettica, legittimazione del “gioco delle differenze”.


Tuttavia, sottolinea Laclau: «la teoria del discorso non è semplicemente un approccio teorico o epistemologico; essa implica, affermando la radicale storicità dell’essere e pertanto la natura puramente umana della verità, l’impegno a mostrare il mondo per come esso è: una costruzione interamente sociale degli esseri umani che non si basa su di alcuna “necessità” metafisica ad essa esterna – non Dio, non una “forma essenziale”, né le “leggi necessarie della storia”»63. Ma se, come scrive Laclau: «i meccanismi retorici ci restituiscono l’anatomia del mondo sociale»64, un simile modello “anatomico” finisce per perde di vista “la struttura vivente”, nella misura in cui manca a supporto uno studio specifico dei “dispositivi”, direbbe Foucault, che storicamente rendono possibile l’emergenza di determinati “agenti sociali”.


Inevitabile qui riprendere la stessa critica mossa in generale alla Teoria del discorso, un punto su cui si similmente si sofferma Judith Butler in Contingency, Hegemony Universality. In generale, scrive Butler, risulta problematica l’identificazione, ad esempio, tra la logica di una pratica sociale e la sua grammatica, nella misura in cui come sosteneva Wittgenstein, i significati posseggono un “valore d’uso” che nessuna analisi puramente logica è in grado di restituire. A una tale obiezione Laclau risponde distinguendo attentamente, forse in maniera un po’ troppo cerebrale, tra (in una evidente gerarchia di “astrattezze”) logica, grammatica, discorso e simbolico. “Logica” fa riferimento all’insieme delle relazioni tra entità che rendono possibile il funzionamento effettivo di un dato sistema di regole, in altre parole, citando il biologo francese François Jacob la “logica del vivente”. “Grammatica” è pertanto tale sistema di regole che governa un particolare “gioco linguistico” e che stabilisce le regole che ciascun “attore” deve seguire. In altre parole, se “logica” e “grammatica” fanno riferimento a unità più o meno statiche, la nozione di “discorso” dovrebbe consentire di cogliere quel surplus derivante dal concreto funzionamento delle azioni sociali che sempre sfugge dalla presa della “regola”. Chiamiamo “discorso”, scrive infatti Laclau, l’insieme di queste regole e delle azioni che le implementano, le distorcono, le sovvertono, mentre il “simbolico”, riducendo drasticamente il significato lacaniano, sarebbe semplicemente una “traduzione culturale” (cultural translation). Ma già la parola “traduzione”, tralasciando l’opacità dell’uso del termine “culturale”, ci pare sospetta. Rispetto a questa “gerarchia” così nettamente organizzata, le “logiche” come quella del mercato, della parentela etc. sarebbero “contesto-dipendenti”65. Citando l’analogia che ne Le ricerche filosofiche Wittgenstein individua tra la domanda “che cos’è il mondo realmente” e “che cos’è un pezzo in una scacchiera”, per Laclau sembra essere sufficiente affermare la contestualità, quindi la contingenza, la “posizionalità” ed implicitamente l’uso, delle “regole” per liquidare l’idea di una logica generale che metafisicamente stabilisce il fondamento di ogni possibile linguaggio. E tuttavia qualora si consideri la modalità in cui, soprattutto ne La ragione populista viene minuziosamente descritto il funzionamento di ciò che Laclau chiama la “logica politica” quale ontologia del sociale, una semplice asserzione di “principio” non ci sembra sufficiente. A dispetto delle intenzioni ciò che accade realmente è che Laclau non affronta, per rimanere nell’immagine degli scacchi, le “scacchiere” particolari che esclusivamente a titolo di esempio, sulla base della posizione preventiva di un’unica logica: quella esposta attraverso la Teoria del discorso. Ma non si tratta forse ancora una volta di una struttura trascendente, atemporale, cui le diverse realtà contingenti di volta in volta a posteriori si vengano ad adattare?


Il problema generale, se vogliamo, è ancora una volta la questione dell’universale. Dire che l’universale è contingente, è vuoto, è contaminato è senza ombra di dubbio il punto di partenza ottimale al tempo stesso per scardinare l’universalismo moderno ed eurocentrico, quale una tra le maggiori urgenze delle teorie politiche postcoloniali (citiamo, tra tanti, il volume Provincializing Europe di Chakrabarty 66), in direzione di una effettiva realizzazione del connubio tra democrazia e pluralismo. E tuttavia rimane difficile immaginare che tipo di pratica politica possa effettivamente seguire al momento critico-decostruttivo così come appare in Laclau e Mouffe. Tanto più che il presupposto dell’analisi sembrerebbe essere un ipotetico scenario politico-sociale mondiale apparentemente uniforme, dominato in blocco da un generico capitalismo avanzato, oggetto principale della critica laclauiana, del quale tuttavia non vengono analizzate le specifiche dinamiche. In tal modo così come Laclau scriveva che la modernità non è un blocco unico omogeneo ma dovremmo piuttosto parlare di “numerose” modernità, lo stesso errore sembra essere compiuto in questo senso.


Quando poi, una simile impostazione analitica sia pensata come base e supporto per una pratica politica emancipatoria sorge un’altra serie di problemi a questo connesso. Come immaginare la costruzione del popolo o dei popoli in uno scenario internazionale? Come i rapporti tra popoli? Siamo ancora in un quadro di lotte tra stati-nazione? Come il popolo è garanzia del pluralismo e non piuttosto offra potenzialmente il rischio di una nuova ricaduta in estremismi identitari? Come l’idea di popolo può rispondere a quelle lotte etniche, razziali, sessuali etc. che evidentemente eccedono le dinamiche nazional-popolari e che pur costituivano le premesse di base e le urgenze concrete del lavoro teorico di Mouffe e Laclau?


La questione, ad esempio, di come avvenga all’atto pratico (“ontico” direbbe Laclau) la costruzione del popolo rimane una domanda aperta, demandata anch’essa al gioco della contingenza, e il politico sembra quasi una smithiana mano invisibile che regola il gioco delle identità. Si domandava Gramsci: «può esserci riforma culturale cioè elevamento civile degli stati depressi della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento della posizione sociale nel mondo economico?»67. Che cosa consente per Laclau l’agglutinamento delle domande sociali, la costruzione di una nuova frontiera in grado di produrre una crisi e quindi un mutamento del fronte egemonico, e il movimento emancipatorio? Tutte domande cui non siamo in grado di rispondere stando alle premesse euristiche de La ragione populista. Laclau non ci spiega come debba avvenire all’atto pratico il momento di articolazione equivalenziale delle differenze che consente la costruzione di una identità. Ce ne spiega, diciamo così, la “meccanica”, la razionalità ma non ci suggerisce la serie di operazioni necessarie affinché le domande sociali possano realmente organizzarsi e “sedimentarsi in pratiche ed istituzioni”. E tuttavia possiamo dire che Laclau nel formulare la sua idea di “popolo” abbia ben in mente tanto gli studi sulle masse quanto la nozione gramsciana di “volontà collettiva”, quella di “organicismo” tanto quanto la nozione althusseriana di “totalità complessa”.


È un punto importante perché questa volontà collettiva, intesa come volontà collettiva nazional-popolare, è il punto su cui maggiormente hanno fatto leva gli studi postcoloniali e della subalternità e sul quale risiedono i maggiori fraintendimenti. Non si tratta in alcun modo per Gramsci di un’esaltazione folcloristica del mondo subalterno, come pure ne è stato fatto paladino, «agglomerato indigesto di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia»68, ma di una organizzazione e sistematizzazione in cui la funzione organizzativa e connettiva degli intellettuali, le riforme economiche, morali e intellettuali giocano un ruolo centrale. Lo Stato possiede una funzione educatrice e formativa, è esso stesso che si fa carico dell’emancipazione e della “civilizzazione” (in riferimento alla “società civile”) degli strati subalterni. In questo senso, l’unità dei gruppi egemonici è «il risultato dei rapporti organici tra Stato o società politica e “società civile”. Le classi subalterne per definizione, non sono unificate e non possono unificarsi finché non possono diventare “Stato”: la loro storia pertanto è intrecciata a quella della società civile»69. Similmente scrive Laclau ne La ragione populista: «Ogni spostamento egemonico va immaginato allora come un cambiamento di configurazione dello Stato, posto di concepire quest’ultimo non in un ristretto senso giuridico, come sfera pubblica, ma in un senso lato gramsciano, come il momento etico-politico della società. Da questo punto di vista ogni Stato presenterà dunque quella combinazione di particolarismo e universalità che è inerente a ogni operazione egemonica»70. Per Laclau, è con la teoria dello Stato di Gramsci, non con Hegel né con Marx, che l’articolazione (nel senso che abbiamo visto sinora, e non la dialettica) tra particolare ed universale diviene davvero pensabile. Sostiene infatti Laclau, riportando quello che è in realtà il suo proprio argomento, che per Gramsci «esiste una particolarità, una plebs, che aspira egemonicamente a costituire un populus, mentre il populus (l’universalità astratta) può esistere solo se incarna in plebs»71. E tuttavia affinché la “plebs”, ossia quelle gramsciane masse disorganizzate che Lacalu indica come gli “esclusi” dalla scena istituzionale, possa “aspirare a costituire egemonicamente un populus” dovrebbe perlomeno possedere una qualche forma di autocoscienza del proprio essere una massa informe e disorganizzata. Ma se ci riferiamo a Gramsci, il momento organizzativo di costruzione di questa “volontà collettiva” è un momento di presa di coscienza “esterno” alla plebs stessa che va di pari passo ad una serie di riforme culturali, politico-istituzionali ed economiche che lo preparano e lo accompagnano, di cui ovviamente lo strato popolare non è in grado di farsene carico, da cui il ruolo specifico degli intellettuali. In Laclau ciò che viene a mancare è proprio la teorizzazione concreta di questo momento “etico-politico” di autocoscienza e la creazione di una identità popolare, di un “fronte popolare”, sembra avvenire secondo una sorta di automovimento, di un processo autonomo di articolazione meccanica di domande che prendono «a comporre, seppure in maniera solo abbozzata il “popolo” come potenziale attore storico». Non è ben chiaro come la «frontiera interna antagonistica che separa il “popolo” dal potere»72 sfidando la formazione egemonica esistente possa realmente prendere forma. Rispetto al “come”, Laclau ci dice solo, citando le rivoluzioni del pane nel Settecento francese, che a livello più elementare opera “la forza dell’esempio”, ma ancora una volta è una sorta di “spontaneismo” quello che trapela dal testo che ci fa sentire la mancanza di una teorizzazione efficace del momento organizzativo. Chi o cosa si fa carico di gestire o organizzare il movimento emancipatorio, è irrilevante o piuttosto contingente. Può essere un intellettuale organico, un leader, un principe, un effetto dell’ideologico alla althusseriana maniera che recluta i soggetti, etc., fatto sta che i due autori analizzano la “natura” del legame, lasciandone ai “casi particolari” la gestione contingente. Ma questo punto ci riporta nuovamente alle considerazioni svolte precedentemente. Nonostante il punto sia re-introdurre la contingenza, la storicità e la differenza, nonostante l’universale sia vuoto, contaminato e contingente, si può veramente dire che Laclau sia un “pensatore della differenza”? Se il movimento egemonico è fondamentalmente un movimento equivalenziale (di condensazione delle differenze) come può essere un movimento radicalmente plurale? Come può l’idea di “popolo” farsi carico di una “democrazia veramente radicale plurale”? I termini “radicale” e “plurale” sembrano perdere di cogenza. Nel popolo le differenze scompaiono e non accade forse, alla fine, che anche il popolo, come si domandano Mény e Surel a proposito della Rivoluzione Francese, venga a «scomparire e fondersi nell’entità simbolica e unificatrice della nazione»?73.


In conclusione, come scrive Jean-Loup Amselle, «in queste prospettive d’analisi sopravvivono soltanto i rapporti di forza, le unioni e gli scontri fra le identità concorrenti, nonché la lotta per il riconoscimento: manca una critica in grado di identificare e “smontare” i fattori alla base di tutti questi fenomeni. (…) Metter sullo stesso piano tutte le identità, tuttavia, significa non riuscire più a interrogarsi circa il modo in cui sono diventate quel che sono; c’è da scommetter che di una simile proliferazione di identità frammentarie beneficeranno in primo luogo quanti saranno in grado di propagandare la specificità del proprio modo di vita – gli stessi che godono già di uno status socio-economico privilegiato»74.


NOTE
  1. Laclau, E., La Ragione Populista, Laterza, Bari, 2008, cit. p. XXXIII, corsivo mio. ↩
  2. Laclau, E., On populist reason, Verso, London, 2005; tr. it. Ferrante, D., a cura di Tarizzo, D., La Ragione Populista, Laterza, Bari, 2008. ↩
  3. Laclau, E., Butler, J., Žižek, S., Contingency, Hegemony, Universality. Contemporary Dialogues On The Left, Verso, London, 2000; tr. it Dini, T., Ferrante, D., Garritano, D., a cura di Bazzicalupo, L., Dialoghi sulla sinistra. Contingenza, egemonia, universalità, Laterza, Bari, 2010. ↩
  4. Laclau, E., Mouffe, C., Hegemony and Socialist Strategy, Verso, London, 1985. ↩
  5. Cfr. Hall, S., On Postmodernism and Articulation, in Journal of Communication Inquiry (1986), 10 (2), pp. 45-60. ↩
  6. Cfr. Laclau, E., Mouffe, C., Preface to the Second Edition, in Hegemony and Socialist Strategy, Verso, London, 2001, p. ix. ↩
  7. Cfr. Marchart, O., Post-Foundational Political Thought: Political Difference in Nancy, Lefort, Badiou and Laclau, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2007. ↩
  8. Cfr. Stavrakakis, Y., Lacanian Left. Psychoanalysis, Theory, Politics, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2006. ↩
  9. Althusser, L., Freud e Lacan, in Id. Sulla psicoanalisi, Cortina, Milano, 1994, cit. p.29. ↩
  10. Cfr. De Saussure, F., Cours de linguistique générale, Payot, Paris, 1955, p. 169. ↩
  11. Laclau, E., Politics and Ideology in Marxist Theory, New Left Books, London, 1977. ↩
  12. Althusser, L., Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967, cit. p. 93, corsivo dell’autore. ↩
  13. Ibid., cit. p. 182. ↩
  14. Ibid., cit. p. 179, corsivo mio. ↩
  15. Cfr. Althusser, L., Balibar, E., Leggere il Capitale, Feltrinelli, 1968, cit. p.49. ↩
  16. Ibid., cit. p. 186. ↩
  17. Cfr. Laclau, E., Mouffe, C., Preface to the Second Edition, in Hegemony and Socialist Strategy, Verso, London, 2001, p. x. ↩
  18. Althusser, L., Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967, cit. p. 179. ↩
  19. Ibid., pp. 97-98. ↩
  20. Cfr. Laclau, E., Politics and Ideology in Marxist Theory, New Left Books, London, 1977, p. 99. ↩
  21. Cfr. Clarke, J., Hall, S., Jefferson, T., Roberts, B., Subcultures, Cultures and Class, in Resistance Through Rituals: Youth Subculture in Post-war Britain, Working Papers in Cultural Studies 7/8, University of Birmingham Centre for Contemporary Cultural Studies, 1975, pp. 4 -5. ↩
  22. Cfr. Laclau, E., Power and representation, in Id., Emancipation(s), London, Verso, 1996, pp. 16 e 103. ↩
  23. Amselle, J-L., trad. it Perri, A., Il distacco dall’Occidente, Meltemi, Roma, 2009, cit. p. 184. ↩
  24. Laclau, E., The Death and Resurrection of the Theory of Ideology, MLN, vol. 112, No.3, Apr. 1997, by The Johns Hopkins University Press, cit. p. 320, trad. mia. ↩
  25. Mouffe, C., Laclau, E., Hegemony and Socialist Strategy, Verso, London, 1985, p. 105, trad. mia. ↩
  26. Ibid., cit. p. 106, trad. mia. ↩
  27. Ibid., cit. p. 111, trad. mia. ↩
  28. Ibid., trad. mia. ↩
  29. Cfr. Jameson, F., On “Cultural Studies”Social Text, No. 34 (1993), Duke University Press, pp. 17-52. ↩
  30. Pardi, A., Campo di Battaglia: teoria, produzione e conflitto in Louis Althusser, Ombre corte, Verona, 2008, cit pp. 28-31, corsivo mio. ↩
  31. Cfr. Colletti, L., Intervista politico-filosofica, Laterza, 1974. ↩
  32. Mouffe, C., The Return of the Political, Verso, London, 1993, cit. p. 3, trad. mia. ↩
  33. Ibid., trad. mia. ↩
  34. Cfr. Laclau, E., La ragione populista, Laterza, Bari, 2008, p. 146. ↩
  35. Ibid↩
  36. Tarizzo, D., Populismo chi starà ad ascoltare?, introduzione a Laclau, E., La ragione populista, Laterza, Roma-Bari, 2008, cit. p. XII. ↩
  37. Cfr. Laclau, E., New Reflection on the Revolution of Our Time, Verso, London, 1990, pp. 41-45. ↩
  38. Cfr. Mouffe, C., Laclau, E., Hegemony and Socialist Strategy, Verso, London, 1985, p. xi. ↩
  39. Laclau, E., New Reflection on the Revolution of Our Time, Verso, London, 1990, cit. pp. 33-35. ↩
  40. Ibid., cit. pp. 39 e 60-61. ↩
  41. Cfr. Mouffe, C., Laclau, E., Hegemony and Socialist Strategy, Verso, London, 1985, p. 106. ↩
  42. Laclau, E., Mouffe, C., Post-Marxism without Apologies, in Laclau, E., New Reflection on the Revolution of Our Time, Verso, London, 1990, cit. p. 130, trad. mia. ↩
  43. Ibid., cit. p. 97, trad. mia. ↩
  44. Cfr. Laclau, E., Power and representation, in Id., Emancipation(s), London, Verso, 1996, pp.84-104. ↩
  45. Cfr. Ibid., p. 87. ↩
  46. Ibid., trad. mia. ↩
  47. Mouffe, C., Radical Democracy, in Id., The Return of the Political, Verso, London, 1993, cit. p. 13, trad. mia. ↩
  48. Laclau, E., New Reflection on the Revolution of Our Time, Verso, London, 1990, cit. p. xiv, trad. mia. ↩
  49. Ibid., cit. pp. 32-33, trad. mia. ↩
  50. Cit. da Mouffe, C., The Democratic Paradox, Verso, London, 2000, pp. 2-3, in Laclau, E., La ragione populista, Laterza, Bari, pp. 158-159. ↩
  51. Laclau, E., La ragione populista, Laterza, Bari, cit. p.159-160. ↩
  52. Laclau, E., Why Constructing a People Is the Main Task of Radical PoliticsCritical Inquiry 32 (Summer 2006), University of Chicago, pp. 646 – 680. ↩
  53. Laclau, E., La ragione populista, Laterza, Bari, cit. p. 160. ↩
  54. Cit. da Mouffe, C., The Democratic Paradox, Verso, London, 2000, pp. 95-96, in Laclau, E., La ragione populista, Laterza, Bari, pp. 159-160. ↩
  55. Cfr. Beasley-Murray, J., On Populist Reason, review in Contemporary political Theory, 2006, n. 5, 362-367. ↩
  56. Laclau, E., La ragione populista, Laterza, Bari, cit. pp. 147-148. ↩
  57. Id., cit. p.146. ↩
  58. Laclau, E., La ragione populista, Laterza, Bari, cit. p.xxxiii. ↩
  59. Surel, Y., Berlusconi, Leader populiste? (Paris 2003) cit. in Laclau, E., La ragione populista, Laterza, Bari, p. 168. ↩
  60. Ibid↩
  61. Mény, Y., Surel, Y., Populismo e democrazia, Il Mulino, Bologna 2001, cit. p. 21. ↩
  62. Id., p. 10. ↩
  63. Laclau, E., Mouffe, C., Post-Marxism without Apologies, in Laclau, E., New Reflection on the Revolution of Our Time, Verso, London, 1990, cit. p.129, trad. mia. ↩
  64. Laclau, E., La ragione populista, Laterza, Bari, cit. p. 104. ↩
  65. Laclau, E., Butler, J., Žižek, S., Contingency, Hegemony, Universality. Contemporary Dialogues On The Left, Verso, London, 2000, cfr. pp. 282-284. ↩
  66. Cfr. Chakrabarty, D., Provincializing Europe, Princeton University press, Princeton 2000. ↩
  67. Gramsci, A., Quaderni dal Carcere, vol. terzo, Einaudi, Torino, 2007, p. 1561. ↩
  68. Id., cit. p. 2312. ↩
  69. Id., cit. p. 2288. ↩
  70. Laclau, E., La ragione populista, Laterza, Bari, cit. p 101. ↩
  71. Ibid↩
  72. Id., p. 70. ↩
  73. Mény, Y., Surel, Y., Populismo e democrazia, Il Mulino, Bologna 2001, cit. p. 21. ↩
  74. Amselle, J-L., trad. it Perri, A., Il distacco dall’Occidente, Meltemi, Roma, 2009, cit. p. 173. ↩

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